SOCIETÀ

Le alleanze e le strategie dietro agli accordi tra Israele e i Paesi del Golfo

«Siamo vicini e cugini, siamo i nipoti del profeta Abramo». La prima, storica visita di un primo ministro israeliano negli Emirati Arabi Uniti segna, nella sostanza oltre che nella forma, il rafforzamento di un’alleanza “trasversale” destinata a modificare gli equilibri in Medio Oriente. «La collaborazione e l’amicizia reciproche tra i nostri Paesi sono naturali. E lo sviluppo delle relazioni bilaterali è un tesoro prezioso per noi e per l’intera regione», ha dichiarato il premier Naftali Bennet all’agenzia di stampa Wam, dopo il suo incontro ad Abu Dhabi con il principe ereditario, lo sceicco Mohammed bin Zayed, di fatto leader degli Emirati. Un’alleanza nata nel settembre del 2020 alla Casa Bianca con la sottoscrizione degli “Accordi di Abramo” (il più importante lascito della presidenza Trump), firmati da Israele, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti, con la successiva adesione di Marocco e Sudan. Non soltanto dichiarazioni d’intenti, ma veri (e inusuali) “trattati di pace”, perché siglati tra nazioni che mai, formalmente, si sono trovate in guerra. Quelle firme segnano la fine delle tensioni dovute alla questione palestinese (e questi ultimi, profondamente irritati, hanno parlato di “tradimento”) e la normalizzazione dei rapporti diplomatici, economici e commerciali tra gli Stati coinvolti.

Che gli Accordi di Abramo non siano stati sufficienti a garantire l’evoluzione del processo di pace palestinese è un dato di fatto, rimarcato dallo spaventoso attacco sferrato dall’ex premier Netanyahu lo scorso maggio e terminato dopo 11 giorni di bombardamenti a tappeto sulla striscia di Gaza («Una guerra giusta e morale», la definì King Bibi), con un bilancio di circa 200 vittime, quasi tutti civili, un terzo dei quali erano bambini. Ma allora, perché quei trattati?Perché servono molto, e a molti. Gli Stati arabi hanno firmato, nel 2020, in cambio di una generica promessa che il progetto di annessione dei territori occupati dagli israeliani in Cisgiordania sarebbero stati “congelati” (Netanyahu si rifiutò di sottoscrivere il termine “rinuncia”, preferendo parlare di “momentanea sospensione”, precisando peraltro che si trattava di una richiesta degli Usa). Ma la Palestina è la foglia di fico. Dietro le dichiarazioni di facciata (all’epoca Netanyahu si lasciò prendere la mano dall’enfasi, dichiarando: «E’ una nuova alba di pace, superiamo le divisioni e ascoltiamo il battito della storia») ci sono ben altri interessi, vantaggi e obiettivi. Su tutti, quello di formare un’alleanza in chiave anti-iraniana: per tenere a bada le mire espansionistiche (ideologiche e militari) di Teheran e arginare le sue ambizioni nucleari, accresciute dopo la decisione, sempre di Trump, di abbandonare gli accordi nel maggio 2018. I negoziati di Vienna stentano a ripartire, dal momento che l’Iran rifiuta di sedersi al tavolo con gli Stati Uniti, peraltro ponendo, come precondizione assoluta,  il preventivo annullamento di tutte le sanzioni, anche quelle imposte prima degli accordi, e l’impegno a non imporne altre in futuro. Dunque, trattative praticamente bloccate e un futuro, pericoloso, ancora tutto da decifrare. L’alleanza tra Israele e i paesi del Golfo vuol dire proprio questo: meglio premunirsi, se il peggio dovesse arrivare.


LEGGI ANCHE:


Le ragioni dell’alleanza

Andando a guardare nel dettaglio le singole convenienze che si celano dietro gli Accordi di Abramo: gli Stati Uniti puntano certamente a salvaguardare la sicurezza di Israele (storico e imprescindibile alleato) e a creare le condizioni per un parziale disimpegno nella regione (il segretario di Stato Antony Blinken, in un'intervista rilasciata prima di assumere l'incarico, aveva previsto che la presidenza Biden avrebbe fatto «meno, non di più») garantendosi quindi il sostegno del mondo sunnita moderato. Con gli “Accordi”, Israele ha ottenuto un obiettivo primario: un ampio riconoscimento nel mondo arabo (per decenni le uniche relazioni “formali” erano state soltanto con Egitto e Giordania) e un ruolo di primissimo piano, soprattutto sotto un punto di vista economico: il volume di affari tra Emirati e Israele, soltanto nel 2021, ha sfondato il muro dei 500 milioni di dollari, il triplo di quanto registrato nel 2020. Con il Barhein, l’entità del commercio stimato (non militare, quello è un capitolo a parte) per il 2021 è di oltre 220 milioni di dollari.

