Che noi umanità stiamo messi male sulla Terra molti lo sanno e ancora in più lo percepiscono. Ma mi sembra che non vi sia omogeneità nell’approccio e nelle politiche di controllo e blocco delle cause che generano i rischi che sconvolgono il nostro quotidiano.
Mi pare difficile non riconoscere che viviamo due pandemie. Hanno insistito a negarlo Johnson, Bolsonaro, Trump e sodali i quali, poi, si sono anche ammalati; ma è così: viviamo due pandemie. Una è il coronavirus Sars-Cov-2 che dall’inizio di questo 2020 ha ucciso oltre un milione di persone e ne ha contagiate oltre trenta milioni. Tuttavia la realistica speranza è che prima o poi finirà.
L’altra è la pandemia climatica. Cioè quella serie di eventi estremi dall’aumento delle temperature allo scioglimento dei ghiacciai alle bombe d’acqua, alle alluvioni e agli incendi che coinvolgono otto miliardi di abitanti della Terra incombendo su tutti i 9/9,5 che vi potranno essere per fine secolo. Se prima non si interviene drasticamente.
Per la prima pandemia vi sono medicinali e vaccini; per la seconda è ipotizzabile solo un formidabile mutamento dei modi di vivere, produrre, consumare.
Insomma stiamo messi male e i problemi che provocano questo “male” devono essere affrontati presto e con decisione. Cominciando dall’ambiente di vita.
Noi viviamo in un ambiente - cioè ciò che ci sta intorno - che per oltre il 50% accoglie la popolazione terrestre nelle sue città. Questa percentuale tende continuamente ad aumentare e, verosimilmente, si attesterà sul 75% entro fine secolo. Quindi è un ambiente costruito e spesso costruito a spese della circostante campagna progressivamente e spesso selvaggiamente urbanizzata. Questo ambiente è progressivamente diventato, nella massima quantità dei casi, una fabbrica di inquinamento. Soprattutto delle sostanze che, immesse nell’atmosfera, sono la principale causa dei mutamenti climatici.
Ma possiamo ignorare che tutto questo ambiente con i suoi contenuti è, a sua volta, contenuto in un ambiente molto più ampio che è la natura che – tanto per restare nel genuino significato di ambiente - è ciò che gli sta intorno? No.
Possiamo ignorare che la natura è fatta di componenti animali e inanimate nelle quali la nostra presenza è una percentuale molto piccola? No
Possiamo ignorare che di ciascuna di queste componenti abbiamo vitale bisogno e che ciò non ostante su molte di queste abbiamo masochisticamente infierito sino a provocarne l’estinzione? No.
Ma proprio quest’ultimo no, paradossalmente, è quello che mi induce a mettere in discussione le ripetute richieste di una “carta” dei diritti degli animali delle piante (gli alberi soprattutto) e, addirittura, di un “codice dei diritti della natura”.
Perché? Secondo me le cose stanno così: gli esseri umani hanno il dovere di proteggere l’umanità dagli attacchi da qualunque parte e da qualunque soggetto le siano portati. Una volta acquisita la consapevolezza che “qualunque parte” e “qualunque soggetto” ha avuto ed ha sempre come protagonista e responsabile lo stesso essere umano, il dovere di cui dicevo si associa al “presunto” diritto degli altri esseri animali e inanimati della Terra ad essere riconosciuti quali soggetti da proteggere e difendere. Perché con incalzante antropocentrismo, ritengo che questo diritto è l’equivalente della tutela dei nostri interessi.
Il mio pollice riconosciuto verde da molti amici mi aiuta a far germogliare e crescere tutti i semi che metto a dimora, a far fiorire le orchidee eccetera eccetera. La carezza agli animali domestici, il riconoscimento stesso della libertà dell’orso di girare sulla sua montagna (meno dei cinghiali a scorazzare per le città), la preoccupazione e la necessaria vigilanza al modo in cui gli animali vengono “allevati” per procurare carne e pesce alla nostra alimentazione; si sposano con il piacere che ciò ci procura e con il vantaggio “economico e sociale” che ce ne deriva.
Eppure studiosi e saggisti di prim’ordine sono in prima linea per richiedere le “carte” e i “codici” di cui dicevo a cominciare dalle piante, dagli alberi innanzitutto. Proprio in questo sito è stato ricordato il volume di Alessandra Viola (Flower Powewr. Le piante e i loro diritti, Einaudi 2020) nel quale si sostiene l’esigenza di una Carta dei diritti degli alberi rilevando, tra l’altro, che “le piante sono gli esseri viventi più numerosi sul pianeta Terra, costituiscono circa il 96% di tutto ciò che è vivo”.
