SOCIETÀ

Con Covid-19 la plastica torna in auge. A quale costo?

Non eravamo proprio vicino al traguardo. Tutt’altro. La lotta contro l’inquinamento da plastica, sulla terra e soprattutto nei mari, è ancora ben lontano dall’essere vinta. Ma qualche passo avanti, in questi anni, è stato fatto. A partire dall’approvazione di alcune norme a livello europeo e dal lancio di iniziative globali per la riduzione della circolazione di plastica monouso, per la ricerca e l’utilizzo di plastiche più facilmente riciclabili, per la pulizia di mari, fiumi e oceani e così via. Una serie di iniziative, dal locale al globale davvero, che cominciano a dare risultati concreti, anche se appunto ancora lontani dall’avere un reale impatto sulla salute dell’ambiente e sulla nostra. Perchè la plastica che produciamo e che rilasciamo nell’ambiente, come sappiamo ormai da tempo, è davvero moltissima. 

E così, a fianco della Strategia Europea per la riduzione della plastica lanciata nel gennaio 2018 e della direttiva dello stesso anno sull’abolizione della plastica monouso, c’erano sul piatto la Plastic Tax da adottare in diversi paesi, Italia inclusa, e una serie di altre iniziative. A cominciare dalle leggi contro i sacchetti e le cannucce di plastica della California e dello Stato di New York e simili disposizioni in centinaia di altre città americane. È stata approvata la durissima legge contro la produzione e utilizzo dei sacchetti di plastica in Kenya, in vigore dal 2017, e una altrettanto rigida in Rwanda dal 2018: l’Africa è il continente con il maggior numero di disposizioni nazionali anti-plastica, con leggi attive in ben 34 paesi. Ci sono iniziative in diversi paesi asiatici, dal Vietnam alla Malesia, dalla Cina all’Indonesia. Sono nati diversi think tank e progetti trasversali, che a volte comprendono le grandi aziende multinazionali, come la Global Plastic Action Partnership nata all’interno del World Economic Forum, e le campagne di informazione Planet or plastic, del National Geographic, o quelle di Greenpeace e di altre associazioni in difesa dell’ambiente. Insomma, tra lobby contrarie e dubbi sulle migliori strategie da mettere in atto, e cioè se privilegiare ad esempio il riciclaggio o se invece puntare proprio sulla riduzione della produzione, qualcosa si stava muovendo. 

In occasione dell’Earth Day 2020, il 22 aprile scorso, l’associazione no profit the Story of Stuff Project che fa parte del movimento globale Beyond Plastic, che da anni lavora per combattere il problema dell’inquinamento da plastica, ha rilasciato un documentario, The Story of Plastic, visibile su diverse piattaforme di streaming. Il trailer, qui di seguito, dà un’idea molto grafica del problema. 

Ora, in piena emergenza Covid-19, si aggiunge una difficoltà ulteriore. Perché le misure di contenimento del contagio passano anche, e soprattutto, dall’uso sistematico di dispositivi di protezione individuale: mascherine e guanti, schermi in plexiglass o altri materiali plastici in molti luoghi pubblici, bicchieri, posate e tazzine di plastica per la ristorazione collettiva, e molto altro. Oggetti prodotti in materiali spesso misti, nemmeno riciclabili, e che quindi possono solo andare ad accumularsi alle già immense montagne di rifiuti da gestire. Oggetti ora considerati indispensabili per far ripartire le attività economiche, perché solo così protetti è possibile salire sui mezzi pubblici, andare in ufficio o in fabbrica, sedersi al ristorante ed entrare nei negozi.

