SOCIETÀ

Cuba affronta la sua crisi più grande

La crisi è seria, probabilmente la più grave degli ultimi 64 anni, da quando Fidel Castro (era il febbraio del 1959) giurò come primo ministro di Cuba dopo aver guidato (con i suoi fratelli, con Ernesto Che Guevara e Camilo Cienfuegos) la rivoluzione contro la corruzione e la delinquenza imposte dal dittatore di destra Fulgencio Batista, assai gradito a Washington, fino a costringerlo all’esilio. Era la nascita di un sogno, di un laboratorio politico che tra mille difficoltà, e altrettante contraddizioni, è riuscito a imporsi nonostante l’ingombrante vicinanza con gli Stati Uniti, a resistere in una realtà spesso estremamente ostile. È storia, e dev’essere letta con serietà, con tutte le luci e le molte ombre che l’hanno accompagnata in questi sei decenni. Ma oggi, e non da oggi, la situazione sta scivolando fuori controllo, sul piano inclinato di una crisi economica, energetica, alimentare, sociale che sembra senza soluzione, che lascia inerme la classe dirigente, a partire dal presidente Miguel Díaz-Canel, e stremata la popolazione, che come può tenta ancora di resistere, o di fuggire altrove. Più rassegnazione che speranza, con il futuro che è sempre più un’incognita. Come riassume il Council on Foreign Relations: «Il regime comunista di Cuba è al suo punto più debole da decenni. I problemi economici dell’isola, la fuga di cervelli, la persecuzione dei dissidenti da parte del regime e le istituzioni statali decadenti stanno tutti esigendo un alto tributo, ma data la presa repressiva delle autorità sulla società, è improbabile che il cambiamento sia all’orizzonte».

Manca tutto: dal latte al petrolio

La novità è che perfino il governo cubano, di solito restio a riconoscere le situazioni più delicate, oggi ammette che il problema c’è, ed è serio. A metterci la faccia sono stati, la scorsa settimana, il ministro dell’Economia, Alejandro Gil Fernández, e il ministro dell’Energia, Vicente de la O Levy, che in diretta tv hanno annunciato alla popolazione che avrebbe dovuto stringere di altri due buchi la cinghia già logora. Che ci sarebbe stato meno latte a disposizione, meno caffè, meno carne (la produzione di carne suina è precipitata dalle quasi 200 tonnellate del 2017 alle appena 16 tonnellate del 2022), meno medicinali. Che aumenteranno le ore di black-out (fino a 10 ore al giorno) per razionare l’energia elettrica, che i trasporti pubblici potrebbero fermarsi perché non c’è più carburante, perché degli impianti di raffinazione ne resta attivo soltanto uno, quello a L’Avana, con poca materia prima (Cuba produce appena il 40% del suo fabbisogno) e di scarsa qualità, vale a dire petrolio con elevato contenuto di zolfo, il che rallenta i processi di raffinazione e di distribuzione e provoca guasti sempre più frequenti nelle centrali termoelettriche. C’è un crollo, conseguente, della produzione agricola. E una profonda crisi di liquidità: non ci sono più soldi né per comprare cibo all’estero (Cuba importa circa il 70% di quel che occorre) né per garantire gli approvvigionamenti alimentari di basegratuiti (l’85% dei cubani li esaurisce in meno di dieci giorni), che avevano peraltro consentito a Cuba di ottenere per anni il più basso tasso di malnutrizione di tutte le Americhe. Perfino gli alloggi (forniti gratuitamente dallo stato) stanno diventando un problema: il 56% delle abitazioni ha “urgente bisogno di riparazioni”, mentre il 15% è a rischio crollo (e poche ore fa un edificio è crollato a L’Avana: due persone sono morte, un’altra è dispersa). Soltanto il 15% degli alloggi popolari è considerato in buone condizioni. La migrazione interna, dalle province più povere verso la capitale, famiglie intere in cerca di una qualsiasi forma di sostentamento, sta generando un fenomeno di sovrappopolazione a L’Avana (la popolazione stimata supera di molto i 2 milioni). Le case non bastano per tutti: anche gli edifici fatiscenti, un tempo abbandonati, e in condizioni estremamente precarie e senza servizi, sono oggi temporaneamente abitati.

