A Venezia, nella 14esima Mostra internazionale di architettura, si riparte dai fondamentali: pavimenti, pareti, soffitti, tetti, porte, finestre, facciate, balconi, corridoi, camini, servizi, scale, scale mobili, ascensori, rampe. E, accantonata per un momento la contemporaneità, si ricomincia dal passato, parlando di storia. Fundamentals è infatti il titolo che il curatore della mostra, Rem Koolhaas, ha voluto dare a una manifestazione che quest’anno assume un formato nuovo grazie all’impegno e alla lungimiranza dell’architetto olandese, che ha chiesto più tempo (quasi un anno) per riorganizzare una biennale troppo a lungo adagiata sulla preconfezione fornita dalla Biennale d’Arte. Non convinto “che l’architettura oggi sia in una forma fenomenale”, a Venezia Koolhaas lavora a un nuovo inizio, un punto di partenza efficace per riappropriarsi degli elementi che compongono gli spazi dell’abitare; per dare forma a un abbecedario che reinsegni a comporre e a leggere il costruito. “L’architettura si è persa nel plasmare involucri” spiega Paolo Baratta, presidente della Biennale, e aggiunge “Ma gli involucri si vedono da lontano, mentre noi viviamo davanti a scale, porte, finestre”. E questi singoli elementi hanno una storia in ogni singolo paese: il portale italiano, cinese, indonesiano, arabo; il tetto giapponese, tedesco, marocchino.
Il nuovo formato della Biennale proposto da Koolhaas accoglie tutte queste componenti e trasforma la mostra in una ricerca collettiva, alla quale contribuiscono il curatore stesso, le nazioni partecipanti, ma anche molti ricercatori e università da tutto il mondo. Per la prima volta i curatori dei padiglioni delle diverse nazioni non sono stati semplicemente informati del tema che il curatore della Biennale avrebbe seguito nella “propria” mostra (in questo caso gli Elements of Architecture di Koolhaas), ma è stato chiesto loro di seguire anche un filo d’Arianna che nel complesso dovrebbe consentire di ripercorrere la storia della modernità degli ultimi 100 anni: Absorbing modernity 1914-2014. Ogni Paese è stato dunque chiamato a mostrare, ciascuno a proprio modo, il percorso che ha portato la propria architettura all’annullamento delle caratteristiche nazionali a favore dell’adozione di un linguaggio universale, nella convinzione di Koolhaas che l’identità nazionale sia stata sacrificata sull’altare della modernità. “Nel 1914 aveva senso parlare di architettura ‘cinese’, architettura ‘svizzera’, architettura ‘indiana’. Cento anni dopo, sotto la pressione di guerre, regimi politici diversi, molteplici condizioni di sviluppo, movimenti architettonici nazionali e internazionali, talenti individuali, amicizie, traiettorie personali casuali e sviluppi tecnologici, le architetture che un tempo erano specifiche e locali sono diventate intercambiabili e globali”.
Dell’inesorabile scivolamento dell’identità da nazionale a universale, la responsabilità è stata talora imputata alle cosiddette archistar (fra le quali Koolhaas), colpevoli di imporre modelli da seguire . Ma su questo punto l’architetto olandese ha le idee chiare: “Questa non è una biennale degli architetti, ma di architettura. La parola archistar è solo l’invenzione di un gruppo di giornalisti pigri che con questo termine identifica un malessere: l’insoddisfazione per come funziona il mondo oggi. Conosco personalmente molte di queste ‘star’ e posso assicurarvi che hanno un alto senso di responsabilità individuale.” Una difesa di categoria, ma che non trova obiezioni se si posa lo sguardo sulle periferie spalmate sul paesaggio italiano negli ultimi cinquant’anni: brutte aree di sospensione, di semplice passaggio fra città e campagna, frutto della speculazione e della negazione delle teorie accademiche e dei dibattiti sulla democrazia abitativa. Rincara la dose Paolo Baratta: “Le nostre periferie sono forse fatte dalle archistar? Se devo giudicare da ciò che vedo, mi sembra che l’architettura siamo noi a non desiderarla più. Da anni insistiamo sulla divaricazione tra l’architettura e la società civile fatta di individui e istituzioni che pur dovrebbero esprimere domanda di architettura; osserviamo un pericolo di conformismi, favoriti da economia e tecnologia”. Con grande ambizione, allora, Koolhaas ripropone in nuova prospettiva gli elementi che dovrebbero costituire i riferimenti per un rapporto rigenerato tra le persone e l'architettura; partendo dalla storia e dal passato, ma senza cadere nel nostalgico, perché “Il Ventesimo secolo è a prova di nostalgia: non si può averne rimpianto”.
Chiara Mezzalira