Basta leggere le indicazioni predisposte da INAIL, l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli infortuni sul Lavoro, per la messa in sicurezza di diverse categorie di lavoratori per capire che la plastica usa e getta, nella nostra vita pubblica, rimarrà presente ancora per un bel po’. Con notevoli conseguenze ambientali, difficili da stimare correttamente al momento, ma senz’altro rilevanti data la quantità di materiale che ciascuno di noi dovrà utilizzare e buttare ogni giorno. E non è più nemmeno vero, almeno sul breve periodo, che potrebbe essere il prezzo del petrolio, la materia prima con cui si producono le plastiche, a rendere meno conveniente continuare a produrre oggetti usa e getta: come abbiamo raccontato recentemente stiamo vivendo un periodo di prezzo del petrolio in discesa per varie ragioni. Una motivazione aggiuntiva, per le grandi corporation, per resistere alla transizione verso un mondo sempre più plastic free.

Quanta plastica produciamo oggi

Ogni anno i paesi dell’Unione Europea producono oltre 60 milioni di tonnellate di plastica. Il dato del 2018, proveniente dal rapporto Plastic Facts 2019 dell’associazione continentale dei produttori, mostra un leggero calo rispetto all’anno precedente (-2,6 milioni di tonnellate), ma garantisce comunque di coprire il 17% della produzione globale. 

A livello globale, le tonnellate di plastica prodotte nel 2018 sono state 358 milioni, di cui la frazione più rilevante è quella prodotta dalla Cina, il 30%, pari a oltre 107 milioni, quasi il doppio del dato europeo. La Cina, fanno notare gli autori del rapporto, è il paese al mondo che negli ultimi anni ha mostrato la maggiore crescita in questo settore, in linea con una generale crescita economica e industriale che l’ha portata a contendere agli Stati Uniti il ruolo di potenza economica mondiale. Questi numeri sono particolarmente rilevanti, poiché USA e Cina non solo si contendono la leadership generale, ma nel mondo della plastica sono i primi produttori, i primi consumatori e i primi produttori di rifiuti.

Prima di vedere cosa succede alla plastica giunta a fina vita, quando deve essere smaltita, una precisazione doverosa. I tipi di plastica in commercio sono moltissimi, si realizzano attraverso vari processi industriali e hanno caratteristiche assai diverse tra loro. Il dato qui considerato comprende tutti i tipi di plastica. Ci sono il polimetilmetacrilato o PMMA, la famiglia di prodotti di cui fa parte il plexiglass, recentemente proposto per farne dei box da spiaggia (probabilmente irrealizzabili) e già visibile in molti bar e ristoranti come separè tra i tavoli,  e il polietilene tereftalato o PET con cui si realizzano contenitori alimentari come le bottiglie. O ancora il silicone, usato sia come isolante per esempio nell’edilizia che come costituente di oggetti morbidi destinati a vari usi, e il poliuretano, usato tra l’altro come componente di alcuni tessuti, come per esempio l’alcantara.

Rifiuti plastici

Tranne che per il Giappone, in tutte le regioni prese in considerazione la fonte principale dei rifiuti è la plastica usa e getta che proviene dal packaging. I dati provengono dalle analisi di Conversio Market and Strategy, un'azienda tedesca specializzata nell’analisi e nella consulenza nel settore dell’industria plastica. Gli stessi analisti di Conversio sottolineano la difficoltà di questo tipo di analisi per la diversa modalità di raccolta dei dati e la loro limitata affidabilità, ma anche per i diversi sistemi di raccolta e smaltimento in funzione nei diversi paesi. Ciononostante, anche senza prenderli alla lettera, i dati forniscono un’immagine chiara del fatto che è proprio la plastica usa e getta, di scarsa qualità, impiegata per impacchettare i prodotti che compriamo, alimentari o meno, a finire nel cestino dopo una vita piuttosto breve.

La capacità di riciclare, dando quindi una nuova vita ai rifiuti, varia grandemente da regione a regione, come mostra il grafico. Anche qui i dati sono da prendere cum grano salis, perché per esempio i dati su Cina e India vengono indicati da Conversio come di limitata affidabilità. Perché sia effettivamente possibile un confronto reale, in effetti, sarebbe necessario avere sistemi di monitoraggio dell'intero ciclo della plastica, dalla produzione al rifiuto finale. Ma è un elemento che varia da paese a paese e dipende anche dalla messa a punto di norme e regolamenti precisi, che ad esempio nel caso dell'Unione Europea sono piuttosto stringenti, diversamente da altre aree del mondo.

