CULTURA

Fotografie dal lager. Da Lee Miller a Wilhem Brasse: gli scatti dell'indicibile

In uno scatto iconico, realizzato da David E. Scherman, Lee Miller viene ritratta nella vasca da bagno di Hitler, nell'appartamento al 16 di Prinzregentenplatz, a Monaco. Gli anfibi sporchi, usati a Dachau, sono sistemati sul tappetino del bagno, gli abiti sullo sgabello accanto, lei non rivolge lo sguardo all'obiettivo, guarda altrove, una fotografia del Führer è appoggiata alla parete, sul bordo della vasca. È l’aprile del 1945 e in quei giorni, a liberazione avvenuta, la fotografa americana ha varcato i cancelli dei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald, vedendo con i propri occhi l'orrore: è tra le prime a rivelare la verità del lager attraverso l'obiettivo della sua macchina fotografica. Gli scatti realizzati per Vogue scuotono nel profondo, svelano la sofferenza causata da torture e privazioni, mostrano cadaveri ammassati e mucchi di ossa, corpi segnati dalla fame e dagli abusi. Negli stessi giorni anche Margaret Bourke-White è a Buchenwald per conto della rivista Life.

Dell'impatto e del valore di testimonianza di quelle immagini abbiamo parlato con Walter Guadagnini, critico d'arte e direttore artistico di Camera, Centro italiano per la fotografia a Torino. "Le immagini dei campi di concentramento di Lee Miller sono le più dure che si possano immaginare. A queste lei affianca una riflessione ampia sulla morte con le fotografie dei suicidi dei gerarchi nazisti, altrettanto dirette e crudeli. Si tratta di una fotografia di documentazione anomala, perché fatta con uno spirito che va al di là del reportage nudo e crudo, e gli scatti vengono realizzati per Vogue, altra anomalia, se ci pensiamo". E Guadagnini continua: "Per capire le fotografie di Miller dobbiamo riflettere sull'utilizzo che si scelse di farne: sono immagini che servono a costruire articoli durissimi che mostrano da una parte la normale vita dei cittadini tedeschi e, dall'altra, il campo di concentramento. È una condanna senza appello per un intero popolo".

L'esperienza dell'orrore resta addosso a Lee Miller, segna gli anni successivi indebolendone la salute mentale e portandola a rifugiarsi sempre di più nell'alcol. Le fotografie scuotono nel profondo l'anima di chi le osserva ma, prima di tutto, quella di chi le ha realizzate: ci si chiede allora quanto questo tipo di fotografia abbia inciso sulla produzione successiva e su una certa idea di racconto visivo del male del mondo. "La fotografia ha sempre mostrato gli orrori, è avvenuto sia prima che dopo l'Olocausto, è sempre riuscita a raccontare la realtà com'è, senza veli. Penso a Mathew Brady che fotografò la Guerra civile americana: il signor Brady ha portato i cadaveri nelle nostre case, dicevano. Dunque, già da un po' questo stava avvenendo: è un capitolo della storia che, comunque, svela qualcosa di inimmaginabile. È quello che è successo anche con le foto dell'atomica, quando si arrivó alla consapevolezza di essere a un punto che non era mai stato raggiunto. Ma se dobbiamo pensare a un vero cambiamento nella produzione fotografica, credo che questo sia arrivato più tardi, probabilmente con la Guerra del Vietnam, quando si iniziò a riflettere sull'utilità di certe immagini, a ragionare su quanto davvero servisse mostrare l'orrore". 

Se Lee Miller e Margaret Bourke-White entrano nei lager da donne libere, c'è chi quell'orrore l'ha documentato dall'interno, da prigioniero. La fotografia dai lager racconta sempre l'indicibile, ma le storie personali di chi ha  attraversato quell’oscurità e l'ha documentata sono molteplici e molto diverse una dall'altra. Il caso di Wilhem Brasse è emblematico. Nasce nel 1917 a Zywiec, in Polonia, e si avvicina alla fotografia molto presto, imparando i rudimenti dalla zia, proprietaria di uno studio fotografico. Scoppiata la Seconda Guerra mondiale si rifiuta di giurare fedeltà al regime e tenta di scappare verso la Francia, ma viene catturato e deportato ad Auschwitz come dissidente politico e lì resta cinque anni. Durante il periodo di prigionia, considerando la sua conoscenza della lingua tedesca, viene incaricato di lavorare come fotografo per il dipartimento di identificazione, sezione straordinariamente importante all’interno della gerarchia del campo nonostante il meticoloso tentativo tedesco di spersonalizzazione dell’individuo. Il compito di Brasse è quello di fotografare i prigionieri scattando tre foto per ciascuno: una di fronte, una di profilo e una di tre quarti. Le foto servono a registrare le persone rinchiuse e a identificare eventuali tentativi di fuga. Viene poi incaricato di fotografare anche gli esiti degli esperimenti di Josef Mengele, il “dottor morte”. 

