Nei prossimi quindici giorni vi saranno due eventi importanti che vedranno tutti gli Stati del mondo discutere insieme e forse decidere qualcosa su cruciali emergenze planetarie, il clima e le migrazioni, in parte anche sul nesso tra cambiamenti climatici e flussi internazionali. Entrambi si svolgeranno non lontano dall’Italia, il primo nella Polonia meridionale all’interno dell’Unione Europea, il secondo nel Marocco occidentale sull’altra sponda del Mediterraneo.
Dal 3 al 14 dicembre 2018 si svolgerà nella città mineraria di Katowice, in Polonia, la 24a Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, COP 24, periodico incontro dell’United Nations Framework Convention on Climate Change (Unfccc). La Convenzione fu firmata a Rio nel maggio 1992, entrò in vigore nel marzo 1994 e, da allora, annualmente si fa il punto sull’attuazione. Ho partecipato a più di dieci Conferenze delle Parti (COP appunto), a vario titolo. Dalla seconda alla sesta ero delegato in rappresentanza del governo italiano, ad altre successive ho assistito come parlamentare oppure come consulente dell’Onu o di regioni italiane. Fra le altre ero a Kyoto in Giappone, alla terza, quella del Protocollo del dicembre 1997 e degli obblighi vincolanti di riduzione per i 39 paesi industrializzati, e anche a Parigi, alla ventunesima, quella dell’Accordo generale del dicembre 2015 e degli impegni volontari di riduzione, adattamento e prevenzione per tutti i paesi del mondo.
#COP24 starts in less than 1 week. Find all relevant information here: https://t.co/hkhmB15qlv #ClimateAction #ParisAgreement pic.twitter.com/TeYSialGoQ
— UN Climate Change (@UNFCCC) 27 novembre 2018
Non c’è da attendersi molto da COP 24, purtroppo. Il paese che la ospita genera ancor oggi dal carbone l’80% dell’energia che consuma: viviamola come una sfida(oltre che come una contraddizione) rispetto all’acquisita generale necessità di fuoriuscire dall’era dei combustibili fossili! Fra l’altro, è proprio Katowice il capoluogo della principale regione di estrazione del carbone, la Slesia, al confine con Repubblica Ceca e Germania. A Parigi sulla tempistica si decise un quinquennio di transizione: l’accordo del 2015 sarebbe divenuto operativo nel 2020. Tutte le COP nell’intervallo accompagnano quel percorso su singoli aspetti. In Polonia dovrebbe essere definito un sistema di regole condivise, per rendere operativi gli impegni assunti, il cosiddetto Rule Book, oltre ad alcune azioni da intraprendere comunque prima del 2020. Vi sarà anche il tentativo di chiarire una volta per tutte la questione dei finanziamenti necessari per la lotta al riscaldamento globale e per l’adattamento, soprattutto nelle nazioni più vulnerabili.
La priorità ancora irrisolta riguarda il calcolo della somma globale effettiva delle riduzioni volontarie di emissioni secondo gli impegni teorici e i risultati pratici di tutti i singoli Stati. Le “promesse” assunte finora, le cosiddette Ndc, Nationally determined contribution, coprono, infatti,soltanto un terzo di ciò che è necessario per mantenere la crescita della temperatura media globale a un massimo di due gradi centigradi, entro la fine del secolo rispetto ai livelli pre-industriali. Il rispetto concreto degli impegni è stato garantito finora soltanto da 16 delle 197 “parti” (Stati) della Convenzione. Nel 2020 terminerà anche la proroga della vigenza del Protocollo di Kyoto e l’Unione Europea verificherà se le proprie connesse direttive 20-20-20 (il 20% di riduzione entro il 2020) hanno avuto successo. A ogni tappa di questo complicato processo è bene mantenere alta l’attenzione critica del mondo scientifico e la mobilitazione colta del movimento ecologista (entrambi da sempre puntano, fra l’altro, a non superare il grado e mezzo di aumento). I paesi ad alto reddito hanno calibrato gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sulle proprie emissioni nazionali, le loro (nostre) impronte di carbonio reali sono ancora molto grandi, i consumi di energie fossili non stanno diminuendo abbastanza, servono norme più stringenti. Siamo in trepida attesa del sesto rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) atteso per il 2021 (i precedenti: 1990, 1995, 2001, 2007, 2014); a ottobre è stata redatta e resa nota una prima anticipazione di 750 pagine, molto preoccupante; sugli oltre 500 scenari di previsione per il futuro, il 98% prende in considerazione che si superi il grado e mezzo. Sono scenari di ingenti sconvolgimenti, conflitti, insicurezza, migrazioni forzate.
