SOCIETÀ

La Costituzione del Cile non si libera dal legame con Pinochet

Altro che “ombra”: il Cile rimane ancora una volta impigliato nell’imbarazzante riflesso del dittatore Augusto Pinochet, uno che ha scritto, con la complicità attiva del governo degli Stati Uniti, le pagine più drammatiche, dolorose e vergognose mai vissute dal paese sudamericano. Gli anni della dittatura militare, del bombardamento del Palacio de La Moneda, dell’assassinio di Salvador Allende, dell’Estadio Nacional trasformato in campo di concentramento, dei quarantamila dissidenti assassinati o comunque fatti sparire, spesso gettati in mare “legati, bendati e vivi” con i vuelos de la muerte, dei loro familiari che dopo tanti anni non hanno ancora trovato né un corpo da piangere, né pace. Ebbene, cinquant’anni dopo quel tragico golpe, in Cile resta ancora in vigore la Costituzione che era stata redatta nel 1980 dalla giunta militare e firmata dallo stesso Pinochet (e successivamente più volte emendata, a partire dal 1989, proprio per consentire la transizione verso la democrazia dopo la caduta del dittatore). A deciderlo sono stati gli elettori cileni che domenica scorsa hanno respinto, con una maggioranza del 55% dei voti, un testo di riforma elaborato dai conservatori e dall’estrema destra e considerato quasi un manifesto del Partido Republicano (la maggioranza dei relatori non aveva cercato né un accordo né una mediazione con i 17 rappresentanti del centrosinistra, quasi a cercare lo scontro) che avrebbe introdotto modifiche in senso ancora più liberista rispetto alla Carta del 1980, oltre a prevedere drastiche misure di espulsione contro gli immigrati illegali, la “difesa della vita del nascituro”, la rielezione a tempo indeterminato delle autorità locali e il “dovere per i cileni di onorare la patria e i suoi simboli nazionali”. Il “no” è arrivato dagli stessi elettori che nel settembre del 2022 avevano già bocciato, con un margine di contras anche superiore (62%), un’ipotesi di testo presentato dall’estrema sinistra che, al contrario, avrebbe rifondato completamente l’impianto legislativo del Cile, in senso iper-progressista, introducendo ad esempio il riconoscimento dei popoli indigeni e la restituzione delle “loro” terre, l’abolizione della disparità salariale, il diritto all’aborto, il riconoscimento del “diritto universale all’acqua”, il  riconoscimento del diritto della natura a essere “protetta e rispettata”. Ma con un ruolo dello Stato talmente centrale e ingombrante da far temere ai più critici un rischio d’innesto per una nuova dittatura. E i due “estremismi” sono stati respinti dagli elettori, senza appello.

Tradito il mandato “trasversale” degli elettori

Dunque nulla da fare: il Cile resta bloccato alla “casella Pinochet”. Eppure nell’ottobre 2020, sulla scia delle drammatiche, imponenti e violente manifestazioni popolari contro le disuguaglianze e gli insopportabili aumenti del costo della vita, l’80% degli elettori si era espresso a favore dell’elaborazione di una nuova Carta Costituzionale. Proprio per rimarcare la necessità di voltare pagina rispetto all’ignobile passato, di rinunciare per sempre all’eredità di Pinochet. Chiedendo una profonda riforma del sistema sanitario, di quello pensionistico, di quello scolastico. O, più in generale, di quel modello economico (il liberismo) individuato come principale responsabile delle disuguaglianze sociali. Era un mandato chiaro, netto, trasversale: ma le aspettative sono state deluse. «La doppia bocciatura è la dimostrazione del fallimento dell’intera classe politica cilena che ha evidentemente male interpretato le urgenze emerse nelle dimostrazioni del 2019», sostiene il politologo Juan Pablo Luna, professore presso la School of Government della Pontificia Università Cattolica del Cile, interpellato dalla Bbc. «Le richieste avevano molto più a che fare con la capacità dello Stato e del mercato di migliorare le condizioni di vita concrete delle persone che con la questione costituzionale. Ma entrambe le proposte presentate, una dalla sinistra, l’altra dalla destra, non si sono dimostrate, nel merito, in sintonia con quel che chiedeva la maggioranza dei cileni. Quasi fossero stati dei tentativi di “leggere la società” dall’alto, senza comprendere davvero le ragioni del malcontento sociale. E questo ha a che fare con una crisi di rappresentanza del sistema dei partiti politici che da tempo ha perso le radici nella società, e con una classe politica che è rimasta sempre più invischiata in una logica di polarizzazione molto scollegata dal sentimento dei cittadini». Dello stesso parere il teologo cileno Álvaro Ramis Olivos, Rettore dell’Accademia Universitaria dell’Umanesimo Cristiano (UAHC): «Ciò che si è appena concluso è stato il tentativo, da parte dei diversi attori, di chiudere il problema per mezzo di una guerra lampo, una sorta di blitzkriegcostituente in cui il nemico viene “fregato” in un’unica offensiva. È probabile che ora ci sposteremo in trincea, in una guerra di posizione che sarà più simile agli scacchi che all’artiglieria. Perché ora l’energia per proporre un’alternativa si è esaurita. Un re è morto, non c’è nessun re al suo posto. E lo zombie costituzionale è ancora in funzione».