La sua foto più famosa ed esplicativa ritrae Czeslawa Kwoka, quattordici anni, polacca come lui. Brasse racconta che la giovane era stata picchiata, così come è evidente dalle immagini: non era in grado di comprendere la lingua e, dunque, confusa di fronte agli ordini ricevuti, non capiva cosa dovesse fare. “Non ho potuto fare nulla, non potevo fare nulla, perché qualunque mio intervento sarebbe stato fatale”, ricorderà anni dopo lo stesso Brasse. Negli occhi della giovane Czeslawa, che guarda dritto verso l’obiettivo della macchina fotografica, si riflette il dolore, quello che si specchia in Brasse, nella sua impotenza, perché è questa la condizione del fotografo di Auschwitz: cinque lunghi anni di impotenza, prigioniero del lager, vittima, testimone e fotografo del dolore.

Oggi come dobbiamo ‘leggere’ e valutare queste fotografie? "Per quanto riguarda Lee Miller, pur trattandosi di documentazione, in qualche modo possiamo considerarle anche dal punto di vista artistico - afferma Guadagnini -. Quelle di Brasse, invece, sono pura documentazione, più vicine alla fotografia giudiziaria o medica. Citando Walker Evans, potremmo dire che quelle di Miller sono in stile documentario, mentre quelle di Brasse sono documentarie. L'eccezionalità di Brasse sta altrove, nella sua volontà di salvare quegli scatti" per consegnarli alla storia, ignorando l'ordine di distruggerle ricevuto dai nazisti. Il materiale salvato si rivelerà fondamentale, non solo per coltivare il seme della memoria ma anche come prova contro gli imputati nazisti nel processo di Norimberga. Dopo la liberazione, Brasse torna in Polonia e cerca di intraprendere nuovamente la carriera di fotografo ritrattista, ma l’esperienza maturata all’interno del campo di concentramento di Auschwitz continua a perseguitarlo, a tenerlo prigioniero. Lascia, quindi, la sua Kodak in un cassetto e va a lavorare in un salumificio, sviluppando una vera e propria repulsione nei confronti dell’atto fotografico in sé. Robert Capa, fotografo di guerra e nel 1947 fondatore dell'agenzia Magnum, diceva: Se le tue foto non sono abbastanza buone è perché non sei abbastanza vicino. Una foto buona, una foto vicina, è una foto efficace. E se una foto è efficace, lo è perché ci racconta tre storie: quella del soggetto fotografato, quella del fotografo e la nostra. Ma quale è il costo di questa vicinanza?

"I vari generi fotografici e le diverse esperienze personali sono attraversati da un unico filo rosso, quello della testimonianza", riflette Guadagnini. Qui abbiamo selezionato alcune storie di fotografe e fotografi che hanno documentato sofferenze e orrori dell'Olocausto, ma in quegli anni anche altri hanno raccontato la guerra attraverso le immagini: "Sono vicende che fanno capire come ogni caso vada considerato singolarmente e con attenzione”. Il polacco Henryk Ross fotografa il ghetto di Lodz e, come Brasse, salva i negativi sotterrandoli (Ho seppellito i miei negativi nel terreno in modo che ci potesse essere qualche ricordo della nostra tragedia). "Fotografo sportivo della città, Ross vien preso e incaricato dai nazisti di schedare e documentare il ghetto. Riveste il ruolo di vittima e carnefice, anche la sua è una posizione terribile". E ancora, Walter Frentz, uno dei fotografi ufficiali del regime: la sua storia sposta completamente il punto di vista ma risulta altrettanto significativa. "Sono sue le immagini che mostrano alcuni prigionieri dei lager impiegati nella costruzione e nell'assemblaggio di missili V2. Si tratta di un'altra forma di orrore, potremmo dire laterale: quegli scatti sono una messa in scena, a un primo sguardo sembrano operai, al lavoro in una sorta di catena di montaggio, ma tutti indossano il pigiama a righe". La dura verità viene svelata dai dettagli di una fotografia, giunta fino a noi.

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