SCIENZA E RICERCA
Dai datacenter fino ai nostri smartphone: come le tecnologie influenzano il riscaldamento globale
Quando si parla di riscaldamento climatico nell’antropocene, il pensiero corre alle emissioni di CO2 dovute alle attività industriali e zootecniche, al settore dei trasporti o al settore energetico. Si pone generalmente meno attenzione all’impatto ambientale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), anche se i dati e le stime qui riassunti mostrano che il settore dell’ICT ha un notevole impatto ambientale. Adottando opportune politiche industriali e comportamenti più virtuosi dei singoli consumatori si potrebbe ridurre in misura significativa l’impatto ambientale dell’ICT. Ci concentriamo qui su quanto possono fare in questa direzione gli utenti e i produttori degli smartphone.
“ Le emissioni di CO2 del settore ICT sono dovute in prevalenza ai datacenter e alle reti di telecomunicazioni
In un articolo apparso nel 2018 sul Journal of Cleaner Production, Belkhir ed Elmeligi stimano che circa l’80% di emissioni di CO2 prodotte del settore ICT sono dovute al dispendio energetico dei datacenter e delle reti di telecomunicazioni. Un datacenter è una sala macchine prevalentemente composta da server, sistemi di storage, sistemi di raffreddamento e gruppi di continuità finalizzati all’elaborazione e alla gestione dei dati. Una rete di telecomunicazioni, invece, consente la trasmissione e la ricezione di informazioni tra utenti collocati in posizioni geografiche diverse.
Per arrivare ad imputare a datacenter e reti di telecomunicazioni l’80% di emissioni di CO2 prodotte del settore ICT, Belkhir ed Elmeligi si avvalgono di dati raccolti dall’anno 2007 all’anno 2016, che utilizzano anche per fornire una proiezione di crescita per l’anno 2020. La Tabella 1 riporta le emissioni di CO2, espresse nell’ordine dei milioni di tonnellate (Mt), solo per alcuni anni all’interno dell’intervallo considerato. Da essa si evince che le emissioni associate ai datacenter aumentano molto più rapidamente delle emissioni associate alle reti di telecomunicazione.
Tra il 2015 e il 2020 le emissioni dovute ai datacenter si raddoppiano quasi, nonostante le aziende più importanti del settore siano impegnate a ridurre le emissioni dei loro centri di elaborazione dati. Facebook, ad esempio, lavora ad un programma di sostenibilità ambientale incentrato sulle energie rinnovabili: nel 2013 solo il 13% dell’energia utilizzata da Facebook derivava da fonti rinnovabili; questa percentuale è passata al 51% nel 2017; vi è l’aspettativa di raggiungere il 100% di approvvigionamento da fonti rinnovabili entro il prossimo anno e di migliorare notevolmente l’efficienza energetica degli impianti.
Anche Google lavora ad un progetto di sostenibilità che riguarda sia l’approvvigionamento da fonti rinnovabili sia l’efficienza energetica dei datacenter. Dal 2017 Google attinge da fonti rinnovabili il 100% dell’energia utilizzata. Dal 2018, Amazon attinge più del 50% della propria energia da fonti rinnovabili e partecipa a un progetto di sostenibilità ambientale.
Le stime di Belkhir ed Elmeligi indicano un impatto ambientale inferiore per i dispositivi elettronici, quali computer desktop, notebook e smartphone. Per ciascuno di questi dispositivi sono stati analizzati quattro parametri: dispendio energetico per la produzione del dispositivo, durata del suo ciclo vitale, energia necessaria al funzionamento e numero di unità in uso. Per le stime di consumo energetico è stata indicata una forchetta di valori minimi e massimi (vedi Tabella 2 per i computer desktop).
Dalla tabella si evince che il numero di dispositivi desktop, utilizzati per scopi aziendali o personali, è diminuito nel tempo. I notebook sono invece aumentati notevolmente (Tabella 3).
Infine, nella Tabella 4 sono riportati i valori dei parametri raccolti per gli smartphone, che sono il caso più interessante, rispetto ai desktop e ai notebook, per quanto riguarda le problematiche ambientali.
Vi sono più smartphone in circolazione della somma dei dispositivi di tipo desktop e notebook. Anche per tasso di crescita gli smartphone sono al primo posto tra i dispositivi del settore ICT. Il loro ciclo vitale è invece di soli 2 anni. Nonostante un singolo smartphone abbia un impatto ambientale inferiore rispetto ad un notebook o un desktop, gli smartphone contribuiscono collettivamente più degli altri tipi alle emissioni di CO2, a causa della loro durata limitata e del grande numero di unità in uso. In soli dieci anni, le emissioni annuali dovute agli smartphone registrano un aumento del 730%. Una vita media più lunga contribuirebbe non poco a ridurre notevolmente i consumi.
