SCIENZA E RICERCA

Le attività umane hanno cambiato più di metà degli ecosistemi fluviali nel mondo

Tutti gli ecosistemi del pianeta, per quanto differenti l’uno dall’altro, sono legati fra loro in una fitta rete di interrelazioni. Il declino della biodiversità e la modificazione degli ambienti, processi in molti casi innescati da perturbazioni dovute all’attività dell’uomo, si stanno verificando – con un’ampia portata e con una rapidità sempre maggiore – in ogni parte del pianeta. Oggi non c’è ambiente della Terra che non porti l’impronta dell’attività umana.

Uno studio condotto da un gruppo di ricerca internazionale e pubblicato da Science concentra l’attenzione sullo “stato di salute” degli ecosistemi fluviali del pianeta: questi, a dispetto dell’estensione ridotta (fiumi e laghi coprono solo circa l’1% della superficie terrestre), sono la dimora di moltissime forme di vita, e rappresentano dunque bacini essenziali per la biodiversità. Gli ecosistemi d’acqua dolce, infatti, ospitano circa 18.000 specie ittiche, che corrispondono a circa un quarto di tutti i vertebrati esistenti. Inoltre, la diversità di forme di vita contenuta negli ambienti fluviali e lacustri è essenziale dal punto di vista degli equilibri ecosistemici, poiché contribuisce alla produzione di biomassa e alla regolazione delle catene trofiche e dei cicli biogeochimici. La funzionalità degli ecosistemi è importante anche per le società umane, il cui benessere dipende in larga parte dall’erogazione dei servizi ecosistemici, definiti nel Millennium Ecosystem Assessment del 2005 come “i benefici multipli forniti dagli ecosistemi al genere umano”.

Come sottolineano gli autori dello studio su Science, fiumi e laghi sono da secoli sottoposti all’impatto delle attività umane, realizzatesi sotto forma di estrazione di specie native ed introduzione di specie aliene, ma anche come modificazione del contesto naturale attraverso il cambiamento dell’utilizzo dei suoli, l’alterazione dei corsi d’acqua, la frammentazione degli ambienti con l’introduzione di dighe, l’inquinamento di acque e terreni e la modificazione del clima.

Il lavoro quantifica i cambiamenti a cui le comunità biologiche sono andate incontro a seguito di queste pressioni: i ricercatori, infatti, hanno sviluppato un indice (denominato Cumulative Change in Biodiversity Facets, CCBF) che consente di analizzare la biodiversità non solo da un punto di vista tassonomico, ma anche sotto gli aspetti filogenetici e funzionali, in termini sia di ricchezza sia di diversità delle specie. Sono stati presi in considerazione i cambiamenti avvenuti negli ultimi due secoli in 2.456 bacini di tutto il mondo, che ospitano più di 14.000 specie, cioè più dell’80% delle specie di pesci d’acqua dolce.

Ad ogni ambiente è stato assegnato un punteggio da 0 a 12, calcolato in base all’indice CCBF: un punteggio più alto corrisponde a più profondi cambiamenti in più di uno degli aspetti considerati. I risultati della valutazione sono eloquenti: più della metà (il 52,8%) dei bacini idrografici studiati presenta un valore superiore a 6, «rivelando impatti antropogenici ampi e geograficamente diffusi sulla diversità ittica», commentano gli autori. I bacini per i quali è stato riscontrato un impatto basso o trascurabile corrispondono al 13,4% della superficie terrestre coperta dai bacini idrografici; si tratta, per di più, di bacini piccoli e relativamente poveri in biodiversità (ospitano il 21,7% della fauna ittica mondiale). Inoltre, i maggiori cambiamenti in termini di biodiversità sono stati registrati nelle ecozone neartica, paleartica e australiana: in queste regioni ecologiche, infatti, più del 60% dei fiumi censiti presenta un punteggio dell’indice CCBF superiore a 6.