Più di recente anche Stefano Mancuso ha pubblicato un altro libro per Laterza La pianta del mondo la cui pubblicazione così motiva: “Questo libro è nato così: scrivendo storie di piante che intrecciandosi agli avvenimenti umani si legano le une alle altre nella narrazione della vita sulla Terra. Perché le piante costituiscono la nervatura, la mappa (o pianta) sulla base della quale è costruito l’intero mondo in cui viviamo. Non vederla, o ancora peggio ignorarla, credendo di essere al di sopra della natura, è uno dei pericoli più gravi per la sopravvivenza della nostra specie.”
Dunque, come aveva scritto nel 2018 Francis Hallé per Ponte alle Grazie, Ci vuole un albero per salvare le città ormai assediate dall’inquinamento, dal cemento, dal calore, dagli insetti, dal rumore. Un albero sembra una cosa da poco, una soluzione semplice, da fiaba, per gente un po’ ingenua e premoderna che non ama la tecnologia. Invece, dice Francis Hallé, non esiste nessuna tecnologia che sia complessa e perfetta come quella di un albero. Sono esseri viventi che non hanno la possibilità di muoversi e dunque hanno sviluppato strategie estremamente sofisticate per sopravvivere. Vivono a lungo, in modo pacifico, e possono aiutarci a stare meglio: la loro ombra rinfresca le nostre estati estive; aumentano l’umidità dell’aria e dunque abbassano la temperatura; assorbono l’anidride carbonica e le polveri sottili, e molte altre cose ancora. Dobbiamo imparare a rispettarli e ad amarli, pensare a loro come nostri amici e compagni, cittadini del mondo, silenziosi e saggi guardiani delle nostre vite.”.
Allora, ci vuole un albero. Lo cantava anche Sergio Endrigo musicando con Luis Bacalov i versi di Gianni Rodari:
Per fare un tavolo ci vuole il legno/Per fare il legno ci vuole l'albero/Per fare l'albero ci vuole il seme/Per fare il seme ci vuole il frutto/Per fare il frutto ci vuole il fiore/Ci vuole un fiore, ci vuole un fiore/Per fare un tavolo ci vuole un fiore/ Ci vuole un fiore, ci vuole un fiore… In realtà la conclusione era che “per fare tutto ci vuole un fiore”.
E basterebbe un fiore, una pianta, lo scrive anche Stefano Mancuso (Oggi fa lezione un fiore “la Repubblica” 20 settembre 2020) citando, tra l’altro, uno studio condotto in Norvegia il quale dimostrava che “l’introduzione di un certo numero di piante nelle aule, in pochi mesi aveva un effetto significativo sulla salute degli alunni: 47% di mal di testa in meno; un calo del 37% nel mal di gola; meno sintomi di raffreddore”.
Le piante, in più, oltre ad essere uno strumento di miglioramento della vita per lo meno nelle aule scolastiche, sono anche l’esempio di come si possa essere felici con poco. Ce lo ricorda il bravo scrittore cileno Roberto Bolano (La pista di ghiaccio, Adelphi 2018, p.106) “La vita è una meraviglia, diceva Carmen, prendiamo, ad esempio, le piante, a cui per essere felici basta un dito d’acqua, e gli alberi che si chiamano querce e quelli che si chiamano pini, che magari vengono ingoiati da un incendio e con una pisciatina sporca subito ricrescono”.
Tutto questo ed altro ancora che potrebbe arricchire questo patrimonio di citazioni, invita a riflettere sulla importanza della esistenza di questa vitale presenza sulla superficie terrestre e sulla necessità di riconoscerne la necessità della tutela e della salvaguardia per noi e per le future generazioni. Che non necessariamente si esercita con la firma di una dichiarazione dei diritti delle piante che, tra l’altro, avrebbe i limiti della unilateralità dei firmatari.
Ci basta far entrare bene nelle nostre menti che non ne possiamo fare a meno perché senza staremmo tutti male.
Vale ancora, se non ancor più, per gli animali che esistono sulla Terra da centinaia di milioni di anni prima dell’uomo. E vi vivono, alcuni vi sono vissuti prima di estinguersi, in proprio spazi: cielo, mare, terra nei quali hanno esercitato i loro modo di muoversi, crescere, vivere…
Quando ha cominciato a comparire il genere umano ha cominciato anche a cacciare gli animali. Nel doppio significato che si può dare a questo termine: cacciandoli per cibarsene e cacciandoli dai loro spazi di vita in aria, in laghi, fiumi, mari, in terra.
