SCIENZA E RICERCA

L'Artico è in fiamme: le conseguenze sul climate change

Solo pochi giorni fa in un nostro reportage sul clima abbiamo cercato di quantificare quanta CO2 possiamo ancora emettere nell’atmosfera prima di raggiungere il fatidico aumento di 1,5° C di temperatura rispetto all’era preindustriale. I numeri parlano chiaro: abbiamo il 66% di possibilità di raggiungere l’obiettivo massimo (aumento di 1,5 °C) se le emissioni ulteriori di CO2 non superano le 320 Gt (miliardi di tonnellate). Le possibilità si riducono al 50% se le emissioni ulteriori raggiungeranno le 480 Gt e scendono al 33% se le emissioni toccheranno le 740 Gt.

I miliardi di tonnellate di CO2 emessi nel 2018 sono stati 42. Insomma, se continuassimo così tra sette anni e mezzo (ovvero nel 2026) avremmo raggiunto quota 320. Quello che non avevamo calcolato però, era il pericolo che sta provenendo dagli incendi che da qualche giorno sono divampati in Siberia.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

A questa domanda hanno risposto di recente su Nature Joeri Rogelj, del Grantham Institute for Climate Change and the Environment, dell’Imperial College di Londra e un gruppo di suoi colleghi di diversi paesi. La risposta è articolata. Abbiamo il 66% di possibilità di raggiungere l’obiettivo massimo (aumento di 1,5 °C) se le emissioni ulteriori di CO2 non superano le 320 Gt (miliardi di tonnellate). Le possibilità si riducono al 50% se le emissioni ulteriori raggiungeranno le 480 Gt e scendono al 33% se le emissioni toccheranno le 740 Gt. Calcolando che lo scorso anno (2018) le emissioni totali di CO2 sono state pari a 42 Gt, se questo tasso di emissione dovesse restare invariato, tra sette anni e mezzo (ovvero nel 2026) avremmo raggiunto quota 320. Quindi non dovremmo immettere più neppure una tonnellata di CO2 per conservare una probabilità del 66% di evitare che la temperatura salga di ulteriori 0,4 °C e raggiunga l’obiettivo massimo di 1,5 °C. Al contrario se continuiamo a immettere CO2 ai ritmi attuali, entro il 2031 avremo raggiunto il budget massimo per avere una possibilità del 50% di restare entro gli 1,5 °C. Nel 2037 la probabilità di raggiungere l’obiettivo degli 1,5°C scenderebbe al 33%. Poi non ci sarebbe più praticamente nulla da fare. Il limite massimo individuato dall’IPCC sarebbe inevitabilmente superato. Link dell'articolo su @ilbolive https://ilbolive.unipd.it/it/news/clima-futuro #climate #climatechange#globalwarming #clima #climate#climatechaos#everydayclimatechange#globalwarming #climatestrike#climatestrikeitaly #fridaysforfuture

Un post condiviso da Antonio Massariolo (@antoniomassariolo) in data:

Nella regione della Jacuzia circa tre milioni di ettari di foresta stanno bruciando (dato rilasciato dalla Russia Federal Forestry Agency). Tre milioni di ettari significano un’area più grande della Sicilia ed in merito è molto esplicativa è una foto scattata dal satellite Copernicus Sentinel-3 dell’Esa, che rende l’idea delle dimensioni del fenomeno.

Il fuoco divampato a nord rischia quindi di aggravare non di poco la situazione del nostro clima. Gli incendi infatti, secondo una stima della World Meteorological Organization, nel solo giugno scorso hanno emesso 50 milioni di tonnellate di Co2. Per fare un paragone concreto, la Svezia nel 2017 di milioni di tonnellate di CO2 ne ha emesse 42. La stima degli incendi di fine luglio inoltre, sembra essersi alzata a 100 milioni di tonnellate, cioè la produzione totale del Belgio sempre nel 2017.

Il fuoco divampato infatti sta avanzando velocemente bruciando non solo gli alberi ma anche la torba. La torba è un deposito che ha all’interno diversi tipi di materiale organico, come ad esempio carcasse di animali o insetti, non totalmente decomposto, per cui estremamente ricco di carbonio.

Per stessa ammissione di Dmitry Nikolaevich Kobylkin, ministro delle Risorse naturali e dell'ambiente della Federazione Russa: “La situazione più difficile è nella regione di Irkutsk, nel territorio di Krasnoyarsk, nella Repubblica di Sakha (Yakutia) e in Buriazia”.

“Nonostante le misure adottate - continua la nota presente nel sito del governo russo -, permane la minaccia dell'inquinamento da fumo degli insediamenti”.

La causa degli incendi, per quanto riguarda le regioni siberiane, sembra essere stata attribuita a dei fattori naturali. Le condizioni insolitamente calde e secche in alcune parti dell'emisfero settentrionale hanno infatti favorito gli incendi che si sono sviluppati nel circolo polare Artico. Il sistema di monitoraggio dell’atmosfera Copernico all’11 luglio scorso aveva segnalato più di 100 incendi intensi e di lunga durata, che hanno emesso più CO2 di tutti gli incendi accaduti nella stessa zona e nello stesso periodo tra il 2010 ed il 2018.

La Siberia però non è stato l’unico luogo colpito. Anche in Alaska sono stati registrati da inizio anno più di 400 incendi, con temperature che hanno raggiunto, il 4 luglio scorso, i 32 °C. Ondata di caldo record che è presente in tutta Europa e che ha visto, il 25 luglio, raggiungere temperature superiori ai 40° C in Belgio, Germania, Lussemburgo ed Olanda. 

A Parigi inoltre si sono raggiunti i 42.6 °C, cioè la temperatura massima raggiunta nella capitale francese da quando è attiva la stazione meteorologica (1869, il record precedente era di 40.4 °C).

Temperature record in Groenlandia

Come abbiamo già avuto modo di analizzare quindi, uno degli aspetti principali del cambiamento climatico sarà l’innalzamento delle temperature. Quest’innalzamento però non sarà costante in tutto il globo, bensì sarà più evidente alle alte latitudini (ai poli). 

Come sappiamo le temperature medie sono già aumentate di 1,1 °C rispetto all’epoca preindustriale e la situazione non si sta certo arrestando.  Facendo degli esempi concreti ma riferiti solamente ad un breve periodo (luglio 2019), in questo mese la stazione situata a 900 km dal Polo Nord ha misurato una temperatura di 16 °C, mentre in Groenlandia, e più precisamente a Qaarsut, la stazione meteo ha registrato 20.6 °C il 30 luglio scorso.

Le alte temperature alle alte latitudini sono quindi un campanello d’allarme da non sottovalutare.

Il feedback positivo

Più aumenta la temperatura infatti e più alto è il rischio che si inneschi un effetto retroattivo. In gergo tecnico questo si chiama feedback positivo, cioè un processo che è in grado di amplificare gli effetti di una forzante climatica.

Facendo l’esempio dei ghiacciai polari lo scioglimento del permafrost, cioè di quel terreno ghiacciato al cui interno ci sono sedimenti congelati dei fondali marini, rimasti indisturbati dall'ultima era glaciale, causerebbe un rilascio di enormi masse di metano, un gas estremamente “riscaldante” che avrebbe un grande feedback positivo sul clima (è bene in questo caso non lasciarsi distrarre dal termine “positivo”, gli effetti com’è ovvio che sia, sarebbero decisamente negativi per il nostro pianeta e di conseguenza anche per l’uomo).

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