SOCIETÀ

Cosa chiamiamo cultura

Cosa intendiamo, esattamente, quando parliamo di cultura? Questo termine di uso quotidiano, che ricorre in molti diversi ambiti disciplinari– da quello etnologico, a quello storico-filosofico, fino a quello politico – nasconde una storia e una profondità di significato piuttosto complesse e non sempre comprese. Nell’ultimo periodo, in particolare, sta riemergendo l’uso di questo termine nel dibattito politico, con riferimento alle cosiddette culture “di destra”, “di sinistra”, “progressiste” o “conservatrici”. Ma è legittimo ricorrere al concetto di cultura in questo senso? E se è così, cosa si intende con esattezza? Abbiamo approfondito l’argomento con il professor Fabio Dei, antropologo culturale dell’università di Pisa, partendo innanzitutto dalla definizione scientifica del termine in questione.

“Il concetto antropologico di cultura nasce in ambito evoluzionista nella seconda metà dell'Ottocento per indicare l’insieme di quelle strategie di adattamento all’ambiente che non derivano da fattori puramente biologici”, spiega il professor Dei. “L'evoluzione umana, a differenza di quella di altre specie animali, avviene non solo attraverso le mutazioni fisiche come effetto della selezione naturale, ma anche tramite la proiezione di alcuni strumenti di adattamento “fuori da sé”. Questo avviene a diversi livelli: sia quando, ad esempio, si utilizza un bastone o una pietra scheggiata per cacciare (dove l’utensile diviene una sorta di estensione del corpo) sia con la nascita del linguaggio (e quindi con un’esteriorizzazione del pensiero attraverso le parole e la scrittura).

Il significato scientifico-antropologico di cultura include perciò tutte quelle credenze, valori, comportamenti e capacità che vengono imparate e tramandate all’interno delle società umane, e non coincide, quindi, con il senso che assume questa parola nel linguaggio comune, dove viene utilizzata per riferirsi a quei saperi “alti”, in primis quello scientifico, che si contrappongono invece all’ignoranza, o alle credenze magiche e superstiziose.

Il concetto scientifico di cultura e il suo significato “quotidiano” si differenziano proprio perché, nel primo caso, anche gli aspetti più banali della nostra quotidianità sono espressioni culturali: dalla gestualità, ai codici di interazione sociale, allo svolgimento delle nostre attività di ogni giorno, comprese quelle di cui siamo inconsapevoli e che non stiamo a concettualizzare come, ad esempio, il modo in cui ci laviamo i denti o quello di camminare. Si tratta di comportamenti che apprendiamo socialmente e che, dal punto di vista antropologico, hanno carattere culturale. Anche i comportamenti istintivi assumono delle configurazioni culturali che variano tra le diverse società. Pensiamo ad esempio all’alimentazione: se è vero che nutrirsi è una necessità naturale, essenziale per la nostra sopravvivenza, le modalità tramite cui ogni gruppo umano a tutti i livelli del suo sviluppo cucina, abbina i cibi o stabilisce l’ordine dei pasti secondo regole e codici che si tramandano, rappresentano tratti culturali”.

Se ognuno di noi compie i suoi gesti quotidiani in un certo modo perché ha inconsciamente incorporato determinati codici di comportamento, è anche vero che le regole in questione, oltre ad accomunare le persone che appartengono a una determinata società, si differenziano da quelle che caratterizzano altri gruppi umani.

“L’esistenza delle differenze culturali emerge fin dagli inizi della riflessione antropologica, con l’osservazione che i comportamenti culturali – che, come abbiamo detto, sono presenti in tutte le società umane – si configurano in modo diverso in ognuna di esse, a partire dalle tecniche di costruzione degli utensili, fino alla definizione delle credenze e dei riti religiosi”, racconta Dei. “Nonostante si dibatta ancora molto sull’esistenza di determinati elementi universali a tutte le culture umane, l’antropologia si configura, per certi versi, proprio come uno studio comparativo di queste peculiarità.

Nonostante questo, non dobbiamo immaginare un mondo suddiviso in tante “isole culturali” separate le une dalle altre. Le culture non hanno confini precisi, ma cambiano con il tempo e si intrecciano tra di loro. Ciò accade soprattutto oggi a causa della globalizzazione che, secondo alcuni studiosi, sta causando una McDonaldizzazione (utilizzando l’espressione coniata dal sociologo George Ritzer) del mondo, ossia il fenomeno per cui determinati prodotti culturali provenienti prevalentemente dai paesi ricchi occidentali – dai cibi, ai programmi tv, agli sport di massa – vengano importati ed esportati in ogni angolo del pianeta, imponendosi rispetto alle culture locali.