Il punto che emerge chiaramente dall’analisi fatta dai loro esperti, infatti, è che nei paesi Europei (qui comprendendo anche Svizzera e Turchia) la frazione di plastica riciclata è salita grazie alle limitazioni imposte per legge, permettendo che dieci paesi su trenta (Svizzera, Austria, Germania, Paesi Bassi, Lussemburgo, Svezia, Finlandia, Belgio, Danimarca e Norvegia) raggiungessero il 95% di riutilizzo della plastica (non solo riciclo). Sempre per quanto riguarda l’Europa, anche il dato di circa 41% di plastica per il packaging riciclato è figlio, secondo Conversio, delle politiche di responsabilità imposte alle aziende, cioè l’insieme di incentivi e penalizzazione economiche che rientrano dentro alla cosiddetta extended producer responsibility (EPR).  

USA vs. Cina

Primi produttori di materie plastiche e di rifiuti plastici sono le due superpotenze mondiali. Vale quindi la pena confrontare il diverso trattamento riservato ai secondi. Rispetto agli Stati Uniti, la Cina ricicla il quadruplo dei rifiuti plastici e ne spedisce solo un terzo in discarica. Ma produce anche il più alto valore di materie plastiche che non vengono gestite in modo adeguato e finiscono in discariche improprie, dove causano un danno ambientale. La Cina, inoltre, brucia per trarne energia elettrica (recupero energetico) quattro volte la quantità di plastica degli USA, utilizzando procedimenti di incenerimento che, secondo quanto dicono le direttive dell’Unione Europea, sono in grado di produrre energia in modo pulito.

In generale, questo confronto tra i due colossi mondiali mostra chiaramente in quali settori dovranno migliorare entrambi per garantire un futuro meno inquinato dalla plastica. Il leader economico asiatico dovrà migliorare la propria capacità di intercettare tutti i rifiuti plastici, riducendo la quantità che viene gestita in modo inadeguato sotto il profilo della sostenibilità e che nemmeno si sa dove va a finire (sono ben 3,9 milioni di tonnellate l’anno). La controparte americana dovrà decisamente investire sul fronte dell’implementazione di una politica di raccolta differenziata e riciclo dei rifiuti, seguendo la strada che con discreto successo è stata seguita dai paesi europei negli ultimi due decenni. Vista anche la crescita della popolazione americana, questo si propone come un nodo cruciale per i prossimi anni.

Bioplastiche

Nel corso di un settantennio, la quantità di plastica prodotta a livello mondiale ha quasi raggiunto gli 8 miliardi di tonnellate, come mostra il grafico elaborato da Our World in Data e basato sui dati di uno studio apparso nel 2017 sulla rivista scientifica Science Advances.

L’obiettivo primario deve rimanere, e lo sottolineano tutte le iniziative europee in questo ambito, quello di ridurre la quantità di rifiuti prodotti. Nel campo delle plastiche, accanto alla riduzione, all’aumento del riciclo e di altre tecniche per sfruttarle quando diventano rifiuti, una soluzione che si è fatta largo negli ultimi anni è la sostituzione dei materiali di origine fossile con le cosiddette bioplastiche. Qui c’è subito da fare una grossa distinzione, perché con questo termine si intendono due cose diverse. 

La prima famiglia di materiali che viene di solito in mente è composta da quei prodotti che una volta terminata la loro vita possono essere biodegradati, come per esempio i sacchetti di bioplastica che possono finire nella pattumiera dell’umido. Ma sono bioplastiche anche quelle plastiche che non sono necessariamente biodegradabili e che sono, però, prodotte a partire da materiali biologici anziché dal petrolio. Per questo motivo vengono anche definite plastiche a base biologica (bio-based). Esistono alcuni materiali che sono prodotti a partire da materie prime biologiche e sono anche biodegradabili, ma costituiscono una minoranza della galassia di bioplastiche attualmente prodotte. Secondo European Bioplastic, l’associazione continentale che rappresenta i produttori di bioplastica, questo insieme di materiali così diversi è però in grado di fornire una alternativa bio a qualsiasi plastica di origine fossile attualmente in commercio.