Proprio riguardo all’ultimo punto, l’accordo approvato a Parigi il 12 dicembre 2015 (oltre a un cenno ai diritti dei migranti nel preambolo) conteneva un riferimento ai delocalizzati, ancora breve ma finalmente operativo. Fu stabilita una task force intergovernativa con base proprio in Polonia, per unire tutte le componenti coinvolte al fine di sviluppare raccomandazioni per approcci integrati che scongiurassero, minimizzassero e indirizzassero lo spostamento di persone dovuto agli impatti del cambiamento climatico. Si trattava solo di un gruppo di lavoro e di raccomandazioni, speriamo che a Katowice vengono presentate le prime proposte. D’altra parte, ormai l’Onu se ne sta occupando ai massimi livelli, è in dirittura d’arrivo un omogeneo accordo globale.
Il 10 e 11 dicembre 2018 verrà approvato nella città imperiale (secoli fa) di Marrakech, in Marocco, un testo sul fenomeno migratorio contemporaneo, conseguente alla dichiarazione generale di principio su migranti e rifugiati adottata all’unanimità dall’Assemblea Generale dell’ONU a New York il 19 settembre 2016. Tutti i 193 Stati membri riconobbero la necessità di un approccio globale alla mobilità umana, esprimendo la volontà di garantire la salvezza delle vite, la protezione delle persone, la salvaguardia dei diritti umani, la condivisione delle responsabilità e degli oneri, il potenziamento della governancedei flussi. Per due anni ha così avuto luogo un ampio percorso di consultazione con le più rilevanti istituzioni pubbliche e private coinvolte, seguìto da negoziati intergovernativi che hanno prodotto la bozza finale del Global Compact per una migrazione sicura, ordinata e regolare (termini simili sono contenuti anche negli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile 2016-2030, al Goal 10). In parallelo, con analogo percorso, è stato elaborato il Global Compact sui rifugiati, che anch’esso sarà adottato a breve dalla comunità internazionale.
Il primo Global Compact riprende le norme basilari del diritto internazionale (fra l’altro proprio il 10 dicembre ricorre il settantesimo anniversario dall’adozione della Dichiarazione universale dei diritti umani) e individua 10 principi guida e 23 obiettivi per un governo sostenibile dei movimenti migratori. Il relativo piano di azione suggerisce alcuni strumenti che gli Stati possono utilizzare nella loro sovranità ed autonomia, secondo le proprie opzioni politiche, priorità, valutazioni e possibilità. Non si tratta di un patto vincolante ma la sua adozione può mettere davvero le basi per arrivare a un governo più ordinato, regolare, sicuro delle migrazioni, togliendole dalle mani di trafficanti e criminali, mettendo fine a movimenti illegali, dotandosi di regole chiare, precise e giuste, assicurando sicurezza ai cittadini e agli stessi migranti, rispondendo alle legittime preoccupazioni e paure, garantendo maggiormente il rispetto della dignità e dei diritti delle persone, favorendo processi di inclusione. La bozza finale di mediazione è stata approvata il 13 luglio scorso da 192 paesi, a conclusione di un negoziato intergovernativo che ha prodotto tre revisioni della bozza iniziale.
