SCIENZA E RICERCA
Il buco dell’ozono, l’evento che aprì gli occhi al mondo sui cambiamenti climatici
Era il 1985 quando un gruppo di scienziati, Joe Farman, Brian Gardiner e Jonathan Shanklin, pubblicarono un loro paper nella rivista Nature, dal titolo Large losses of total ozone in Antarctica reveal seasonal ClO/NO interaction. Il lavoro dimostrava una diminuzione dei livelli di ozono nella stratosfera sopra l’Antartide durante il periodo primaverile, da settembre a novembre. I dati, raccolti dagli scienziati nell’Halley Research Station, documentano un rapido assottigliamento a partire dalla fine degli anni Settanta nell’area sopra il continente antartico, superando in alcuni casi il 60% rispetto alla media globale. Gli autori della ricerca ipotizzarono che la causa del fenomeno fosse la presenza di clorofluorocarburi, composti chimici contenenti cloro, fluoro e carbonio, utilizzati prevalentemente come propellenti per aerosol e agenti refrigeranti. Questo paper attirò l’attenzione non solo della comunità scientifica ma anche dei diplomatici: un’importante scoperta che svegliò il mondo intero.
La Convenzione di Vienna e il Protocollo di Montreal: come reagì il mondo al buco nell’ozono
Di fronte a questi dati, i paesi decisero di firmare la Convenzione di Vienna per proteggere la fascia dell’ozono: nell'accordo, promosso dall’United Nations Environment Programme, gli Stati si impegnarono a promuovere la ricerca, la collaborazione e lo scambio di informazioni sui livelli di ozono in Antartide, sia per proteggere la salute umana e la Terra dagli effetti delle radiazioni ultraviolette, sia per limitare le attività dannose dell’uomo. Una convenzione, tuttavia, non è vincolante per i partecipanti: per attivare gli obiettivi dell’accordo di Vienna, nel 1987 è stato firmato il Protocollo di Montreal. Questo documento, siglato da 197 Paesi e considerato uno dei più importanti successi nella storia delle Nazioni Unite, si pone l’obiettivo di ridurre la produzione e il consumo delle sostanze deleterie per l’ozono stratosferico: halon, tetracloruro di carbonio, clorofluorocarburi, idroclofluorocarburi, tricloroetano, metilcloroformio, bromuro di metile, bromoclorometano.
“ Si tratta di un esempio di eccezionale cooperazione internazionale: probabilmente l’accordo tra nazioni più di successo Il Segretario generale delle Nazioni Unite del 1987, Kofi Annan, durante la firma del Protocollo
Il Protocollo è entrato in vigore nel 1989 e prevede una serie di compiti pratici per i paesi che vi aderivano. L’Unione europea ha messo in atto le disposizioni del documento delle Nazioni Unite ma ha anche emanato propri regolamenti per diminuire l’utilizzo di sostanze dannose più rapidamente. Oggi è attivo il regolamento n. 1005/2009, una rifusione del precedente regolamento 2037/2000 che abrogava il precedente del 1994. Gli obiettivi principali sono due: adempiere agli obblighi previsti dal Protocollo di Montreal e garantire nell’UE un livello di successo degli impegni superiore rispetto agli standard del protocollo. A questo si aggiunge anche regolamento Ue 517/2014, che anticipa le disposizioni dell'emendamento di Kigali di cui parleremo tra poco.
Le Nazioni Unite hanno continuato a modificare il protocollo in base ai cambiamenti climatici del pianeta: il primo, in ordine temporale, è stato nel 1992 a Londra, poi Copenhagen nello stesso anno, Montreal nel 1997 e Pechino nel 1999. L’ultima modifica al protocollo è avvenuta nel 2016, a Kigali, Ruanda, durante il 28° meeting dei paesi aderenti. L’emendamento di Kigali, entrato in vigore il 1° gennaio 2019, ha aggiunto alla lista delle sostanze sotto controllo anche gli HFC, idrofluorocarburi utilizzati principalmente come gas refrigeranti e utilizzati in sostituzione dei clorofluorocarburi e degli idroclorofluorocarburi. Sebbene gli HFC non hanno effetti dannosi sull’ozono stratosferico, il loro utilizzo contribuirebbe al riscaldamento globale, più impattanti del CO2.
Uno degli obiettivi dell’emendamento è di ridurre la produzione e il consumo di questo sostanze, conosciute anche come gas serra. Nel documento si dividono i paesi in tre gruppi, assegnando a ciascuno una scadenza da rispettare: i paesi avanzati non dovranno superare il 15% entro il 2036, i paesi in via di sviluppo dovranno rispettare il limite del 20% entro il 2045 e per il terzo gruppo (i paesi che non rientrano nella definizione “in via di sviluppo”) la soglia è al 15% entro il 2047.
Come sta il buco dell’ozono oggi?
Dal 1986 la Nasa, in collaborazione con la National Oceanic and Armospheric Administration, utilizza i dati dei satelliti per monitorare la situazione in Antartide: dalle ultime analisi, il buco dell’ozono gode di una dimensione ridotta rispetto ai dati registrati nello stesso periodo, risultando anche decentrato e lontano dal polo. Gli scienziati, tuttavia, ritengono che questa notizia sia positiva solo a metà. Questo record, infatti, è dovuto al riscaldamento globale che riduce le reazioni tra ozono e le sostanze che lo distruggono: non è una vittoria quindi ma un fenomeno che, secondo gli esperti, dovrebbe essere approfondito. Secondo il World Meteorological Organization, il buco nell’ozono nell’Antartide potrebbe tornare ai livelli del 1980 solamente dopo il 2050.