L'ingresso degli Abbey Road Studios di Londra. Foto: Shutterstock
Nella prima settimana di gennaio 1975 i componenti dei Pink Floyd, gruppo musicale britannico, entrano di nuovo nei locali degli Abbey Road Studios, mitici studi di registrazione londinesi, per iniziare a preparare il nono album della loro fortunata celebre acclamata carriera artistica, si sarebbe chiamato Wish You Were Here, una canzone e l’intero disco. La frase è abbastanza usata dall’antichità in ogni dinamica relazionale in cui chi pensa o parla o scrive o recita segnala esplicitamente il proprio dispiacere per una qualche certa assenza, più o meno definitiva (ovvero eventualmente connessa a una morte): un genitore, un fratello o altro parente; un compagno di vita, una compagna di vita o altro affetto; un amico, un collega, un esperto indispensabili in quella specifica situazione. La frase segnala un irrevocabile disagio psicosociale o pratico di chi la pronuncia, potenzialmente ovviabile solo dalla presenza (impossibile o comunque improbabile) dell’interlocutore cui ci si rivolge, proprio tu.
La concreta assenza richiamata da chi scrisse e cantò la magnifica Wish You Were Here si riferisce all’amico e collega con il quale si erano lasciati da anni, considerato da molti a quel tempo (e nei cinque decenni successivi) il vero fondatore dello “spirito” del gruppo musicale: il chitarrista e cantante Roger Keith Syd Barrett (Cambridge, 6 gennaio 1946 - Cambridge, 7 luglio 2006), trentenne e decisamente vivente quando decisero di esprimere un rimpianto pubblico per quel che lui era stato e per quanto avevano vissuto prima insieme, in presenza. È una storia commendevole che merita di essere tenuta in mente per vari aspetti legati al funzionamento biologico strutturalmente disturbato e paradossale della mente di moltissimi di noi sapiens, non soltanto nella dimensione “artistica”: la psiche (contorta), i comportamenti (contraddittori), le relazioni (mutevoli), le dichiarazioni (ambigue), le armonie (disarmoniche). Poi, testo e musica sono struggenti e meravigliosi (se e quando ti e vi capita di poterla ascoltare), accade che commenti le nostre esistenze in più situazioni, ognuno diverso dall’altro, nello spazio e nel tempo: l’assenza può essere da sé stessi o generalmente rispetto ad altri, comunque implica disagiata pluralità di personalità (alcune pure bipolari).
Siamo agli inizi del rock, metà anni Sessanta, Londra: giovani irrequieti, intolleranza spesso giustificata verso lo status quo e le autorità costituite. I Pink Floyd sperimentano blues e musica psichedelica, ben presto s’orientano verso l’incipiente progressive rock. Fra Londra e Cambridge tre studenti di architettura (facoltà di Regent Street a Londra), Roger Waters (di Cambridge), Nick Mason e Richard Wright, incontrano due coetanei amici (d’infanzia) che erano cresciuti e studiano a Cambridge, Syd Barrett e David Gilmour, tutti cultori di musica appartenenti a famiglie benestanti. Continuano a suonare, soli e talora fra loro, non necessariamente tutti insieme, ma fanno gruppo. Si susseguono tentativi e intrecci, le formazioni nascono e cambiano facilmente, molteplici le denominazioni scelte e le squadre composte, le persone coinvolte in vario modo. A gennaio 1965, sessanta anni fa, prima di un’esibizione devono ripensare al nome talora adottato (un improvviso caso di omonimia) e Barrett propone di coniare un combinato disposto, prendendo spunto da due bluesman statunitensi: Pink Anderson e Floyd Council. In quel periodo suonano talvolta come spalla e iniziano a formarsi un proprio repertorio blues (è nel 1966 che la capitale viene descritta come Swinging London).
Tanti domandano chi sia Pink e chi sia Floyd (lo segnalarono poi proprio attraverso un verso di Have a Cigar del 1975: Oh, by the way, which one's pink?). Il precoce beat e nemmeno ventenne Syd Barrett inizia a essere considerato il leader“naturale” del gruppo, fin dagli esordi. Le esibizioni pubbliche suscitano sempre maggiore interesse e a gennaio 1967 vengono incise le prime canzoni in studio (con buoni risultati in classifica per i 45 giri diffusi nei mesi seguenti). L’album d’esordio risale al successivo agosto, The Piper at the Gates of Dawn, uno dei primi e fra i più apprezzati di tutti i tempi per la musica psichedelica (non tutti la amavamo), tante luci nelle esibizioni dal vivo, dissonanze e distorsioni nelle sequenze musicali, poetici brani prevalentemente scritti da Barrett (magro ed elegante, voce e sguardo magnetici, affascinante e carismatico), che già allora abusa di droghe, LSD in particolare. Spesso Syd non ci stava molto con la testa, diremmo oggi, manca gli appuntamenti e cova lunghi silenzi, manifesta frequenti esuberanze e inaffidabili intemperanze, sta impetuosamente insieme a più “fidanzate”, provoca disagi in sé e per sé, oltre che per chi ha intorno, per le stesse attività comuni.