Nel 2019, sempre secondo European Bioplastic, il settore complessivamente vale meno dell’1% della produzione mondiale di plastica. Ma da buoni rappresentanti di industriali, fanno comunque notare che si tratta di un settore in espansione, e prevede di passare dagli attuali 2,1 milioni di tonnellate l’anno del 2019, ai circa 2,5 del 2024, con un incremento di quasi il 20% nell’arco di soli cinque anni. 

Se le quantità sembrano ancora non essere sufficienti a soddisfare una domanda in aumento da parte dei paesi che stanno vivendo un periodo di crescita della propria economia, è comunque interessante notare in che settore sono maggiormente impiegate le bioplastiche. Il rapporto di European Bioplastics infatti racconta che il 46% delle plastiche bio-based è impiegato come packaging (sia rigido che flessibile). Una percentuale che sale al 59% nel caso delle plastiche biodegradabili. Ovvero, le cosiddette bioplastiche trovano già larghissimo uso proprio nel settore tra i più problematici dal punto di vista della creazione di rifiuti usa e getta. Peraltro per usi dove il packaging plastico è spesso non indispensabile: il pasto take away, le monoporzioni, il sacchetto per le verdure e così via. Su questo fronte, quindi, pur con numeri ancora piccoli, le bioplastiche possono contribuire in maniera sensibile, se adeguatamente sostenute anche dalle normative (come è successo nel caso dei sacchetti permessi nei negozi), a diminuire il peso del packaging di plastica sull’ambiente.

E ora che si fa?

Come dicevamo, in questo periodo di risposta alla pandemia di COVID-19, le plastiche sono tornate al centro della discussione pubblica perché di plastica, spesso monouso, sono fatti i molti dispositivi di protezione individuale. A partire da mascherine e guanti, che dobbiamo indossare tutti, o le visiere come quelle che proteggono i parrucchieri e tutti i lavoratori dei centri di servizio alla persona, dal dentista all’estetista. Inoltre, in molti casi, sono state vietate le borse riciclabili portate da case per fare la spesa, perché ritenute meno sicure, per quanto uno studio recentemente pubblicato dal New England Journal of Medicine indichi che la permanenza del virus SARS-CoV2 sulla plastica sia in realtà piuttosto lunga, fino a 3 giorni, e maggiore che su altre superfici. Da più parti leggiamo che la richiesta improvvisa e massiccia dei dispositivi di protezione ha portato anche intere aziende a riconvertire i propri cicli produttivi per fare fronte alla domanda. Aziende che dunque proprio sulla plastica puntano ora per far fronte alla crisi economica.

C’è quindi un evidente conflitto tra la spinta verso la riduzione dell’uso della plastica usa e getta, auspicata da molti per le conseguenze drammatiche per salute e ambiente, e sostenuta dalle norme approvate negli ultimi tre anni, e la necessità di aumentarne l’utilizzo durante questi mesi e forse per anni a venire. 

