SOCIETÀ

La crisi sanitaria in India e le conseguenze globali sulla lotta a Covid-19

Uno studio di meta-analisi pubblicato su The Lancet Global Health lo scorso marzo prendendo in esame i risultati dei test sierologici stimava che in India il virus Sars-CoV-2 avesse raggiunto quasi il 20% della popolazione (circa 270 milioni su 1,4 miliardi di persone), con punte del 40% in metropoli come Nuova Delhi. Valori così alti facevano sperare che la fase più dura della pandemia, quando a settembre 2020 in India si sfioravano le 100.000 nuove infezioni giornaliere, fosse alle spalle. Oggi la curva dei contagi in India è tragicamente schizzata oltre quota 330.000. Il record fino a oggi spettava agli Stati Uniti che a gennaio viaggiavano intorno a quota 250.000 nuovi casi giornalieri.

Nel mondo complessivamente le cose non vanno meglio. Con l'arrivo delle vaccinazioni si pensava di aver superato il picco pandemico quando a gennaio si erano registrate circa 740.000 nuove infezioni in un giorno. Il 25 aprile scorso sono state superate le 825.000 nuove infezioni. Evidentemente i vaccini, o meglio la loro distribuzione globale, non hanno ancora raggiunto livelli sufficienti ad arginare la diffusione del virus e delle sue varianti: la crisi sanitaria dall'India c'entra anche in questo, come vedremo.

Intanto in India sta circolando una nuova variante, la B.1.617, che contiene in particolare due mutazioni, una delle quali è la E484Q, simile a quella delle varianti sudafricana, brasiliana e nigeriana (E484K) che potrebbe rendere più difficile al nostro sistema immunitario identificare il virus e rendere di conseguenza i vaccini meno efficaci. Gli scienziati tuttavia stanno ancora valutando l'effettiva pericolosità di questa variante, così come la sua trasmissibilità, che laddove dovesse risultare più elevata, creerebbe un cocktail perfetto con il basso tasso di vaccinazioni (ad oggi meno del 9% della popolazione indiana ha ricevuto almeno una dose) e le scarse restrizioni alle interazioni sociali che si registrano nel Paese.

Una possibile spiegazione del perché il virus sia tornato a circolare in maniera così massiccia è che la distribuzione di coloro che sono già stati contagiati, e che dunque avrebbero dovuto costituire una barriera contro il virus per l'immunità già sviluppata, fosse in realtà molto più disomogenea di quanto si pensasse. È possibile ad esempio, riporta Nature, che le persone più agiate siano riuscite a isolarsi dalla prima ondata che ha colpito le fasce più povere delle popolazioni delle grandi città.

La situazione in India oggi sembrerebbe simile quella verificatasi qualche mese fa in Brasile, dove una violenta crescita dei contagi, e di casi di reinfezioni, aveva travolto la città di Manaus dove è stata individuata una variante (P.1) più trasmissibile e capace di sfuggire in parte alle difese del sistema immunitario.

L'inizio delle vaccinazioni a gennaio e la convinzione di aver superato una volta per tutte il picco di settembre hanno fatto credere alla popolazione indiana di aver domato Covid-19. La narrazione è stata cavalcata anche dal primo ministro Narendra Modi, che ha permesso a grandi gruppi di riunirsi al chiuso e all'aperto per celebrare eventi religiosi e matrimoni. Ma persino le lunghe code ai centri vaccinali unite alle misure di distanziamento rilassate possono aver contribuito a una risalita dei contagi.

Oggi la carenza di bombole di ossigeno negli ospedali, affollatissimi, rischia di far salire ulteriormente il numero dei decessi giornalieri, che ha già superato quota 2700 e ptrebbe essere ancora una sottostima. Diversi Paesi hanno bloccato i voli dall'India per prevenire la diffusione globale della variante indiana, che però è già stata individuata anche in Italia: due casi positivi in Veneto a Bassano del Grappa. Australia, Regno Unito, Unione Europea, Germania, Francia e Arabia Saudita hanno già inviato o promesso di far arrivare materiale e personale sanitario per aiutare l'India a fronteggiare l'emergenza. Gli Stati Uniti di Biden hanno anche deciso di mettere a disposizione materiali sufficienti a produrre 60 milioni di dosi del vaccino AstraZeneca ai Paesi più bisognosi, inclusa l'India.

