CULTURA

L’Anima pastorale balcanica, intervista a Kapka Kassabova

«Il movimento transumante è esattamente ciò che dice il termine: attraversa il territorio, muovendosi come una sinfonia sul palcoscenico della terra. Ognuno ha uno strumento e suona seguendo lo stesso spartito». Questa frase, tratta da Anima – Una pastorale selvaggia di Kapka Kassabova, riassume gran parte dei temi e della poetica dell’autrice. Paesaggi e storie, persone e altri esseri viventi, margini e mutamenti, il tutto raccontato con la voce inconfondibile e l’empatia che contraddistingue la poetessa e scrittrice di origini bulgare.

Abbiamo intervistato Kassabova in occasione dell’uscita del quarto e ultimo libro dedicato alle regioni balcaniche meridionali, in particolare quelle comprese tra Bulgaria, Macedonia e Grecia (gli altri volumi sono Confine, Il lago ed Elisir). La storia di Anima ha come sfondo la catena montuosa bulgara del Pirin, dove l’autrice ha vissuto per lunghi periodi a fianco dei pastori che vi abitano, ultimi testimoni di un antico stile di vita insidiato dal capitalismo e dalla modernità: da qui partiamo per approfondire alcuni dei temi che permeano la sua produzione letteraria.

Come si inserisce Anima all’interno della “tetralogia balcanica” e quando è nato questo libro?

L’intero quartetto è nato in modo naturale, ogni libro è emerso dal precedente: non è stato pianificato, ma allo stesso tempo è stato inevitabile. Sono stati proprio i luoghi a chiamarmi: nel libro precedente (Elisir) era il versante orientale del Pirin, mentre per Anima sono tornata su quei monti ma su quello occidentale. E il richiamo del luogo, di quella particolare montagna, è stato ancora una volta fondamentale. Ma anche il mio crescente interesse per la vita dei pastori e per cosa significa abitare un’area montana con gli animali al pascolo.

Negli ultimi dieci anni, mentre trascorrevo del tempo in diverse zone dei Balcani meridionali, continuavo a incontrare persone che sembrano appartenere alle ultime comunità pastorali. Vivono in luoghi che un tempo erano “città degli animali” e ora sono colline vuote con qualche gregge sparuto, e ho capito che volevo conoscere meglio il presente di questo stile di vita del passato. Così che ho iniziato a scrivere Anima, o meglio a vivere Anima: per me vivere e scrivere sono due facce della stessa medaglia, non posso separare la vita dalla scrittura.

Per Anima ha vissuto con i pastori karakachan (o sarakatsani), mentre in Elisir aveva incontrato i pomacchi (musulmani balcanici di etnia non turca), popoli che sembrano essere emarginati e quasi cancellati dalla modernità: da dove viene questo interesse per le comunità marginali e come è stato vivere con loro sui monti Pirin?

Karakachan e pomacchi sono persone invisibili, emarginate o dimenticate. Sono forse gli ultimi pastori d’Europa, e penso che siano emarginati e invisibili perché gli animali lo sono diventati nella nostra società industrializzata. Le due cose vanno insieme: i popoli che vivono in simbiosi con gli animali sono come ponti tra il mondo industrializzato e la natura. Ma abbiamo dimenticato la terra, gli animali e chi ancora vive prendendosi cura degli animali da pascolo. E questa dimenticanza credo sia molto recente, inizia con l’industrializzazione delle nostre società: negli ultimi 200 anni in Europa del nord, 100 anni in quella del sud. Per questo nell’Europa meridionale è rimasto un po’ di pastoralismo, in Italia, Svizzera, Francia e naturalmente nei Balcani, la patria del pastoralismo.

Sono istintivamente attratta da esperienze vitalizzanti in cui posso anche imparare qualcosa di nuovo: amo essere una principiante. Ed essendo una scrittrice “esperienziale” ho bisogno di essere emozionata e ispirata da un luogo e dalla sua gente per voler dedicare due anni della mia vita a questa ricerca. Quindi, tutto inizia con un’esperienza, un luogo, un incontro, ed è stato così anche in questo caso: incontrando questi pastori in diverse zone dei Balcani e rendendomi conto che sono dei “paria”, esclusi dalla società.

E assieme ai pastori ha incontrato i loro cani, a cui dedica pagine molto emozionanti…

Ho iniziato a conoscere la storia dei cani da pastore di razza karakachan (e delle pecore omonime), che sono la chiave di tutto il nomadismo pastorale. È importante sottolineare che in Europa non ci sono più pastori nomadi, perché questo stile di vita si è estinto. Tuttavia, esiste una pastorizia mobile, diversa da quella nomade, perché è una pastorizia stagionale che resiste ancora nell’Europa del sud e in alcune zone della Scandinavia.

