CULTURA

Un altro modo di essere umani. Vita, arte, amore e morte dei Neanderthal al Premio Galileo

“A più di 160 anni dalla loro (ri)scoperta, la nostra ossessione per i neandertaliani non si è ancora placata. È una storia d’amore più lunga di una vita, ma in confronto al vasto periodo in cui popolarono la terra – socchiudendo gli occhi al sorgere del sole, respirando l’aria a pieni polmoni, lasciando impronte nel fango, nella sabbia e nella neve – non è che un sussulto della lancetta dei secondi sul grande orologio del Tempo”.

È con la sua opera Neandertal. Vita, arte, amore e morte che l’archeologa e divulgatrice scientifica britannica Rebecca Wragg Sykes si è aggiudicata un posto nella cinquina finalista del premio Galileo di quest’anno. Il libro, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri con la traduzione di Francesca Pe’, nasce con l’intento di rispondere a una grande domanda: “chi erano davvero i neandertaliani?” e di demolire alcuni degli stereotipi più diffusi nell’immaginario comune che li riguardano, come l’idea che fossero rozzi, capaci di lavorare la pietra solo in modo primitivo oppure, come ipotizzavano gli archeologi ottocenteschi, che rappresentassero l’anello mancante tra gli esseri umani moderni e le scimmie.

Non è così. L’albero genealogico delle specie umane è molto più complesso e ramificato di quanto immaginiamo. I Neanderthal e gli Homo sapiens hanno un antenato comune molto più recente della scimmia: l’Homo ergaster, vissuto circa 2 milioni di anni fa. D’altronde, spiega Wragg Sykes, “l’evoluzione non seguì un percorso lineare, una Strada Maestra che portò dritto a noi. Al contrario, esistevano molti percorsi simultanei, alcuni dei quali finirono in un vicolo cieco, mentre altri come i neandertaliani svilupparono un corpo e una mente specifici, all’altezza dei nostri”.

Artigiani, sperimentatori, esploratori e, chissà, forse persino artisti. Quella dei Neanderthal è senza dubbio la specie umana estinta più famosa e capace di affascinare l’immaginario comune. Vissuti tra i 450mila anni fa e i 40.000 anni fa, per un totale di 350mila anni dall’Eurasia, al Galles, fino ai confini della Cina e dell’Arabia, i neandertaliani erano in grado di vivere in climi e territori molto differenti e di adattare il loro stile di vita a diverse condizioni ambientali.

Grazie al progresso scientifico e tecnologico in archeologia e paleontologia, chi fa ricerca in questo campo oggi può avvalersi di strumenti tecnici altamente avanzati che permettono di ricostruire la storia dei Neanderthal con un livello di precisione mai raggiunto prima e di formulare ipotesi piuttosto accurate su ciò che riguardava la loro dieta, il comportamento sociale, la moda, il linguaggio, e il senso estetico.

Non un gruppo di sempliciotti buoni a nulla su un ramo avvizzito dell’albero genealogico, ma antichi parenti dotati di un’enorme capacità di adattarsi e persino di prosperare Rebecca Wragg Sykes, “Neandertal. Vita, arte, amore e morte”, Bollati Boringhieri 2021

Avventurandoci tra le pagine del libro, viaggiamo tra i siti neandertaliani più famosi e misteriosi, come quello di Le Moustier, in Francia, dove lo studioso di preistoria Denis Peyrony scoprì, nel 1914, dei resti di ossa di un neonato neandertaliano, la cui “esistenza tragicamente rovesciata” gli ha assicurato “una vita dopo la morte molto più lunga di quella che riuscì effettivamente a vivere”.  Oltre alla strana storia di questi reperti, di come scomparvero e poi riapparvero quando meno ci si aspettava, scopriamo perché i resti di bambini e adolescenti sono tanto rari quanto preziosi per gli studiosi di preistoria. Questi ritrovamenti fossili sono fondamentali per capire non solo che aspetto avessero i neandertaliani, ma anche come i loro corpi crescessero e si sviluppassero nel tempo. E non solo, confrontando i corpi di bambini e adolescenti con quelli degli adulti e degli anziani, chi fa ricerca in questo campo tenta anche di distinguere quali caratteristiche morfologiche fossero geneticamente codificate nel loro DNA e quali venivano invece sviluppate con il tempo, a seconda delle condizioni ambientali e degli stili di vita che modellavano e tempravano il loro fisico.

Ad esempio, sappiamo che lo sviluppo dei bambini neandertaliani era un po’ più veloce rispetto a quello dei piccoli sapiens, e che anche gli adolescenti erano un po’ goffi e sgraziati, e per questo non è così sbagliato immaginarseli con i brufoli e tutte le altre conseguenze fisiche e comportamentali causate delle tempeste ormonali che caratterizzano quel periodo della vita. Altrettanto preziosi sono poi gli scheletri degli anziani, che suggeriscono che i neandertaliani invecchiassero in modo molto simile a noi.

Se ci trovassimo davanti a un Neanderthal, non avremmo dubbi nel riconoscerlo come un essere umano, nonostante la statura più bassa della nostra, gli occhi infossati, una protuberanza sulla nuca e il torace più grosso. Abbiamo in comune con loro più di quanto immaginiamo: a quanto pare il loro cervello aveva le stesse dimensioni del nostro. Inoltre, grazie alle tecnologie che permettono di studiare il DNA tratto dai reperti fossili, sappiamo che la popolazione neandertaliana presentava una grande varietà dei caratteri genetici: ce n’erano alcuni che avevano i capelli rossi e le lentiggini e altri dalla chioma corvina e la pelle scura.