I Pink Floyd ebbero presto discreto seguito e successo. Il secondo album in studio fu registrato a più riprese fra l’agosto 1967 e il maggio 1968: A Suaceful of Secret venne pensato con Barrett e completato senza, secondo e ultimo rispetto a lui, progressivamente sostituito alla chitarra e alla voce solista da Gilmour. Seguirono altri cinque LP (alcuni abbastanza noti, come Ummagumma e Atom Heart Mother) e gratificanti tour mondiali, prima dello stratosferico trionfo dell’ottavo, The Dark Side of the Moon, pubblicato a marzo del 1973 negli Stati Uniti e nel Regno Unito (i brani era stati perlopiù già presentati a febbraio 1972 e fecero parte dei concerti del vivo per tutto quell’anno). Con oltre 50 milioni di copie vendute, risultò l'album di maggiore successo del gruppo e uno dei più venduti della storia del rock. Erano in quattro, la formazione passata alla storia: bassista e paroliere Roger Waters, chitarrista David Gilmour, batterista Nick Mason, tastierista Richard Wright. Il tecnico del suon Alan Parsons contribuì molto ad alcuni degli aspetti sonori più innovativi (come il ticchettio dell’orologio), soprattutto con il sintetizzatore.
L’album successivo è il “nostro”, avviato nel gennaio di cinquanta anni fa e concluso soltanto a settembre, con innumerevoli episodi significativi in quei nove mesi. L’idea parte e il principale tributo ruota intorno a Shine on You Crazy Diamond, una sequenza di quattro note accennata nel 1974 e presto presentata dal vivo, diversificata nel disco in due parti principali e nove complessive, esplicitamente dedicate a Syd Barrett. Lui è il diamante che brilla (su di sé) e che avrebbe dovuto continuare a brillare, folle e pazzesco. Questi i due versi più significativi, scritti già nel 1974: “… You were caught on the crossfire of childhood and stardom… Well you wore out your welcome with random precision…”. Non è una canzone “universale”, riguarda il loro amico, uno specifico individuo (a parziale differenza del brano titolo del disco). E i quattro già da un anno erano insieme appagati da fama e ricchezza e insoddisfatti e frustrati per le aspettative, lenti e deconcentrati dal vivo, vicini a sciogliersi, comunque poco interessati al rapporto con il pubblico.
Altre canzoni vengono accantonate (con la contrarietà di Gilmour), l’intero album viene meticolosamente ripensato e lungamente realizzato, presentato come un puzzle, album tematico di rabbia e amore sull’assenza, testi sempre impostati e rifiniti da Waters (dotato di forte senso della disciplina), arricchito da coerenti contributi esterni, immagini, esperimenti sonori e visivi, copertine provocatorie sull’assenza (nella più nota due uomini si stringono la mano, uno dei due è quasi coperto di fiamme), illustrazioni e dispositivi (specifici per ogni brano e spesso creati artisticamente in modo autonomo). Il condiviso principale filo conduttore è il triste omaggio al vecchio amico “assente” (innanzitutto per l’eccessiva assunzione di acido), amore risentimento rabbia, sentimenti condivisi non di uno solo bensì dall’insieme degli interpreti presenti, in linea di massima: ammirazione per il talento e la creatività artistica dell’assente; dispiacere per la perdita (in parte subita, in parte voluta); tentativo di non escluderlo dalla loro storia (successiva); consapevolezza che era divenuto presto un ostacolo verso il successo commerciale, pur non essendo forse stati capaci di aiutarlo ed essendo tutti dilaniati da simili dubbi e disagi; fastidio per alcuni indesiderati effetti di quel successo (che Syd aveva avversato, del resto anche la pressione può generare follia); contraddizione fra l’essere divenuti uomini d’affari e il voler restare ancora artisti, fra pressione industriale (capitalistica) e libertà culturale (presunta).
Il primo lato contiene cinque parti di Shine e il pezzo Welcome to the Machine (disperato sfogo contro i macchinari mostruosi che ci masticano ma di cui non sappiamo fare a meno; pulsazioni al sintetizzatore, soltanto chitarre acustiche e piatti; animazione con sangue in tempesta). L’altro lato si apre con Have a Cigar. Ancora Syd è il tu, l’interlocutore privilegiato, seppur i comuni avversari sono il commercio industriale di musica e la competizione fra gruppi di artisti ambiziosi; il testo appare tutto affettuoso verso di lui e arrabbiato verso il resto (“… And did we tell you the name of the game, boy, we call it Riding the Gravy Train… E ti diciamo il nome del gioco, ragazzo, lo chiamiamo Cavalca la Tigre…”); il singolo ha enorme impatto, presto al numero uno; la voce profonda è di un ispirato Roy Harper, ingaggiato in corso d’opera. Segue Wish You Were Here! Come ci si rassegna a una mancanza, come si trova il coraggio per adattarsi senza rinnegarsi e soffrire un poco meno di ciò che ci manca? Dopo il riff iniziale e la costante malinconia country (con un contrasto “bipolare” di interrogativi concettuali e suoni di chitarre “diverse”), il testo è concepito per esprimere un filo di pensieri più o meno valido per tutti i contemporanei, meno o più bipolari: “… Did you exchange a walk on part in the war for a lead role in a cage? ...”, “... Hai scambiato una parte di comparsa nella guerra per un ruolo da protagonista in una gabbia? ...”.
