CULTURA

Biennale, l'eleganza del poco e del riciclo

A Venezia quest’anno la Biennale Architettura è già tutta sulla soglia delle Corderie, nell’atrio quadrato dell’Arsenale, esteso e serrato da muri pesanti, sotto una selva fitta di lamine contorte di alluminio pendenti dal soffitto. Realizzato con l’uso di materiali recuperati dalla scorsa edizione e su progetto del curatore della mostra, il Pritzker 2016 Alejandro Aravena, questo spazio inquietante e perfetto ospita il racconto dell’intera operazione, dall’incarico all’ideazione, dalla scelta dei partecipanti all’allestimento. È tutto qui: etica, riciclo, inventiva nella ristrettezza di mezzi, eleganza nel poco. E comunicazione, perché questa è una Biennale che molto si regge sull’immagine, il carisma, il messaggio dell’architetto cileno. Un messaggio chiaro e diretto, quello del curatore, che non intende semplificare né banalizzare, ma chiarire che “è possibile e necessario rendere indipendente la qualità del risultato dalla scarsità dei mezzi”.

Gli architetti scelti da Aravena sono allora degli inviati al fronte, là dove si combatte la battaglia contro “l’insufficienza di mezzi, i vincoli spietati, l’avidità e l’impazienza del capitale, l’ottusità e il conservatorismo della burocrazia”. La battaglia contro una mediocrità e una monotonia troppo spesso giustificate da situazioni contingenti. Qui sta il lessico di questa Biennale, secondo il suo presidente Paolo Baratta: “Questa Biennale parla la lingua dell’urgenza e della speranza. Non stiamo celebrando successi o risultati trionfali, ma siamo qui per mostrare la necessità di risolvere i problemi che il nostro tempo c’impone”.

Su questo piano merita il suo Leone d’oro il padiglione nazionale della Spagna, che con Unfinished racconta l’effetto della crisi economica sull’edilizia spagnola, mostrandone lo spreco e insieme l’enorme potenziale. E la bellezza. Dopo un periodo di enorme boom edilizio, il paesaggio spagnolo contemporaneo risulta insistentemente punteggiato di costruzioni semi-realizzate e di restauri incompleti; si è generata, secondo i curatori del padiglione, Iñaqui Carnicero e Carlos Quintáns, “una collezione di edifici non finiti nei quali il fattore tempo è stato eliminato nella formula del costruire”. Nel padiglione, la scelta della fotografia come filtro per ritrarre questa situazione rappresenta quindi “il punto di vista positivo di chi ha lottato contro il recente passato, interpretando l’eredità di queste semi-costruzioni come un’opportunità”.

Fra gli altri padiglioni nazionali, quello della Germania accoglie l’istanza urgente e non differibile dei popoli migranti, comunicandola attraverso l’installazione Making Heimat. Germany, arrival country. Vi si proclama che “Deutschland ist offen”, la Germania è aperta: un messaggio che ha portato i curatori a scardinare il vecchio padiglione tedesco, realizzato sotto il regime nazista, e a trasformarne i muri abbattuti nella metafora della reale necessità di ripensare e riprogettare la Germania non solo come nazione d’arrivo dei nuovi immigrati, ma anche come loro nuova casa. Propone città dense e servite, a buon mercato, abitazioni anche autocostruite, paesaggi informali dove la strada si faccia vetrina di vita e attività.

E poi ci sono gli Stati Uniti, il cui padiglione mostra dodici progetti per Detroit, città svuotata che cerca riscatto attraverso nuove vocazioni, nuovi modi di abitare e di produrre, in spazi urbani preesistenti e reinventati. La Polonia, che dedica il proprio spazio ai lavoratori edili, ai loro rischi e ai diritti dimenticati. E c’è l’Italia, che con Taking Care, installazione curata da TAMassociati, evoca una visione fortemente sociale dell’architettura attraverso un linguaggio pop e fumettistico: “Quando si parla di periferie si usa (troppo) spesso un tono cupo e dimesso. Nel Padiglione Italia, invece, vogliamo raccontare la vita celata in queste realtà: le storie, l’amore, l’intelligenza, l’entusiasmo. Per questo abbiamo scelto un linguaggio pop, che, attraverso la graphic novel, crea una speciale empatia verso le storie che raccontiamo”, affermano i curatori. Se la proposta italiana si sviluppa in tre sezioni, ‘Pensare’, ‘Incontrare’ e ‘Agire’, è soprattutto quest’ultima a centrare il bersaglio di un’architettura “militante”, che investe il sociale a tutto fondo, a partire da un’operazione di crowdfunding per finanziare la costruzione e la messa su strada di cinque dispositivi mobili, pensati come concreti strumenti di tutela e riscatto sociale.

Ma soprattutto c’è quella parte della mostra curata direttamente da Alejandro Aravena, Reporting from the front, a dominare e segnare il passo, con gesti misurati, scelte precise. “L’architettura dà la forma ai luoghi in cui le persone vivono. Niente di più semplice” afferma l’architetto cileno. “La forma dei luoghi può favorire o danneggiare la vita delle persone, e gli errori degli architetti possono influire nella vita della gente per lunghi anni. Nell’agire ci sono alte possibilità di fallimento, ma vale la pena rischiare e fare proposte. Nella scelta dei partecipanti non m’interessava da dove venissero o quale fosse il loro genere; mi sono concentrato solo sui loro meriti e sul coraggio delle loro proposte”.  C’è chi progetta la realizzazione di interi villaggi con materiali di riutilizzo, chi costruisce vasti paesaggi temporanei propugnando l’insostenibilità della permanenza e chi, all’opposto, afferma il valore della durabilità; c’è chi lavora attraverso l’energia o la luce, chi adotta un approccio ingegneristico e chi affronta la questione attraverso la poesia di modelli leggeri e trasparenti. C’è anche lo studio di Renzo Piano, che sul tavolo mette i lavori di ricucitura delle periferie. Ma la densità delle proposte e la qualità dei risultati è tale che perfino il guru italiano dell’architettura rischia di stare all’angolo. Com’è giusto che sia, in questa Biennale.

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