Il presidente cileno Gabriel Boric, leader di punta della sinistra progressista, che si era dichiarato apertamente contrario all’approvazione della proposta costituzionale dei Repubblicani, si è quasi scusato dopo l’esito del voto, ammettendo di «non essere stato in grado di incanalare le speranze di avere una nuova costituzione scritta per tutti». Anche l’ex presidente Michelle Bachelet si era spesa in prima persona per la campagna a favore del no: «Preferisco qualcosa di brutto a qualcosa di peggio», aveva sintetizzato. Mentre Lautaro Carmona, presidente del Partido Comunista de Chile, aveva tenuto a precisare: «Che non ci siano equivoci: il voto è stato contro il progetto della destra, e non certo a favore della Costituzione del 1980». Mentre a destra c’è stata un’aperta ammissione della sconfitta. «La grande maggioranza dei cileni ha respinto la nostra proposta», ha ammesso José Antonio Kast, leader del Partido Repubblicano, origini tedesche e ammiratore dichiarato di Pinochet, oltre che di Bolsonaro e di Trump (il padre aveva la tessera del partito nazista di Hitler). «Riconosciamo con chiarezza e umiltà che non siamo riusciti a convincere i cileni che questa Costituzione era migliore di quella attuale». Anche se, per la destra cilena, non è di certo una tragedia, visto che comunque resta in vigore il modello di libero mercato imposto durante la dittatura. Il presidente Boric ha comunque già annunciato che non ci saranno altri tentativi di riforma sotto il suo mandato, che scade nel 2025, perché adesso «ci sono altre priorità»: vale a dire la lotta alla crescente criminalità urbana e la ricerca di soluzioni per contrastare un’economia in stagnazione. L’inflazione è al 4.5%, ma la crescita economica è vicina allo zero: assai meglio di una recessione, ma se questi numeri saranno confermati è probabile che gli investimenti diminuiranno. Eppure sono dati che, in un quadro di globale difficoltà, fanno perfino esultare il settimanale britannico The Economist, che, grazie a un mercato del lavoro stabile e all’inflazione contenuta, ha inserito il Cile nella top ten delle economie più performanti del 2023.

Il “centro” che non c’è

Difficile invece dire quanto la classe politica cilena abbia imparato da questa esperienza, e quanto invece continuerà a dividersi nel proporre soluzioni sempre più radicali e inconciliabili. O quanto invece questa netta polarizzazione possa favorire la nascita di nuove proposte politiche, magari più moderate e concilianti, in grado di rispondere con più efficacia alle necessità della classe media, che evidentemente in questo momento non ha rappresentanza (e attenzione al rischio d’insorgenza di formazioni populiste e anti-sistema). «È inconfutabile che l’intera élite politica nazionale sia la grande perdente del processo costituzionale durato quattro anni», scrive in un editoriale il quotidiano cileno El Mostrador. «L’atmosfera radicalizzata e persino maleducata in termini di controversie politiche, e l’uso discrezionale e irresponsabile degli strumenti di potere, hanno prodotto una crisi della rappresentanza dei cittadini e di un’élite che vive astratta da ciò che realmente accade nella società». Come dire: i cileni sono stanchi delle proposte di questa politica, di questi estremismi, siano di destra o di sinistra. Vogliono risposte, vogliono soluzioni. Una sintesi efficace è offerta dal blog Hechos de Hoy: «Né un’oscillazione verso l’estrema destra né verso l’estrema sinistra, né populismo né radicalismo ai due estremi. Né propaganda né menzogne. Né abbiamo bisogno di vivere in una bolla di consultazioni permanenti. Il Cile ha semplicemente votato per il buon senso, il rispetto, la dignità, il dialogo, i patti e il consenso. Una Costituzione non può essere costruita con l’odio e sulla distruzione del rivale. L’estrema sinistra e l’estrema destra hanno ricevuto la stessa medicina. Un progetto può essere costruito in modo solido solo ascoltando e contribuendo a creare una casa comune».

Il presidente cileno sembra invece aver capito la lezione. E dopo meno di ventiquattr’ore dall’esito del referendum costituzionale, Boric ha chiesto, se non il consenso, almeno la collaborazione di tutte le forze politiche alla stesura di due importanti e non più rinviabili riforme: il nuovo patto fiscale e le nuove norme sulle pensioni. «I cittadini ci stanno chiedendo di smettere di combattere, di raggiungere accordi e di trovare soluzioni», ha dichiarato lunedì scorso il capo dello Stato. E questa potrebbe davvero essere l’ultima chance, non soltanto per Gabriel Boric, di recuperare un minimo di credibilità e di autorevolezza agli occhi di un elettorato ormai pericolosamente esausto.

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012