Gli stessi Emirati, in cambio del riconoscimento formale di Israele, hanno potuto acquistare 50 aerei da combattimento americani F35, oltre a 18 droni MQ-9, lo stesso modello usato dagli americani per eliminare il generale iraniano Qasem Soleimani, nel gennaio 2020. Il Marocco ha invece ottenuto il riconoscimento formale, da parte della Casa Bianca (c’era ancora Donald Trump), della sovranità sul Sahara occidentale: una “manovra spericolata” che ha cancellato trent’anni di sforzi, sotto l’egida del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, per cercare una soluzione reciprocamente accettabile tra Marocco e Fronte Polisario, un movimento politico che reclama il diritto all’autodeterminazione del popolo Saharawi (e che perciò continua a combattere). Infine il Sudan, non proprio un “partner naturale” per Gerusalemme. Un breve passo indietro: settembre 1967, pochi mesi dopo la sconfitta araba nella Guerra dei sei giorni (giugno di quell’anno). A Khartoum, capitale del Sudan, si riunisce il vertice della Lega Araba, che si conclude con la celebre risoluzione dei “Tre no”: nessun riconoscimento di Israele, nessun negoziato con Israele, nessuna pace con Israele. Cinquantaquattro anni dopo la situazione, evidentemente, è cambiata. Al punto che lo scorso gennaio il Sudan ha deciso di entrare nel “club”, quindi di riconoscere Israele, ottenendo in cambio l’uscita dalla “black list” dei paesi che supportano il terrorismo, che gli impediva qualsiasi accordo con le organizzazioni internazionali. Quindi, in soldoni, scegliendo di “barattare” le proprie convinzioni in cambio di aiutialimentari, di fondi indispensabili per sostenere un’economia allo stremo e ottenere così finanziamenti necessari ai progetti di sviluppo.

L’Arabia Saudita tiene il punto e prende tempo

Mancherebbe soltanto il sì dell’Arabia Saudita, la principale potenza sunnita, che per peso politico ed economico darebbe ulteriore solidità all’intesa (e perciò continuano incessanti i colloqui con gli Stati Uniti). Ma il regno saudita continua a prendere tempo, da un lato per evitare che l’adesione possa essere letta, internamente, come un segno di debolezza. Ma soprattutto perché almeno finora, nonostante condivida la “minaccia iraniana”, si è mostrato meno disponibile a rimangiarsi posizioni politiche e ideologiche che ha difeso per decenni. Al punto che ancora domenica scorsa il rappresentante dell'Arabia Saudita alle Nazioni Unite, Abdallah Al-Mouallimi, ha ribadito: «L’intero mondo musulmano normalizzerà le relazioni con Israele una volta che si ritirerà all’interno dei confini segnati prima del 1967, con la costituzione di uno Stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme est. Non appena ciò accadrà non soltanto l’Arabia Saudita, ma tutti i 57 paesi dell’Organizzazione di cooperazione islamica riconosceranno lo Stato di Israele». Non proprio una porta aperta, anzi.

Dunque un dialogo ancora in ripida salita, che avrà bisogno ancora di molti sforzi di diplomazia (o di qualche repentina crisi) prima di far segnare dei passi in avanti. Nel frattempo, l’obiettivo è allargare il più possibile l’alleanza contro Teheran. E in questa cornice s’inserisce il colloquio di poche ore fa tra il premier israeliano Bennett e il neo cancelliere tedesco Olaf Scholz. «È necessario compiere tutti gli sforzi possibili per impedire all’Iran l’accesso alle armi nucleari», ha ribadito Bennett. Nella sua recente visita ad Abu Dhabi, il primo ministro israeliano non aveva invece fatto alcun cenno alla questione iraniana (né tantomeno a quella palestinese), limitandosi a celebrare la nuova vicinanza con gli Emirati, sottolineando che «i valori di tolleranza, pace e dialogo sono comuni, ed è per questo che l’amicizia che ci unisce si è sviluppata così velocemente». Pace e dialogo che non sembrano aver ispirato il ministro della difesa Benny Gantz, che pochi giorni fa ha ordinato all’esercito israeliano di prepararsi per un possibile attacco contro l’Iran. «I colloqui di Vienna non hanno segnato alcun progresso» ha dichiarato Gantz. «Attualmente l’Iran è in una situazione economica difficile: perciò è fondamentale aumentare la pressione internazionale - diplomatica, economica e militare - in modo che fermi le sue fantasie sul programma nucleare». Un’uscita che ha creato apprensione a livello internazionale e tensioni palesi tra Gerusalemme e Washington, con gli Usa accusati di eccessivo “attendismo”, mentre gli israeliani vorrebbero una linea assai più dura e intransigente. Perfino il presidente israeliano, Isaac Herzog, ha detto all’ambasciatore americano a Gerusalemme: «Se la comunità internazionale non riuscirà a contrastare le ambizioni nucleari di Teheran con mezzi diplomatici, Israele agirà da solo contro l’Iran». Insomma, il focus, il bersaglio dell’intera operazione resta lì, a Teheran. Con buona pace dei diritti dei palestinesi o del popolo saharawi, relegati sullo sfondo della scena, poco più che comparse, lasciati al loro destino, alle loro battaglie, ai loro legittimi sogni che avranno ancora bisogno, oggi ancor più di ieri, di enormi fatiche e di smisurati dolori prima di sperare di poter diventare realtà.

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012