Ma ci sono percentuali ancor più drammatiche: l’88% dei cubani (sono circa 11 milioni gli abitanti dell’isola) vive al di sotto della soglia di povertà, dato in aumento del 13% rispetto al 2022. A stabilirlo è il rapporto annuale sullo stato dei diritti sociali a Cuba, elaborato dall’Osservatorio cubano dei diritti umani (OCDH), con sede a Madrid, presentato a fine settembre. Il 78% degli intervistati ha sostenuto che lui stesso, o almeno un membro della sua famiglia, è stato costretto a saltare almeno un pasto per “mancanza di denaro”. Va ancora peggio guardando al reddito delle famiglie: prendendo a parametro lo standard internazionale di un guadagno di 1,9 dollari a persona al giorno, il 95% della popolazione è sotto il livello di povertà. Il 17% dei cubani non ha acqua corrente potabile nelle case. Parliamo di sopravvivenza e così crescono anche le preoccupazioni: dalla crisi alimentare (per il 70% dei cubani) ai salari troppo bassi (50%), fino all’inflazione (per il 34% degli intervistati). Mentre precipita il “gradimento” dell’operato del governo: l’86% esprime un giudizio negativo sulla gestione economica e sociale. Più dell’80% dei cittadini cubani, con punte che toccano anche il 90%, ritiene che gli investimenti pubblici nell’istruzione, nell’alloggio, nell’agricoltura e nel cibo, nella sanità pubblica e negli ospedali siano insufficienti. Il 15% della popolazione ha ammesso di aver assunto farmaci scaduti.

Il precipizio alla fine del 2016

Sono diverse le cause che hanno portato Cuba sull’orlo di una crisi che appare irreversibile: la pandemia che nel 2020 ha chiuso le frontiere travolgendo il settore del turismo, che sta ancora tentando di tornare ai livelli pre-Covid, quando la quota annuale superava i 4,2 milioni di visitatori (nei primi 7 mesi del 2023, stando ai dati forniti dal ministero del Turismo cubano siamo attorno al milione e mezzo di arrivi). La progressiva diminuzione del petrolio venezuelano, in quantità e in qualità, che per anni aveva soddisfatto a prezzi di estremo favore il fabbisogno energetico dell’isola. L’inasprimento delle sanzioniIl punto di svolta, in negativo, si può fissare nel 2016. Proprio l’anno che nella prima parte aveva segnato eventi eccezionali, paragonabili alla caduta di un Muro: come l’arrivo di Barack Obama sull’isola, primo presidente americano a visitare Cuba dalla rivoluzione castrista, portando con sé il concreto proposito di una normalizzazione delle relazioni, diplomatiche e commerciali. O come il concerto gratuito dei Rolling Stones a L’Avana, di fronte a 500mila persone. Sembrava, finalmente, l’inizio del disgelo. Ma altri due eventi, verso la fine di quello stesso anno, hanno spezzato il sogno dei cubani. L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca.

E la morte del leader storico della rivoluzione: Fidel Castro. Da allora la strada s’è fatta in salita, ripidissima. Trump ha immediatamente ridato fiato e voce alla patologica ossessione americana, mai superata, per il “comunismo”, ristabilendo restrizioni di viaggio e di lavoro, ripristinando sanzioni (attive, con differenti gradazioni, dal 1962), ponendo nuovi limiti alle rimesse che i cubani esuli potevano inviare in patria e richiamando a Washington gran parte del personale diplomatico, anche prendendo a pretesto alcuni strani episodi di perdita dell’udito, vertigini e mal di testa lamentati da personale dell’intelligence americana, la cosiddetta “sindrome dell’Avana”. L’11 gennaio 2021, nei minuti finali del suo mandato, cinque giorni dopo l’assalto a Capitol Hill, Trump riportò Cuba nella lista delle nazioni che, secondo gli Stati Uniti, sono “sponsor del terrorismo”.