L'intervista completa a Lorenzo Zane. Montaggio di Barbara Paknazar

In generale, la biodiversità ha subìto mutamenti più profondi nelle zone temperate che in quelle tropicali, un dato che mostra una tendenza inversa rispetto a quanto avviene negli ecosistemi terrestri e marini. Il professor Lorenzo Zane, docente di Ecologia all’università di Padova, espone le ragioni di questa divergenza tra ecosistemi fluviali e terrestri: «La differenza riscontrata nelle valutazioni dipende innanzitutto dalle condizioni geografiche ed ecologiche dei biomi presi in esame. Per quanto riguarda gli ecosistemi terrestri, si tende solitamente a concentrare l’attenzione su biomi particolarmente ricchi in specie, che si trovano nelle fasce climatiche tropicali. In quei luoghi, l’impatto antropico è molto elevato: pensiamo alla perdita di habitat legata ad attività come la deforestazione, alla modificazione della destinazione d’uso dei terreni. Nel caso degli ambienti fluviali, invece, è proprio nelle aree geografiche temperate che si registrano gli impatti più profondi. In queste regioni, infatti, è probabile trovare corsi d’acqua profondamente antropizzati a causa di interventi di modificazione risalenti all’ultimo secolo, ma di attività antropiche risalenti a periodi precedenti: è il caso dell’introduzione intenzionale di specie aliene per attività di pesca a fini di necessità o per motivi ricreativi. Nelle zone tropicali, le attività umane insistono più sugli ecosistemi terrestri che su quelli fluviali: grazie a bacini più ampi, ad una collocazione geografica più remota, o a un’urbanizzazione ancora non molto estesa, questi hanno subito (finora) un minore impatto antropico».

Gli autori della ricerca sottolineano come la modificazione degli ecosistemi possa avere effetti non lineari: può accadere, infatti, che l’alterazione della comunità biologica non si rifletta in una diminuzione netta e ben visibile del numero di specie. Al contrario, dai risultati dell’analisi emerge come, in più della metà dei fiumi, vi sia un aumento della diversità locale, dal punto di vista tassonomico, filogenetico e funzionale. «È un aspetto molto importante», commenta il professor Zane. «Una perturbazione antropica determina qusi sicuramente un cambiamento: questo non corrisponde necessariamente a una diminuzione della biodiversità, ma a volte porta ad un aumento delle specie presenti. La principale causa di questo fenomeno è l’introduzione di specie invasive. Il punto è che la comunità biologica, nel tempo, si modifica naturalmente: in presenza di un impatto antropico questi cambiamenti sono più rapidi, e ad essi possono essere associati anche mutamenti nei servizi ecosistemici, cioè le funzionalità e i benefici che l’uomo può trarre da un determinato ecosistema. Bisogna considerare, infatti, che l’introduzione di nuove specie genera quasi sempre un effetto a cascata, che porterà nel tempo a una modificazione dell’intera comunità biotica. Non è detto che le specie invasive riescano a sostituirsi completamente, soprattutto per quanto riguarda le funzioni svolte, alle specie native, ma possono comunque determinare un aumento locale della biodiversità dal punto di vista funzionale e filogenetico: modificando la funzionalità biologica, infatti, si può modificare l’equilibrio tra i membri dell’ecosistema».

La review pubblicata sulla rivista americana non si limita a presentare i termini del problema: in conclusione del lavoro, infatti, i ricercatori evidenziano la necessità di prendere provvedimenti per proteggere e conservare gli ecosistemi d’acqua dolce, fondamentali per la biodiversità globale ed essenziali anche per il benessere delle società umane. Bisogna affrontare, tuttavia, una situazione paradossale: nell’ottica di attuare entro il 2030 un piano di protezione che copra il 30% degli ecosistemi terrestri, bisognerebbe impegnarsi a conservare non soltanto i bacini ancora non modificati dall’impronta dell’uomo, ma anche quelli già profondamente mutati. Zane espone chiaramente il dilemma: «L’obiettivo del “30% entro il 2030” mira a un risultato semplice ed efficace: proteggere il più possibile. Se si approfondisce la questione, tuttavia, si nota come questo significherebbe impegnarsi a proteggere aree che sono già degradate, come molti dei fiumi che si trovano in zone temperate. Ci sono due aspetti da considerare, in tal senso: da una parte, tutelare questi ambienti fa sì che venga preservata la comunità biologica attuale, che, pur se diversa rispetto a quella originaria, potrebbe ancora fornire servizi ecosistemici importanti; d’altro canto, bisogna mettere in atto interventi di ripristino, che mirano a ricreare, almeno in alcune aree, condizioni simili a quelle iniziali (con la consapevolezza che, in ogni caso, molti dei cambiamenti occorsi sono irreversibili) e, accanto ad essi, interventi di mitigazione. Sarà difficile riportare gli ecosistemi alla loro condizione originaria; tuttavia, così come abbiamo modificato gli ambienti a nostro vantaggio nel corso di centinaia e migliaia di anni, possiamo continuare a farlo in una direzione che vada a beneficio e a tutela delle altre specie, e non solo di quella umana».

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