Abbiamo una nuova evidenza scientifica: l’influenza umana ha già avuto un impatto significativo nella diminuzione della neve. Lo studio, pubblicato su Nature, si concentra sull’emisfero settentrionale e conferma che il cambiamento climatico causato dall'uomo ha influenzato i modelli di neve, con un chiaro declino nel manto nevoso in almeno 31 bacini fluviali.
Sappiamo che la neve è una sentinella per il cambiamento climatico ma capirne a fondo le cause della sua perdita ed eventualmente analizzare se questa è dovuta all’azione umana non è semplice. Quello da cui bisogna partire però è l’analisi dei 169 maggiori bacini fluviali dell'emisfero settentrionale. In 89 di questi si è notata, dal 1981 al 2020, una netta riduzione della neve e in 31 di questi lo studio attribuisce questa perdita chiaramente all’influenza umana.
Inoltre, i ricercatori hanno scoperto anche che, quando una zona si riscalda a una temperatura media di meno 8 gradi, per l'intero inverno, sembra raggiungere un punto critico in cui la neve inizia a sciogliersi rapidamente.
"Oltre quella soglia, vediamo praticamente tutti precipitare in un baratro", ha detto Justin Mankin, professore di geografia al Dartmouth College e co-autore dello studio al New York Times.
Insomma, esaminando la relazione tra le temperature medie invernali e la sensibilità del cambiamento della neve alla variazione della temperatura, si è riusciti a comprendere perché la rilevazione della neve sia stata finora difficile da studiare e perché anche livelli modesti di riscaldamento ora fanno prevedere delle perdite di neve molto più marcate nel futuro. La reattività della neve ad anche solo 1 °C di riscaldamento dipende dalle temperature climatologiche invernali. Al di sotto delle temperature storiche di circa -8 °C, il manto nevoso primaverile è poco influenzato dal riscaldamento; tuttavia, ogni ulteriore aumento di 1 °C oltre quel punto comporta delle perdite accelerate.
Questo ha fatto capire agli scienziati anche il fatto che la neve sia relativamente insensibile al riscaldamento al di sotto delle temperature climatologiche invernali di circa -8 °C. Questo aiuta a spiegare la mancanza di chiare tendenze della neve, sempre parlando a livello emisferico settentrionale, nonostante il sostanziale riscaldamento visto finora: in pratica ciò significa che oltre l'80% della massa nevosa di marzo nell'emisfero settentrionale si trova in luoghi che stanno prima del punto di flessione studiato. In queste regioni, il riscaldamento ha scarso effetto ma lo studio analizza che gran parte del restante 20% della massa nevosa emisferica si trova appena a oltre il “famoso” punto di flessione a -8 °C, il che significa appunto che anche aumenti marginali di temperatura implicano perdite sempre più grandi di neve.
“ Meno neve in inverno significa anche siccità più marcate in estate
Nella maggior parte dell'Ovest americano, ma non solo, il manto nevoso ha storicamente agito come una riserva ghiacciata che immagazzina acqua durante l'inverno e la rilascia in primavera ed estate, quando la domanda è più alta. Questo significa banalmente che quando la neve non si accumula durante l'inverno, le siccità durante l'estate possono essere più marcate. Un concetto che sembra banale ma che spesso rischiamo di dimenticare.
Meno neve significa meno acqua, e non solo nelle aree oggetto dello studio pubblicato su Nature.
Se infatti il manto nevoso nell’emisfero settentrionale ha avuto gravi perdite, vediamo come stanno le “nostre” montagne: dalle Alpi agli Appennini. Per fare ciò ci viene in aiuto la Fondazione Cima che, in un report basato sui dati del Dipartimento della Protezione Civile, ha messo in luce come la neve scarseggi in entrambe le “nostre” catene montuose.
“Se a dicembre le analisi condotte da Fondazione CIMA indicavano un deficit del -44% a livello nazionale - scrivono dalla Fondazione -, oggi il valore è in lieve ripresa: -39%”. Insomma, meglio rispetto a un mese fa, ma molto peggio rispetto al periodo 2011-2021.