Belkhir ed Elmeligi hanno infine aggregato i loro dati per fornire una stima complessiva delle emissioni dovute al settore a partire dal 2007 e con una proiezione finale per l’anno 2020. Nell’anno 2007 il settore ha prodotto tra le 300 e le 600 Mt-CO2-eq. Mentre, si prevede che entro il prossimo anno il settore produrrà tra le 1000 e le 1300 Mt-CO2-eq. Nei grafici a seguire viene mostrato come cambia proporzionalmente dal 2010 al 2020 il contributo alle emissioni di CO2 da parte delle diverse tipologie di infrastrutture e dispositivi del settore ICT.
Stime sul contributo nel 2010 di infrastrutture e dispositivi alle emissioni del settore ICT
Stime sul contributo nel 2020 di infrastrutture e dispositivi alle emissioni del settore ICT
Come singoli o come gruppi di consumatori coalizzati possiamo fare poco per ridurre le emissioni dovute alle infrastrutture dell’ICT. A tale scopo sono necessarie buone pratiche da parte delle aziende del settore, come quelle richiamate più sopra, e opportune regolamentazioni del settore industriale. Sul piano individuale e come gruppi di consumatori coalizzati possiamo influire più incisivamente per contrastare le emissioni di gas serra dovute agli smartphone.
“ Gli smartphone vengono rimpiazzati più frequentemente dei jeans
Un lavoro pubblicato nel 2017 riporta i dati di un sondaggio effettuato per confrontare la durata degli smartphone alla durata di altri beni di consumo. Ai soggetti intervistati sono stati mostrati prodotti appartenenti a differenti categorie, chiedendo loro di specificare per quanto tempo essi utilizzano ognuno di questi prodotti. È stata anche richiesta un’opinione personale su quella che dovrebbe essere la durata ideale di ogni prodotto. Ed ecco i risultati del sondaggio per alcuni dei prodotti analizzati.
Tempo medio di alcuni prodotti, espresso in anni. Per il grafico originale si consulti
Ciclo di vita desiderato di alcuni prodotti, espresso in anni.
Da i grafici qui sopra, si evince che la durata media di un paio di jeans è superiore a quella di uno smartphone, per quanto le implicazioni ambientali di quest’ultimo siano ben maggiori e il desiderio di utilizzare uno smartphone per un periodo più lungo di circa 3 anni rispetto al periodo di utilizzazione rilevato. Ma quali sono i motivi di questa discrepanza? Perché le persone vorrebbero utilizzare uno smartphone per 5 anni e invece lo cambiano dopo appena 2 anni? Il motivo più frequente per il quale si procede alla sostituzione del proprio smartphone sarebbe – come si afferma nello stesso articolo – un malfunzionamento tecnico. Ma non si tratta, in generale, di un malfunzionamento grave del dispositivo in quanto tale, poiché il primato spetta alla breve durata della batteria. Solo un terzo dei partecipanti al sondaggio ha deciso di procedere con la sostituzione della batteria, mentre gli altri hanno preferito acquistare un nuovo smartphone. I costi e la durata dell’intervento per riparare lo smartphone possono aver scoraggiato il consumatore, incentivandolo a optare per una sostituzione.
Altri partecipanti al sondaggio hanno giustificato la scelta di sostituire il proprio dispositivo con motivi legati al software, diventato, con il passare del tempo, troppo lento e poco reattivo. È possibile che all’origine dei malfunzionamenti legati al software vi siano decisioni delle stesse case produttrici. Il quotidiano La Repubblica ha documentato un presunto caso di obsolescenza programmata degli smartphone, che vede come protagonisti la Apple e la Samsung [7]. L’obsolescenza di un dispositivo, in generale, è la sua perdita progressiva di efficienza e funzionalità. L’obsolescenza è programmata, invece, quando essa è deliberatamente indotta dal produttore del dispositivo. All’origine dell’obsolescenza programmata degli smartphone vi sarebbero aggiornamenti del software che, “imposti” ai consumatori, avrebbero reso altamente inefficiente l’utilizzo di alcuni smartphone, riducendone notevolmente le prestazioni ed inducendo i consumatori all’acquisto di modelli più nuovi e costosi. Tali aggiornamenti risulterebbero inoltre irreversibili, impedendo così agli utenti di ritornare alla versione del software precedente e più stabile. In questo tipo di politica aziendale, l’antitrust ha rilevato violazioni ad alcuni articoli del nostro codice del consumo in materia di diritti dei consumatori, multando di conseguenza la Apple per 10 milioni e la Samsung per 5 milioni.