Ciononostante, nel panorama odierno, per quanto globalizzato, le culture locali non sono scomparse, quanto piuttosto trasformate, ognuna in modo diverso, in seguito alle contaminazioni di cui stiamo parlando. Per questo motivo, ritengo che la corretta interpretazione del mondo globalizzato di oggi sia quella di una realtà in cui le culture si sono moltiplicate e frammentate come in un caleidoscopio, in un intreccio costante di differenze identitarie e influenze esterne”.

Non resta che domandarsi, allora, in che misura determinate dinamiche di contaminazione culturale possano riproporsi anche sul piano politico e, ancora prima di ciò, che significato assuma l’uso della parola “cultura” in questo contesto.

“In ambito politico, il termine in questione non viene certo utilizzato in senso antropologico, ma assume comunque un suo significato ben preciso che si differenzia da quello di “opinione politica”, afferma Dei. “Se infatti la posizione politica dipende da credenze e opinioni sul mondo che ci circonda, è anche vero che esse non sono frutto di un ragionamento astratto, ma hanno radici profonde che affondano nella storia familiare delle persone, nel contesto sociale e ambientale in cui sono cresciute e con la rete di rapporti sociali che coltivano. In questo senso, è ingenuo pensare che gli elettori scelgano di votare per un partito conservatore o progressista solamente in base a una valutazione dei propri interessi volta per volta; un’opinione politica, al contrario, è determinata in gran parte da quel complesso di valori, tradizioni, comportamenti e relazioni sociali che ognuno di noi coltiva e che, come è stato spiegato poc’anzi, rappresentano fattori prettamente culturali.

In ambito politologico si fa talvolta riferimento all’esistenza delle cosiddette subculture: determinati sistemi di valori, atteggiamenti complessivi e visioni del mondo solitamente radicate in un certo territorio nei quali ci si riconosce insieme ad altre persone e che possono permeare l’intero modo di vita di un individuo, compresa l’adesione a un determinato schieramento politico. Nell’Italia della seconda metà del Novecento si osservava, in particolare, una contrapposizione tra la subcultura rossa, tipica delle popolazioni del centro Italia – soprattutto tra Toscana ed Emilia Romagna – che implicava un forte consenso al Partito comunista, e la subcultura bianca, che abbracciava i valori caratterizzanti della Democrazia cristiana ed era diffusa nelle aree settentrionali del paese, prevalentemente tra Lombardia e Veneto.

Se ci riflettiamo, anche nel dibattito politico italiano di oggi emergono tutti i classici elementi di scontro culturale tra i rappresentanti dei diversi partiti, i quali discutono non solo su questioni di ordine pratico, ma anche su simbolismi e valori caratterizzanti per diverse culture politiche che riguardano, ad esempio, determinati usi linguistici o diverse interpretazioni della storia recente. Scontri di questo genere si basano proprio su una sorta di “differenza culturale” tra i diversi protagonisti politici, mostrando di fatto quando siano fortemente stratificati e incorporati in ognuno di essi determinati valori e credenze che derivano, come abbiamo detto, anche dalla biografia personale di ognuno”.

Alla luce di queste considerazioni, una domanda sorge spontanea: anche per le culture politiche, così come accade per quelle antropologicamente intese, è possibile una commistione di idee e valori differenti? Se, come spiegato dal professor Dei, non si può parlare di isole culturali in senso etnografico, l’impressione è che invece si tenda a farlo nel dibattito politico, appellandosi alle differenze culturali per segnare confine ben netto tra le diverse posizioni, e cercare, in altre parole, una giustificazione alla mancanza di dialogo e collaborazione tra voci diverse, che sono invece vitali in un ordinamento democratico.

“Si tratta di una questione senza dubbio attuale”, commenta il professor Dei. “Tutto dipende dal modo in cui ci si approccia all’argomento. Le differenze tra le culture politiche andrebbero studiate in maniera “neutrale” ovvero con un approccio analitico e descrittivo, per cercare di comprendere a un livello più profondo perché, ad esempio, in alcuni contesti sia particolarmente difficile trovare un accordo”. Insomma, parlare di cultura politica non significa necessariamente giustificare la mancanza di apertura. Un conto è parlare di culture politiche, un altro è credere che la loro esistenza renda del tutto impossibile un dialogo e che quindi non valga neanche la pena provarci.

“Un punto di incontro e una contaminazione tra culture politiche differenti è possibile, anche se richiede solitamente dei tempi piuttosto lunghi”, osserva Dei. “per quanto sia impensabile un dialogo tra le posizioni più estreme, può capitare che delle correnti politiche inizialmente contrapposte possano attuare quel rimpasto di valori necessario a dare vita a nuove culture politiche e che, viceversa, lo stesso rimpasto di valori possa frammentare un’ideologia politica, favorendo la nascita di nuovi schieramenti contrapposti”.

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