Anima parla di pastorizia stagionale e si concentra su una piccolissima comunità del Pirin occidentale e su poche persone che hanno contribuito a rivitalizzare le antiche razze di cani e pecore di montagna. Da lì è partito il mio interesse per le persone che si muovono, e la storia dei pastori nomadi karakachan è epica ed emozionante, ma anche dura. Ed è antica, visto che va avanti da 10-11.000 anni, da quando sono state addomesticate le prime pecore e capre.

Naturalmente “addomesticato” è un termine relativo, perché queste pecore sono piuttosto selvatiche e tutti gli animali da pascolo sono in origine animali selvatici. E questa pastorizia stagionale ha un aspetto molto selvaggio e imprevedibile: come pastore o custode di questi animali sei al comando, ma non hai mai davvero il controllo. Così questo libro è diventato un’esplorazione dell’io selvaggio, della natura selvaggia in tutti i suoi aspetti. Perché il suo significato è che non si ha il controllo, e credo di essere stata disposta a esplorare questo aspetto fino ai suoi limiti. Fino ai miei limiti.

Gli animali sono i veri protagonisti di Anima (così come in Elisir lo erano le piante): vivendoci a stretto contatto, cosa ha imparato su di loro, o da loro su di sé?

Elisir e Anima sono due viaggi e in entrambi ciò che ho imparato è stato il grado di separazione tra noi e i nostri simili su questo pianeta: piante, animali e luoghi.

Mi sono quindi fatta delle domande: come viviamo? Cosa significa essere veramente vivi? Per me è passare del tempo con gli animali, con i cani e un grande gregge di pecore, ma anche circondati da predatori nei monti Pirin, dove ci sono ancora tutti i componenti di un ecosistema sano. Queste sono grandi domande con cui siamo tutti alle prese in questo momento: cosa abbiamo fatto al nostro pianeta e a noi stessi? Come possiamo ricordare chi siamo? Come possiamo riconnetterci con il principio stesso della vita? E credo che chiunque abbia un cane, o abbia un qualsiasi contatto con gli animali, conosca l’effetto vitalizzante di questa relazione.

La grande ispirazione, l’effetto vitalizzante della vita pastorale, è stato un grande dono, e mi ha anche ridato fiducia nella nostra capacità di riconnetterci. Spostarsi sulla terra con gli animali, con dei compagni (non importa se umani o non umani): è proprio questo il significato di “transumanza”. Il movimento è nel nostro DNA, così come il bisogno di raccontare storie e di ascoltarle: ne abbiamo bisogno per sopravvivere, per rimanere umani, e credo che possa essere ripristinato. La libertà di spostamento fa parte delle nostre libertà fondamentali e dobbiamo recuperarla. Per me l’intera esperienza di Anima è stato il modo di reclamare la mia libertà fondamentale, umana, di muovermi sulla terra.

Nel 2019 la transumanza è stata inserita dall’Unesco nella lista dei Patrimoni culturali immateriali, ma in un mondo con sempre più confini difficili da attraversare (soprattutto per alcune persone) come possono sopravvivere queste pratiche?

Il riconoscimento dell’Unesco è positivo, ma non se serve solo a trasformare la pastorizia in un pezzo da museo. Ci sono varie cose da fare: una è aumentare la nostra consapevolezza collettiva che esistono altri modi di vivere, essere pastori o anche agricoltori è uno stile di vita. Diventare più consapevoli che questi stili di vita esistono ancora e ci offrono qualcosa: hanno un valore spirituale, culturale ed ecologico, che può anche essere misurato. E hanno un valore pratico, in quanto producono il cibo più sano possibile.

Un’altra cosa da fare è cambiare le politiche per incoraggiare i piccoli produttori, questa è una delle lotte oggi più urgenti. Dobbiamo lottare per tornare a una scala ridotta, al vecchio motto “piccolo è bello”, ma piccolo è anche sostenibile. Penso che, come singoli individui e comunità, dobbiamo sfidare i nostri politici a farlo e spero che il mio libro contribuisca a sensibilizzare l’opinione pubblica. Dobbiamo sfidare le aziende che violano la nostra terra, le città e le campagne, anche quando si presentano come rinnovabili o verdi (e il più delle volte non lo sono), perché utilizzano ancora vecchi metodi industriali di estrazione del profitto dalla terra. Quindi, dobbiamo fare pressione sui nostri governi e sulle autorità locali, alzare la voce e difendere i nostri territori, gli animali e le persone che vivono con e per gli animali. Si tratta di una questione pratica e politica: la pastorizia non è solo un pezzo da museo, se la perdiamo perderemo molte altre cose, perché tutto è collegato. E credo che ora stiamo vedendo che l’agricoltura industriale non è sostenibile, oltre che una pratica immorale e disumana.

Abbiamo visto anche che le catene di approvvigionamento globali sono molto vulnerabili e possono interrompersi a causa di conflitti, confini, crisi ambientali o catastrofi. È il sistema per cui entri in un supermercato in Italia e compri agnello dalla Nuova Zelanda, ma per quanto tempo sarà possibile? È un problema enorme di cui parlo in Elisir analizzando la catena di approvvigionamento di alcune piante, funghi e altri cibi gourmet.

