CULTURA

Dal Rinascimento a Instagram: Falcinelli svela i meccanismi delle immagini

Mai come in quest’epoca siamo subissati di immagini. Non solo perché le vediamo, ma perché le figure reali si moltiplicano sui mezzi rappresentativi attraverso cui le esperiamo, acquisendo così nuova vita, e un nuovo sguardo: per chi le produce, chi le condivide e chi, infine (ed è il soggetto principe), le guarda.

Instagram, Pinterest, il computer e internet in generale, la televisione e il cinema, ma anche i cartelloni per la strada, le pubblicità sui giornali, il packaging, e, sempre e comunque, l’arte: tutto questo si sovrappone in una cosmogonia di rappresentazioni di cui siamo fruitori bulimici e soprattutto ignari.

Riccardo Falcinelli, graphic designer celebre per il saggio Cromorama uscito tre anni fa, e per essere l’art director di prestigiose collane editoriali (una su tutte Einaudi Stile Libero), torna in libreria con una vera sfida: raccontare, a noi che quelle immagini le viviamo, come “funzionino”.

Perché una raggiunge il successo e una molto simile no? Perché i quadri di Van Gogh e di Cezanne costellano le camere d’albergo e diventano segnalibri? Perché la scena del triciclo di Shining fa così paura? Perché accanto a Rossella O’Hara, quando dice “domani è un altro giorno”, c’è un albero scuro? Perché le Madonne di Raffaello trasmettono un senso di calma e ordine?

A queste domande viene data risposta, o viene indicata la strada per costruirsene una propria, in Figure. Come funzionano le immagini dal Rinascimento a Instagram (Einaudi, 2020) in cui l’autore guida chi legge in un percorso semi-obbligato e sorprendente che ha i tratti della rivelazione di un segreto inaccessibile ma in realtà sotto gli occhi di tutti.

Ci è abbastanza chiaro già in partenza che le cose non sono in senso assoluto, ma vengono fortemente influenzate da, e a loro volta influenzano, il contesto socio-culturale in cui si collocano e che “la bellezza sta negli occhi di chi guarda” per usare un noto adagio, perciò non stupisce l’assunto principe di questa lettura. Per dirla con Falcinelli, cioè (qui a proposito dell’uso della forma rettangolare): “La morale è che non esistono rettangoli generici ma sempre vicissitudini sociali, economiche, estetiche che, intrecciate tra loro, determinano le fortune delle forme che abbiamo intorno”. Sempre allo stesso proposito scrive: “Pensiamo alle scatole di Ikea: se ogni cosa viene portata a dimensioni compatte e impilabili si risparmiano spazio e denaro. Suona strano applicato alle faccende culturali? Nient’affatto”. Racconta, infatti, nelle pagine da cui è tratta la citazione, di come avvengano le esposizioni nell’Ottocento (al Salon o al Salon des Refusés dove, tra il resto, viene esposta per la prima volta la Colazione sull’erba di Manet che quindi era stata “scartata” e fu invece l’esordio di un nuovo modo di dipingere e forse di pensare) e di come, di fatto, i pittori dovessero costringersi dentro a forme precostituite. Dice Falcinelli: “Studiando le testimonianze d’epoca, la tentazione di collegarci al mondo contemporaneo è forte: in fondo i social network, Instagram in primis, sono luoghi dove milioni di persone postano i loro “rettangoli” sperando di diventare famosi o perlomeno di essere apprezzati. La maggior parte degli artisti vuole che le proprie immagini siano guardate e votate: dai critici del Salon, o dai cuori di Instagram. Non c’è nulla di male. Eppure questo gioco avviene con regole rigidissime”.