Ma le somiglianze non si limitano solo all’aspetto fisico. Ad esempio, anche la dieta neandertaliana era piuttosto simile a quella di homo sapiens e molte abitudini culturali e sociali, comprese quelle legate all’organizzazione familiare, ai comportamenti riproduttivi e alle pratiche funerarie, erano molto più complesse di quanto crediamo. Le tecniche archeologiche, stratigrafiche e paleografiche più avanzate sui Neanderthal ci aiutano a capire come cacciavano, cosa mangiavano, come utilizzavano il fuoco, organizzavano gli spazi domestici e persino che erano abituati a buttare la spazzatura, a tenere le loro case pulite e in ordine e a riciclare oggetti e materiali di scarto.

Gran parte delle informazioni sulla loro cultura provengono dallo studio dei manufatti litici ritrovati nei siti neandertaliani, che testimoniano una grande abilità manuale e la capacità di intagliare, affilare e levigare per costruire strumenti diversi adatti a diversi scopi: cacciare, tagliare la carne, costruire.

I Neandertal non erano né rozzi né fissi e invariabili. La loro era una danza dinamica con la pietra, un valzer su ritmi diversi che univa fattori esterni con idee, scelte, peculiarità Rebecca Wragg Sykes, “Neandertal. Vita, arte, amore e morte”

La capacità di produrre manufatti di alta qualità e fabbricare anche oggetti composti da diversi materiali oltre alla pietra, denotano che la capacità cognitiva dei Neanderthal era avanzata almeno quanto quella dei primi homo sapiens, e che fossero quindi capaci di pianificare, progettare, immaginare e trasmettere le conoscenze, per quanto non è possibile sapere se i giovani neandertaliani apprendessero le tecniche di lavorazione dei materiali osservando gli adulti oppure se le conoscenze venissero trasmesse intenzionalmente da un individuo all’altro.

Gli archeologi hanno inoltre scoperto che il modo in cui i Neanderthal reperivano i materiali e costruivano gli oggetti aveva alcune specificità a seconda della regione e del periodo di riferimento; tali evidenze suggeriscono quindi l’esistenza di tradizioni culturali.
Questa riflessione ci conduce al sito neandertaliano in assoluto più inaspettato e misterioso: la grotta di Bruniquel, nella valle dell’Aveyron, nella Francia sudoccidentale. In questo luogo, circa 174.00 anni fa, quasi 400 stalagmiti furono staccate dai neandertaliani e disposte sul pavimento in modo da formare due grandi anelli. Le analisi condotte a partire dal 1990, anno in cui è stata scoperta la grotta, hanno permesso di accertare che questa complessa architettura sia stata costruita intenzionalmente. Il mistero dietro a questo luogo è ancora da accertare. La caverna, per la sua conformazione e la sua posizione, non si presta all’uso abitativo. Allora perché un gruppo di neandertaliani avrebbe passato almeno sei o sette ore a costruire questa struttura? Possibile che fossero ispirati da quel desiderio di trascendenza, comune a tutti i popoli e le culture umane? E il modo in cui sono disposte le stalagmiti potrebbe forse essere dovuto a una motivazione estetica? Dopotutto, esistono altre evidenze che potrebbero confermare questa teoria; infatti, in diversi contesti neandertaliani gli archeologi hanno potuto accertare l’uso di pigmenti, conchiglie, artigli e piume di uccelli per colorare e decorare.

Ma allora, quando pensando ai neandertaliani, non possiamo non porci una domanda: perché si sono estinti? Questi ominidi avevano un fisico massiccio e resistente, erano abili costruttori e cacciatori, avevano una dieta variegata ed erano soliti prendersi cura degli anziani (un’abitudine estremamente vantaggiosa dal punto di vista evolutivo, poiché i membri più anziani del gruppo si rendevano utili non solo occupandosi dei bambini mentre i genitori erano a caccia, ma anche perché rappresentavano un bagaglio ambulante di conoscenze e di esperienze preziose per la sopravvivenza).

Cos’è, allora che hanno sbagliato i Neanderthal? Come spiega Wragg Sykes tra le pagine finali del libro, non esiste una risposta semplice a questa domanda, e probabilmente non scopriremo mai le vere ragioni della loro fine. Forse, dovremmo piuttosto concentrarci sulle ragioni per cui sono sopravvissuti per centinaia di migliaia di anni, più che sulle cause della loro estinzione. E non possiamo neanche dirli completamente scomparsi. La loro eredità è ancora viva dentro di noi, visto che la maggior parte delle persone sul pianeta conserva ancora, nel proprio patrimonio genetico, una piccola percentuale di DNA neandertaliano.

Eppure, continuiamo a domandarci il perché della loro estinzione e non senza una certa dose di timore per la nostra sorte. “Osservarli significa incontrare un riflesso spettrale e molteplice delle nostre speranze e delle nostre paure, scatenate non solo dal loro destino apparente, ma anche dal nostro”, riflette l’autrice. E forse dovremmo far tesoro delle sue parole a maggior ragione quando ci ricorda che “questo futuro di sole rovente, città soffocanti, inondazioni, tempeste e forse altre pandemie è come un bisonte che sta per caricarci. Se non ci muoviamo in fretta, i figli dei nostri figli finiranno incornati. E il sangue che si spargerà a terra sarà davvero quello degli ultimi Neandertal”.

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