In realtà, credo che il punto sia nelle relazioni: che tipo di relazione abbiamo con il nostro ambiente? O con ciò che consumiamo? Dove c’è una relazione, c’è responsabilità, tracciabilità, c’è un’etica e sostenibilità. Mentre l’agnello del supermercato viene da un grande macello dove si uccidono in massa gli animali... Ecco perché penso che la parola chiave sia relazione, e Anima è una storia di relazioni.

Descrive il Pirin in tutta la sua potente bellezza, ma vivere lì non è un idillio: è un’esistenza dura in un ambiente difficile, le persone sono esauste, non vengono pagate abbastanza per il loro lavoro, e il valore di ciò che fanno non è riconosciuto… Come si sentiva stando lassù? E com’è stato tornare alla cosiddetta normalità?

La cultura pastorale ha un vocabolario particolare in cui c’è il concetto di mondo “di sopra” e mondo “di sotto”: il primo è l’alpeggio, i pascoli estivi, e il secondo è quando si scende per l’inverno. Naturalmente c’è anche un significato simbolico: il mondo di sopra è quello in cui l’aria è più rarefatta ed è legato alla sopravvivenza. Come dice il pastore Sasho (uno dei personaggi principali di Anima, con cui ho vissuto lassù per diverse settimane) «è una sorta di 50 e 50»: vivi se gli animali vivono, muori se loro muoiono. Ed è vero, il mondo di sopra è un equalizzatore, dove ti rendi conto che, come essere umano, sei uguale a tutti gli altri esseri. In questo senso, è uno spazio molto liberatorio, un luogo di morte e di chiarezza, e da lassù ho visto le cose molto chiaramente. Ma è anche un luogo in cui non si può vivere, semplicemente perché arriva l’inverno e servono scorte di cibo, e anche gli animali hanno bisogno della varietà dei due mondi: è tutta una questione di movimento.

È difficile tornare al mondo di sotto, è uno shock culturale perché nella nostra società il mondo di sopra è dimenticato. E quaggiù è dove ci troviamo tutti, con la nostra monocoltura appiattita in cui sembriamo essere l’unica specie. Abbiamo dimenticato che ci sono altre specie, siamo una monocoltura come le piantagioni di soia che si estendono per chilometri. Questa monocultura siamo noi esseri umani, abbiamo creato un mondo molto noioso: questo è lo shock culturale quando si scende nel mondo di sotto, un po’ come le persone che fanno lunghi ritiri e rientrano nella società.

Vedi chiaramente quante cose superflue ci sono, quanto sia materialista la nostra cultura e quanto sia artificiale la nostra vita. Per me la cosa più difficile nel tornare quaggiù è stato non riuscire più a trovare l’utilità della maggior parte delle cose che vedevo. Vedevo persone che svolgevano compiti inutili, che salivano e scendevano dalle macchine, che andavano in giro a fare cose che odiavano, che avevano relazioni infelici, che compravano e vendevano oggetti e che non erano abbastanza vive: forse abbiamo dimenticato come essere vivi. Mi sembra che l’unico modo per ricordarlo sia ricominciare a camminare, rivitalizzando il nostro rapporto con il mondo “organico”. E non con il mondo digitale, sintetico o industriale.

Si tratta ancora una volta di essere “piccoli”, non di grandi decisioni o stili di vita grandiosi: Anima è una storia epica, ma anche molto intima. Mi ha spezzato il cuore assistere alla lotta che affrontano queste persone e questi animali, il fatto che siano emarginati, invisibili eppure così vitali. È stato straziante e allo stesso tempo stimolante.

Raccontare questi luoghi è un modo per riconoscere il valore di chi li abita e del loro stile di vita?

Non ho mai un programma quando mi accingo a sperimentare uno stile di vita, ho una curiosità e una passione. Anima ha una sua energia: è selvaggia e travolgente, come quel modo di vivere in montagna dove non hai il controllo. Invece Elisir ha un’energia diversa, perché il mondo vegetale è tranquillo, mentre quello animale è un po’ folle.

Quindi, se ho una “missione” non è concettuale, credo che la missione sia dentro la storia. Voglio esplorare l’ecologia umana più che la geografia umana: Confine e Il lago sono libri sulla geografia umana, mentre Elisir e Anima riguardano l’ecologia umana.

Queste esperienze mi hanno anche mostrato cose che non sapevo, e io credo molto nel potere dell’esperienza. Non sono le idee o le opinioni a farci cambiare, ma l’esperienza: dobbiamo sentire qualcosa, vederla e viverla in prima persona. È allora che cambiamo.

(Tutte le immagini sono di Kapka Kassabova; l’autrice sarà presente al Festivaletteratura di Mantova).

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