Ma non sono regole quelle che rendono tale un’opera d’arte, capiamo perfettamente leggendo. Quel che determina il successo percettivo di un’immagine pare stare da qualche parte fuori, lontano dal suo contenuto (Falcinelli ci mostra due vedute coeve della Chiesa della Madonna della Salute a Venezia, una del Guardi e una del Canaletto, apparentemente simili ma in realtà sostanzialmente diverse) ed è forse più vicino ai meccanismi di creazione dell’immagine. Nel caso delle rappresentazioni della chiesa veneziana, Guardi la mostra per intero con un largo squarcio di cielo a contornarla, Canaletto la taglia sulla sommità e di fianco, facendola finire “fuori quadro”. Falcinelli spiega: “Questo accade perché Canaletto non sta disegnando in libertà, bensì ricopia su un foglio quello che vede dentro il mirino di una camera oscura. E non è soltanto una faccenda tecnica, la differenza tra le due immagini è anzitutto filosofica: Guardi sta disegnando una chiesa, Canaletto la sta inquadrando”.

Sulla base di questa, apparentemente semplice, riflessione, l’uso e la percezione delle immagini ci appaiono all’improvviso molto più chiari. Non è possibile prescindere dall’osservatore (le foto dei parabrezza bagnati di pioggia ci restituiscono la presenza di un osservatore con cui finiamo per coincidere), dalla temperie culturale in cui chi crea l’immagine opera (i “vincoli” fanno parte dell’opera stessa) e dalle meta-immagini che ritraggono la stessa cosa o la stessa figura addirittura.

Ossia le nature morte di Cezanne con i drappi e la frutta sono i quadri che il pittore ha dipinto, ma anche le mille rappresentazioni che ne abbiamo viste fare: dalle tazze, alle magliette, ai segnalibri, al quadrato di Instagram in cui possono (anche felicemente) finire. Falcinelli a questo proposito scrive: “Certo: l’abuso ha demolito un tipo di aura, ma ne ha creata un’altra, forse anche più potente: il mito dell’arte”.

E a proposito di miti, questo saggio opera uno scarto, affrontando la narrazione (è il caso di dire così, perché qui l’autore racconta delle vere e proprie storie che hanno “accidentalmente” dei contenuti tecnici) in modo sincronico. Non c’è una freccia del progresso, perché non c’è nell’arte un prima e un dopo in senso evolutivo. Non c’è un miglioramento necessario da perseguire.

Gli Impressionisti non sono più bravi dei pittori del Cinquecento perché “eliminano” i contorni, e a loro volta i pittori Rinascimentali, che con la prospettiva si avvicinano a una rappresentazione realistica del mondo, non sono migliori degli artisti che facevano le Madonne grandi su fondo oro. Ci fa notare l’autore, peraltro, che a quei tempi, poi, con tutta probabilità questo tipo di rappresentazioni non sarebbero state considerate arte ma oggetti religiosi con una precisa utilità.

E allora – domanda chiave che ai profani viene voglia di fare sempre – perché qualcosa ci sembra più bello? Perché una immagine ha successo?

La risposta è ben rappresentata dal racconto della foto fatta in Vietnam l’8 giugno del 1972 da Nick Út alla bambina che scappa, nuda, sotto il bombardamento di bombe al napalm. La foto è celeberrima, il suo autore ha vinto il Pulitzer, ma ci sono foto molto simili, scattate da altri e che raffigurano la medesima scena, che invece sono rimaste nell’ombra, in particolare una. Perché?

La spiegazione che dà Falcinelli è impeccabile. C’è in primis una ragione tecnica – nella foto di Út l’orizzonte si sovrappone allo sguardo della bambina – che diviene però una questione sostanziale. Per ottenere questa inquadratura che ci dà la sensazione che la bambina venga proprio verso di noi, il fotografo, che inquadrava dal mirino di una 35 mm, deve essersi messo “alla sua altezza” e cioè aver piegato le gambe, in un gesto che probabilmente gli è venuto assolutamente spontaneo.

Scrive Falcinelli: “In una frazione di secondo, senza concettualizzare, Út si abbassa un po’ e, in mezzo a un bombardamento, scatta. Ecco la vera differenza tra le due foto: gli altri reporter stanno documentando una scena di folla, Út sta fotografando un essere umano”.

Questa, che in fondo è dietro, è la vera potenza delle immagini.

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