I due fattori principalmente responsabili della scarsità di neve sono le temperature e le precipitazioni. Il deficit attuale è quindi dovuto a temperature alte associate a precipitazioni scarse, in particolar modo, evidenzia Francesco Avanzi, ricercatore dell’ambito Idrologia e Idraulica di Fondazione CIMA, “l’anomalia di temperatura è stata particolarmente significativa sull’arco appenninico, nel quale, tra ottobre e dicembre, si sono registrate temperature di anche +2,5 °C superiori rispetto alla media”.
Come abbiamo visto prima, meno neve significa direttamente meno acqua nei nostri fiumi. Sempre la Fondazione CIMA infatti continua analizzando la situazione sugli Appennini, “dove precipitazioni scarse e non in grado di colmare la mancanza di neve si sono unite alle elevate temperature degli ultimi mesi”. “Si tratta di una situazione paragonabile a quella dello scorso inverno - commenta Avanzi -, in particolare, nelle zone montuose che alimentano per esempio il fiume Tevere, negli Appennini centrali, abbiamo circa il 10% della risorsa idrica nivale che ci aspetteremmo per questo periodo (quindi un deficit di quasi il 90%)”.
E tutto ciò consapevoli che le ultime settimane nel nostro paese hanno portato precipitazioni e temperature che sembrano essere più in linea con la stagione. Sappiamo però che meteo e clima son due cose ben diverse e le conferme dell’innalzamento della temperatura a livello globale ci sono arrivate, ancora una volta, guardando i dati del 2023, in cui la media della temperatura globale è stata di 14,98°C, cioè la più alta di sempre da quando si effettuano queste misurazioni.
Se le serie storiche ci fanno capire come il periodo che stiamo vivendo sia già di grande cambiamento climatico, ancora più sconcertanti sono le proiezioni, anche quando si parla di neve. Secondo l'European Geosciences Union infatti l’impatto della crisi climatica sarà evidente anche per quanto riguarda la neve a terra. Basandosi sulla media dei giorni con neve tra il 2001 e il 2020, vediamo che le proiezioni sono chiare sia in caso di innalzamento della temperatura tra il grado e mezzo ed i due, sia in caso questo sia di 4 gradi. Nel primo caso, considerando gli attuali 95 giorni di presenza della neve a terra, vediamo che la perdita sarebbe di 17 giorni. In una condizione di aumento di temperatura tra il grado e mezzo e due rispetto all’era pre industriale quindi dovremmo abituarci ad avere tre settimane di neve a terra in meno.
Questo ad un’altitudine di 1.500 metri, cioè quella di comuni come Valtournenche, Corvara in Badia o Cogne. Oltre i 1.500 metri in Italia esistono solamente 14 Comuni, il più alto dei quali è Sestriere con i suoi 2.035 metri sul livello del mare. Restando a quota 1500 però, vediamo come tra una cinquantina d’anni, se la temperatura crescerà fino ai 4 gradi avremo a la neve a terra solamente per un mese e mezzo. Ricordiamo che ad esempio Cortina, una delle mete sciistiche più famose d’Italia, è a poco più di 1.200 metri d’altitudine.
Dobbiamo quindi abituarci ad un inverno con sempre meno neve? Di fatto sembra che sia già così e oltre all’abitudine, bisognerebbe anche cercare di adattarsi ad un clima che è già cambiato. Meno neve non significa solo meno possibilità di andare a sciare, per quello forse una soluzione d’elite si troverà sempre con piste sempre più alte o innevamento artificiale che creerà delle lingue bianche in un panorama dai colori autunnali (le foto di Michele Lapini imprimono alla perfezione questa situazione, così come le immagini che nel 2022 arrivavano dalle Olimpiadi invernali di Pechino), meno neve significherà meno acqua per i fiumi, per l’agricoltura, per noi.