L'India, i vaccini e COVAX

Il paradosso dell'India infatti è che pur essendo uno dei più grandi produttori mondiali di vaccini oggi fatica a disporre delle dosi sufficienti a mettere in sicurezza la propria popolazione. Di conseguenza ci si dovrà aspettare nei prossimi mesi un calo nelle esportazioni delle dosi prodotte proprio in India e destinate ai Paesi che rientrano nel programma Covax, guidato da Oms e dalle associazioni internazionali Cepi e Gavi, e volto a garantire un equo accesso ai vaccini a tutti i Paesi economicamente più svantaggiati.

Il Serum Institute di Pune in India infatti è uno dei centri internazionali in cui viene prodotta la versione indiana del vaccino di AstraZeneca (il Covishield): il governo indiano ha già temporaneamente bloccato, a marzo scorso, le esportazioni di queste dosi.

AstraZeneca aveva autorizzato il Serum Institute a produrre fino a 1 miliardo di dosi di Covishield destinate a Paesi a basso e medio reddito. Fino ad ora solo 64 milioni sono state consegnate prima della sospensione di mazo. 28 milioni rientrano all'interno della cornice Covax, che ad oggi è riuscita a distribuire circa 40 milioni di dosi tra i più di 100 Paesi che ne fanno parte.

Il Serum Institute, che produce sia il vaccino AstraZeneca sia quello di Novavax (quest'ultimo basato sulla biotecnologia proteine+adiuvanti e ancora non autorizzato all'uso in India) aveva acconsentito a produrre 200 milioni di dosi dei due preparati per conto di Covax. I primi 100 milioni di dosi sarebbero dovuti venir consegnati tra febbraio e maggio di quest'anno, ma secondo quanto riporta bbc.com meno di 30 milioni risultano spediti (10 dei quali riservati all'India stessa, che di Covax fa parte). In una nota Covax ha fatto sapere che l'India è obbligata a mantenere gli impegni presi.

L'obiettivo primario dell'India è ora vaccinare entro i confini nazionali 300 milioni di persone, tra individui vulnerabili e operatori sanitari, entro la fine di luglio. Le quantità di dosi disponibili tuttavia fanno preoccupare le autorità sanitarie.

Meno del 10% della popolazione ad oggi ha ricevuto la prima delle due dosi necessarie a suscitare la protezione immunitaria completa (quindi meno di 140 milioni di persone) e la capacità produttiva del Serum Institute al momento è di poco più di 60 milioni di dosi al mese.

A gennaio il governo ha autorizzato anche l'uso del vaccino di casa sviluppato e prodotto da Bharat Biotech: è stato sviluppato in collaborazione con l'Indian Council of Medical Research, si chiama Covaxin ed è basato sulla classica biotecnologia del virus inattivato. Ad oggi però se ne possono fabbricare 12,5 milioni di dosi al mese.

Le autorità indiane hanno già autorizzato il vaccino russo Sputnik V, basato su adenovirus come quello AstraZeneca. L'India ne sarà in grado di produrre 850 milioni di dosi all'anno, destinate sia al mercato interno sia estero.

Inoltre il governo indiano sta già organizzando l'importazione di dosi dei vaccini statunitensi di Pfizer, Moderna e Johnson&Johnson sebbene non risultino ancora approvati dalle autorità sanitarie nazionali.

Fintanto che la crisi sanitaria dell'India non verrà risolta, le sorti delle campagne vaccinali di decine di Paesi a basso e medio reddito resteranno appese a un filo. Curare l'India allora vuol dire davvero curare il mondo.

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