La loro vita è diventata più grama. Specialmente quando l’animale uomo si è reso conto che poteva cibarsene senza andarli a cercare e cacciare, ma allevandoli per questo stesso bisogno. Non solo. Perché poi sempre l’animale uomo si è accorto che non poche specie di animali potevano diventare non solo un alimento “diretto”, ma anche un alimento dopo trasformazione e conservazione. E, di più, poteva essere utilizzato per lavori pesanti, come mezzo di trasporto, come oggetto di contemplazione (zoo, circhi equestri, birdwatching) e di nuovo cacciati in eventi appositamente organizzati (safari) non per trasformarli in cibo (o non solo per questo, come nelle “celebri” caccie alla volpe), ma anche per appropriarsi di loro parti (zanne di elefante, corna eccetera) e/o per soddisfare il proprio gusto e vanità.
Ho cercato di stilare questo elenco certamente incompleto, nel modo il più possibile sgombro da opinioni per arrivare ad una possibile riflessione sul rapporto essere umano e animali (nel senso di bestie); sul modo in cui si è andato modificando sino ad arrivare a ledere come non pochi ritengono, i diritti degli animali. E poiché questi diritti non risultato scritti in una “carta” (per ovvi motivi direi) c’è da discutere sulla opportunità che una “carta” del genere sia redatta anche se nella impossibilità di farlo con la diretta partecipazione degli interessati.
In realtà già il 15 ottobre 1978 nella sede dell'Unesco a Parigi fu proclamata una “Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Animale” frutto di una serie di riflessioni e discussioni che da tempo coinvolgevano scienziati, umanisti, giuristi, sociologi e politici. Tuttavia, come da più parti rilevato, questo documento non ha alcun valore sul piano giuridico-legislativo, ma rappresenta una dichiarazione di intenti e un’assunzione di responsabilità da parte dell’uomo nei confronti degli animali.
In conclusione, come dicevo all’inizio che tutto questo si trova nel grande contenitore Natura, ha senso ipotizzare anche un codice per i diritti della Natura? Ne scrive Mauro Garofalo (“Serve un codice per i diritti della Natura”, Il Sole 24 ore 27 settembre 2020). Un lungo ed interessante articolo nel quale cita Forest Law- Foresta Giuridica di Ursula Biemann e Paula Tavares (Nottetempo 2020) nel quale, con specifico riferimento alla distruzione dell’Amazzonia, Ursula Biemann afferma che “La foresta vive e pensa: l’ascolto e la conoscenza devono sostituire lo sfruttamento”.
Non v’è alcuno che abbia un minimo di sensibilità per questi problemi e, ancor più, la preoccupazione di ciò che di male ci potrebbe capitare: a noi umanità oltre che ai “residui” pigmei dell’Amazzonia e del Congo il cui diritto alla sopravvivenza nel loro ambiente di vita, peraltro, non è stato mai riconosciuto per legge.
Tuttavia si voglia riconoscere o no un diritto di esseri animati e inanimati a far valere loro diritti all’esistenza, dovrebbe essere prevalente su tutto un “equilibrato” comportamento del genere umano nei loro confronti.
Magari ricordando Giordano Bruno il quale nel De innumerabilibus, immenso et infigurabilii (1595) scriveva: “Ciascun essere animato, o pianta o pietra, comprende in sé ogni altro, anche se in maniera occulta (…) Nondimeno, ogni cosa contiene il tutto nelle sue parti, anche se non è il medesimo l’aspetto delle cose, in quanto ciò che in un oggetto è implicito, nell’altro è esplicitato. Non sono meno feconde la pietra, la polvere, la cenere solo per il fatto che non hanno una forma definita”. (traduzione di Carlo Monti). Tanto più “fecondi” sono gli animali che di forme ne hanno tante e ben definite.
È, questa, una riflessione che per secoli ha coinvolto pensatori di varie discipline. Penso, tra gli altri, al premio Nobel per la Pace Albert Schweitzer (1952) sostenitore nei suoi scritti e comportamenti di un'etica filosofica non limitata all'uomo, ma estesa anche agli esseri presenti in natura: «Riflettere sull'etica dell'amore per tutte le creature in tutti i suoi dettagli: questo è il difficile compito assegnato al tempo in cui viviamo».
E non dovrebbe esserci bisogno di scrivere codici e carte dei diritti per realizzarlo.