Il Rapporto Imprese Aperte prodotto a fine aprile dal Politecnico di Torino propone una stima sulla quantità di mascherine necessarie per i lavoratori dei diversi comparti produttivi. Per la sola regione Piemonte nella fase di riapertura di tutte le attività il Rapporto indica che saranno necessarie circa 76 milioni di mascherine chirurgiche al mese e circa 8 milioni di quelle definite di comunità, non chirurgiche. Questo dato deriva da una stima della forza lavoro regionale e dal fatto che la mascherina, a regola d’arte, non andrebbe indossata per più di 4 ore di seguito e andrebbe poi sostituita. Al numero di mascherine vanno poi aggiunti, sempre al mese, 38 milioni di guanti, 175mila termometri, e 21mila cuffiette di plastica per chi ha i capelli lunghi. Le stime del PoliTO si basano sui dati ISTAT relativi al numero di lavoratori per regione: il Piemonte ha circa l’8% della forza lavoro italiana. Lo stesso stesso PoliTo suggerisce di fare una stima, su scala nazionale, moltiplicando per 12 la cifra calcolata per il Piemonte. E in effetti, utilizzando i dati Istat sul numero di lavoratori italiani (poco più di 25 milioni), e immaginando che una parte di questi comunque continui a lavorare in smart working, si arriva comunque a una cifra approssimativa di oltre 900 milioni di mascherine utilizzate ogni mese negli ambiti lavorativi, un altro centinaio usate dalle persone nei propri spostamenti all’interno della comunità. Oltre a quasi 500 milioni di guanti. 

A queste vanno aggiunte le stime di numero di mascherine e altri dispositivi necessari per la riapertura delle scuole. Anche in questo caso, il Politecnico di Torino ha pubblicato un Rapporto con indicazioni per la riapertura delle scuole, dove si stima che ogni studente dai 6 anni in su dovrebbe indossare nell’arco della giornata a scuola 2-3 mascherine giornaliere. Anche in questo caso, facendo una stima grossolana, se sono più di 8 milioni gli studenti che frequentano ogni giorno le scuole italiane, arriviamo a ben più di 20 milioni di mascherine utilizzate quotidianamente durante le lezioni, circa, per un totale di 400 milioni al mese. Per non parlare dei lunch box monouso con piatti e posate di plastica al posto dei pasti distribuiti nelle mense nelle scuole che offrono questo servizio. 

Cifre molto consistenti. E l’unica raccomandazione possibile, al momento, è quella che arriva dal WWF e da altre associazioni ambientaliste: in attesa di capire se sarà possibile proporre, almeno in parte, l’uso di dispositivi riutilizzabili (già circolano mascherine lavabili, ad esempio, almeno per un uso quotidiano personale, al di fuori degli ambienti di lavoro) sarà molto importante eliminare questi rifiuti nel modo più sicuro possibile per evitare che finiscano dispersi nell’ambiente. “Se anche solo l’1% delle mascherine venisse smaltito non correttamente e magari disperso in natura questo si tradurrebbe in ben 10 milioni di mascherine al mese disperse nell’ambiente.” cita il WWF nel suo comunicato, che conclude Considerando che il peso di ogni mascherina è di circa 4 grammi questo comporterebbe la dispersione di oltre 40mila chilogrammi di plastica in natura: uno scenario pericoloso che va disinnescato.!

Anche la Fondazione Sviluppo Sostenibilethink tank tutto italiano che riunisce moltissime aziende e associazioni professionali attivi nel settore dell’economia circolare e green, si è occupata delle questioni ambientali con il Dossier recentemente pubblicato Pandemia e alcune sfide green del nostro tempo assieme al Green City Network. Il dossier, pur senza riferirsi specificamente ai rifiuti plastici, richiama l’attenzione sul fatto che questo periodo di contrazione dei consumi da un lato e di riduzione dell’inquinamento dall’altro possano essere anche fonte di riflessione, spunti e ragionamenti che portino a una ripresa in linea con la filosofia e le pratiche dell’economia circolare e non di quella lineare, che comporta necessariamente produzioni intensive e anche grandi quantità di spreco di risorse. Uno spiraglio, un auspicio, che si unisce a quanto viene ripetuto continuamente in queste settimane da gran parte della società civile impegnata in favore dell’ambiente. Cerchiamo di evitare che la pandemia produca un enorme passo indietro nelle politiche e pratiche di difesa dell’ambiente e costituisca, al contrario, un’occasione per ripensare la struttura stessa del modello e del sistema produttivo contemporaneo. 

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