Il documento è importante perché implica e suggerisce un cambio di prospettiva. In linea di massima chi emigra fuggendo dal proprio paese non dovrebbe esistere, sarebbe cioè compito della comunità internazionale e delle relazioni intergovernative prevenire le migrazioni forzate, sia quelle politiche (conseguenza di discriminazioni e guerre), sia quelle ambientali (per effetto degli eventi climatici e geomorfologici) e garantire che ognuno abbia il diritto di restare con la propria identità personale nel paese dove è nato e cresciuto; e se non gli viene garantito lì, allora gli va dato asilo altrove. In linea di massima chi emigra con qualche grado di libertà può essere messo alla prova di immigrare altrove, sarebbe cioè vantaggioso per la comunità internazionale e per i singoli Stati informare il migrante sulle norme e sulle culture nelle quali va a inserirsi e sulle opportunità reali del mercato del lavoro regolare in quei paesi. Con Telmo Pievani abbiamo provato a vedere l’evoluzione del fenomeno migratorio umano da milioni di anni, le origini antichissime della dialettica fra migrazioni più forzate e migrazioni più libere, fra un diritto di restare e quella che abbiamo chiamato Libertà di migrare (Einaudi, 2016).
Abbiamo mostrato che, all’interno di una comunità, se non ci sono costrizioni esterne o interne (o sono irrilevanti socialmente), emigra una minoranza del totale, una minoranza composita, qualcuno individualmente per contingenti caso, interesse, passione, vocazione, opportunità, curiosità, inquietudine.Studi di storia moderna e contemporanea hanno mostrato che nei secoli scorsi vi è sempre stata una migrazione volitiva che ha riguardato minoranze di ogni comunità organizzata o statuale, un poco più del 3 per cento all’inizio del Novecento, circa il 3 per cento anche negli ultimi decenni, ovviamente con forti diseguaglianze interne e fra paese e paese, ma non permanentemente fra le stesse aree e gli stessi paesi. Queste libere migrazioni sono bidirezionali (multidirezionali), hanno andate e ritorni e molte mete, provvisorie o forse definitive, favorite o scoraggiate dalle politiche migratorie sia di uscita che d’entrata. Se si rispetta il diritto di restare dove si è nati e cresciuti, in pochi emigrano e quei pochi non producono pericoli e danni per le economie e le società da cui partono.
Alcuni paesi, pochi finora (USA, Australia, Austria, Ungheria, Repubblica Ceca) hanno annunciato di non voler apporre la propria firma in Marocco. Anche in Italia alcune forze politiche stanno chiedendo al governo di ritirarsi. Per fare propaganda qualcuno scrive che ogni immigrazione diverrebbe un diritto fondamentale dell'essere umano, falsificando la lettera e lo spirito della bozza del testo approvata, come sinteticamente spiegato sopra. Al contrario, il Global Compact (molto sostenuto dall’attuale pontificato) aiuterebbe a combattere chi lucra sulle migrazioni e a salvaguardare la vita di tante persone.Forse l’Italia non si ritirerà, sarebbe auspicabile anzi un sostegno forte autorevole e pieno dell’accordo Onu, vedremo. Certo il testo dell’Onu non è perfettamente coerente con gli indirizzi finora espressi dal governo in carica e con il decreto cosiddetto sicurezza recentemente approvato. Tuttavia, potrebbe essere difficile sconfessare due anni di negoziato diplomatico e, soprattutto, è impossibile negare la realtà globale dei fatti: nessun atto interno potrà impedire un fenomeno strutturale, antico, permanente. Migranti forzati e liberi continueranno ad arrivare in molti paesi, innanzitutto nei paesi limitrofi delle aree povere del pianeta.
La diffidenza verso gli stranieri è antica, oggi rigurgiti xenofobi sono diffusi in tanti paesi, anche a livello istituzionale. La tentazione può essere quella di far approvare il Global Compacte considerarlo una delle tante astratte “chiacchiere” a livello Onu. Il fatto è che si immigra e si emigra. Decine di milioni di italiani sono stati emigranti nel recente passato e, anche ora, quasi duecento mila italiani ogni anni emigrano in un altro paese. Non è male avere a cuore anche questi nostri compatrioti, apprezzare ogni impegno internazionale che promuova reciprocità di diritti e doveri, riduca le disuguaglianze. Approvare un patto globale è realistico,una giusta prova di verità. Sarebbe la prima volta nella storia della diplomazia che ogni Stato (da sempre luogo di emigrazioni e immigrazioni) si accorda con ogni altro Stato (da sempre luogo di immigrazioni ed emigrazioni) e che la comunità internazionale giunge a un consenso su un fenomeno storicamente e geograficamente asimmetrico e complicato, quello migratorio.