Nel 2016, si è tenuto a Berlino un convegno sull’obsolescenza degli smartphone, per analizzarne l’ampio ventaglio di cause e individuare alcune soluzioni sia sul versante dei consumatori sia su quello dei produttori. I produttori sarebbero infatti indotti a ridurre il ciclo vitale dei dispositivi sotto la pressione della concorrenza, che spingerebbe a sfornare sempre nuovi modelli a un ritmo sfrenato. Per quanto riguarda i consumatori, oltre ai malfunzionamenti tecnici e agli aggiornamenti del software, bisogna considerare la pressione psicologica che genera una rincorsa all’ultimo modello di grido, e che induce ad acquistare dispositivi in apparenza nuovi, ma in realtà dotati di poche funzionalità aggiuntive rispetto a quelle presenti nel modello già posseduto.
Il consumismo degli smartphone danneggia l’ambiente, ma danneggia pure, e in maniera più diretta, la salute di molte persone. Un articolo apparso su La Repubblica ha ripreso alcuni dati statistici pubblicati dalla rivista francese “l’Express” nel 2017: su 10 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici prodotti ogni anno dagli stati dell’Unione Europea, meno di un terzo viene riciclato, mentre il restante viene depositato nelle discariche o inviato in Africa, spesso per lo smaltimento illegale in nuove “terre dei fuochi”. La combustione dovuta al processo di smaltimento danneggia la qualità dell’aria e la salute di chi abita nei paraggi.
Cosa può fare il consumatore per contrastare il consumismo degli smartphone ed i suoi effetti negativi a monte, e a valle, del periodo troppo breve di utilizzazione? Anzitutto, si dovrebbero utilizzare gli smartphone fino al verificarsi di un guasto grave e non ragionevolmente riparabile. Nella fase di acquisto, il consumatore dovrebbe orientarsi verso prodotti robusti e facilmente riparabili, soprattutto per quanto riguarda la batteria, riducendo così la probabilità di una sostituzione nel breve periodo. Anche le buone pratiche di ricarica della batteria permettono di influire meno negativamente sulle prestazioni e sulla durata degli smartphone. Sarebbe opportuno terminare l’operazione di ricarica appena la carica risulta completa, e procedere a ricaricare il dispositivo solo dopo aver raggiunto livelli molto bassi di carica. Su larga scala (si parla di circa 2600 milioni di unità di smartphone) il complesso di tali pratiche, singolarmente insignificanti, può avere un forte impatto.
Sul versante della produzione il discorso è più ampio e permette di elaborare soluzioni a impatto ancora maggiore. In [8], per esempio, si consiglia di rivedere le scelte di design privilegiando la durabilità e la modularità del dispositivo. Indicazioni pertinenti di questo genere riguardano display più robusti e una durata maggiore della batteria. Per quanto riguarda il software, si raccomanda che le aziende continuino a manutenere anche i software più vecchi, che girano su dispositivi più antiquati, garantendo così un ragionevole livello di prestazioni anche degli smartphone più vecchi.
Per concludere, risulta interessante confrontare le emissioni di CO2 dovute al settore ICT e quelle dovute ad altri settori, così da inquadrare il settore nel contesto più ampio dell’impatto ambientale delle attività umane nell’antropocene. Attenendoci alle stime presentate nel paragrafo iniziale, possiamo fare una media tra il valore minimo e quello massimo stimato, ed ipotizzare, quindi, che il settore ICT produca circa 1150 Mt-CO2-eq all’anno. Basandoci sulle stime del sito “Our World in Data” , calcolate per gli altri settori, e disponibili per l’anno 2010, le emissioni del settore ICT sarebbero molto inferiori a quelle dovute ad altri settori. Il primato è detenuto dal settore energetico, che ha contribuito al 48% circa delle emissioni di CO2 globali nell’anno in questione, avendo prodotto circa 24 Gt-CO2-eq (miliardi di tonnellate). Al secondo posto, troviamo il settore dei trasporti, che ha contribuito per il 20% circa delle emissioni di CO2 globali, avendo prodotto circa 5.5 Gt-CO2-eq. A seguire troviamo i settori residenziale, industriale, commerciale e agricolo. Allo stato, le emissioni dovute al settore ICT sono molto inferiori a quelle dovute ad altri settori, ma la continua evoluzione e rapidità di crescita del settore ICT desta fondate preoccupazioni e sollecita interventi proattivi di contenimento sia sul piano delle politiche di sviluppo tecnologico e industriale sia sul piano dei comportamenti individuali e collettivi dei consumatori.