Infine, il lato e il disco si concludono con le restanti parti di Shine, complessivamente poco più di 44 minuti, con il contributo corale di due affiatate vocaliste soul di incarnato scuro, Vanessa Fields e Carlena Williams, già sperimentate nel tour statunitense. Ci hanno realizzato sopra tantissimi libri e documentari, si trovano ricordi e testimonianze di un po’ tutte le personalità coinvolte. L’altro filo conduttore è una forte avversione verso la dinamica dell’industria discografica, gli stessi quattro del gruppo stupiti dell’enorme dimensione del successo, sotto la pressione di essere subito ancora all’altezza per restare protagonisti all’interno della “gabbia” di interessi costruita attorno alla loro dimensione artistica. Syd Barrett capita in studio con addosso un impermeabile il 5 giugno, irriconoscibile (pare esista una solo foto), obeso e calvo. Dopo un generale silenzioso sconvolgimento e qualche pianto rimane un po’ lì quel giorno (aveva provato l’anno prima a registrare qualcosa in studio col gruppo, senza seguiti, esistono frammenti sonori). L’album esce il 5 settembre 1975, un ulteriore considerevole successo con 19 milioni di copie vendute da allora in avanti. Nel 1972 Barrett aveva firmato un documento con cui rinunciava a ogni diritto sulle pubblicazioni dei Pink Floyd, avrebbe comunque sempre preso royalties sulle compilation e sui primi due album.
Successivamente vi furono tre album dei quattro al completo, nel 1977 (Animals), nel 1979 (il famosissimo The Wall) e nel 1983 (The Final Cut, quasi un disco solista di Waters). Nel 1981 ebbe luogo l’ultimo concerto insieme in pubblico del gruppo, nel 1985 Roger Waters abbandonò i Pink Floyd (in larga parte per la ruggine e i dissensi sorti nel 1975 durante la registrazione di Wish You Were Here, con poi conseguenti scontri sulla “proprietà” del nome collettivo). I quattro si trovarono per una mitica reunion a Hyde Park nel luglio 2005 per Live8. Syd sarebbe morto l’anno dopo per un tumore al pancreas (a 60 anni; trascorsi in modo appartato, abbandonando via via esperienze di altre carriere musicali, dedicandosi un poco a pittura e giardinaggio; ispiratore di tanti). Richard Wright (grande pianista di formazione classica) morì nel 2008 (a 65). Nei quaranta anni fra il 1985 e il 2023 sono stati pubblicati altri otto album dei Pink Floyd, di cui cinque dal vivo.
Questo il testo della canzone che dà il nome al “nostro” album.
So, so you think you can tell Heaven from hell Blue skies from pain Can you tell a green field From a cold steel rail? A smile from a veil? Do you think you can tell?
Did they get you to trade Your heroes for ghosts? Hot ashes for trees? Hot air for a cool breeze? Cold comfort for change? Did you exchange A walk on part in the war For a lead role in a cage?
How I wish, how I wish you were here We’re just two lost souls Swimming in a fish bowl Year after year Running over the same old ground And what have we found? The same old fears Wish you were here.
Ci si sono fatte sopra molta storia e qualche ideologia. Si tratta forse soltanto di una bella canzone di cinquant’anni fa, fungibile volendo. Ovviamente, tante assenze ci pesano dentro e la questione decisiva riguarda se, come e a chi lo si comunica, in che misura l’assenza (che implica relazione trascorsa, in vario modo) viene verbalizzata e diventa relazione presente e futura, con l’assente o con altri. Il desiderio di altri non scompare ed è connaturato a innumerevoli momenti di molte fasi della nostra vita, di quali determinati altri dipende. Se patiamo l’assenza può esserci impedimento fisico condiviso. Oppure la separazione può essere autoimposta o determinata da una sola delle due parti. Oppure esiste il disagio psichico di entrambi i potenzialmente presenti. Al di là dei crediti e dei debiti (se del caso pure genetici), oltre le difficoltà frequenti di capirlo e accettarlo, la reciproca disagiata assenza può essere addirittura un bene (non puramente una scelta o una necessità) per la psiche e l’esistenza di entrambi, per le vite individuali di ciascuno e per l’insieme delle proprie relazioni. Resta il fatto: wish you were here.