L’attuale presidente Joe Biden ha poi allentato alcune sanzioni, ma nonostante le promesse di “rivedere” lo status di Cuba (come disse il segretario di Stato Antony Blinken, nell’ottobre 2022, durante una conferenza stampa con il Presidente colombiano Gustavo Petro) nulla più è stato fatto. Il vice Ministro degli Esteri cubano, Carlos Fernández de Cossío Domínguez, ha appena lanciato l’ennesimo appello alla Casa Bianca chiedendo di rimuovere le sanzioni che, a suo dire, sono all’origine di quest’ultima crisi economica. «La politica di Washington è ingiusta e ingiustificata», ha commentato il vice Ministro degli Esteri cubano, intervistato da Newsweek. «È la nazione più potente della Terra contro un paese molto piccolo, che non ha alcuna disputa con nessun altro paese in tutto il mondo. La politica degli Stati Uniti danneggia il sostentamento di ogni cubano, il loro tenore di vita, il loro benessere, la loro capacità di provvedere alle loro famiglie, la loro capacità di pianificare il futuro, di avere piani e prosperità, di garantire assistenza sanitaria alle loro famiglie in un paese che ha un sistema sanitario robusto ed efficace, ma che oggi manca di risorse e tecnologia. E il presidente Biden potrebbe fare passi immediati, anche senza l’autorizzazione del Congresso, per migliorare la situazione: a partire dal tentativo di privare Cuba delle forniture di carburante sanzionando le compagnie di navigazione che forniscono carburante a Cuba, o minacciandole di essere sanzionate». Dalla Casa Bianca, al momento, nessuna risposta (ed è pur vero che oggi Cuba, per Joe Biden, è l’ultimo dei problemi). La posizione ufficiale resta sempre la stessa: le sanzioni  sono la “risposta necessaria” a una lunga serie di violazioni dei diritti umani commesse dal governo cubano. L’Avana nega, ma serve a poco.

La piaga dei diritti umani calpestati

Ma l’attitudine alla repressione del dissenso, da parte delle autorità cubane, non è negabile. Da anni l’esasperazione spinge i cubani a scendere in piazza, come nel 2021, quando in migliaia chiesero a gran voce un intervento del governo per colmare le carenze sistematiche di cibo e medicine, al grido di “patria e vita”, in contrapposizione allo storico slogan rivoluzionario, “patria o muerte”. Il presidente Diaz-Canel decise di intervenire con la forza: almeno un manifestante ucciso dalla polizia, 1400 arresti, quasi quattrocento condanne. Nel maggio dello scorso anno lo stesso presidente cubano ha fatto approvare un nuovo codice penale che criminalizza ancor più il dissenso e inasprisce la stretta del regime sul giornalismo indipendente. Scrive Human Rights Watch a proposito di Cuba, nel suo rapporto 2023: «Il governo cubano ha continuato a utilizzare lo strumento della detenzione arbitraria per intimidire critici, attivisti indipendenti, oppositori politici, giornalisti. Gli agenti hanno impedito alle persone di partecipare alle proteste, arrestando critici e giornalisti sulla loro strada o impedendo loro di uscire di casa. Alcune vittime e i loro parenti, ripetutamente vessati dalle forze di sicurezza, hanno lasciato Cuba. Il numero di cubani che lasciano il loro paese è aumentato drammaticamente nel 2022, superando i picchi storici degli anni 80 e 90». Le cifre non mentono: dai 39mila tentativi d’ingresso negli Stati Uniti del 2021 siamo passati ai 224mila del 2022. Molti cubani hanno venduto le loro case a prezzi stracciati per comprarsi un volo di sola andata per il Nicaragua e da lì entrare in Messico, verso la frontiera con gli Usa.

Ancora dal rapporto di Human Rights Watch: «Il governo controlla praticamente tutti i media a Cuba, limita l’accesso alle informazioni esterne e censura periodicamente i critici e i giornalisti indipendenti. Giornalisti, blogger, influencerdei social media, artisti e accademici che pubblicano informazioni considerate critiche nei confronti delle autorità sono regolarmente soggetti a molestie, violenze, campagne diffamatorie, restrizioni di viaggio, interruzioni di Internet, incursioni in case e uffici, confisca di materiali di lavoro e arresti arbitrari». L’ong Prisoners Defenders ha aggiornato, due mesi fa, il conteggio dei prigionieri politici attualmente detenuti a Cuba: 1047 persone, detenute arbitrariamente e sottoposte a torture varie in carcere.

Ma il governo cubano finge di non vedere. Il presidente Diaz-Canel non mostra alcun cenno di apertura, continua a ignorare il malcontento popolare, ormai arrivato ben oltre il limite di guardia, in un circolo vizioso che non suggerisce alternative. Con il ministro dell’Economia Gil Fernández che propone una soluzione “interna” («Dobbiamo dipendere sempre di più da ciò che siamo in grado di produrre»), chiedendo però al popolo cubano di «mantenere la fiducia nella rivoluzione. Sappiamo che la vita è dura, ma fidatevi: l’unica via d’uscita è la rivoluzione e il socialismo». Parole che ad ascoltarle oggi, di fronte alla disperazione, agli stenti quotidiani, alla miseria, alle drammatiche fughe, appaiono più che mai anacronistiche, fuori luogo, fuori tempo.

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012