1.031 nomi, 1.031 persone che non esistono più, 1.031 vittime innocenti delle mafie. È questo il numero delle persone innocenti uccise dalla criminalità organizzata, e a queste bisogna aggiungere le faide interne, le guerre di mafia, le esecuzioni sommarie. Le mafie in Italia uccidono e lo fanno in ogni luogo, anche in quelle regioni in cui spesso si tende a credere che la mafia non esista. Lo sappiamo bene anche in Veneto, dove nel 1992, il 3 maggio, tre persone appartenenti ad un clan mafioso hanno sparato ed ucciso un ragazzo innocente, per un terribile e brutale scambio di persona.
Le mafie uccidono senza distinzioni, che siano uomini, donne, che siano bambini. 113 minori ammazzati, 93 donne, sono numeri che mettono nero su bianco la violenza indiscriminata delle mafie, priva di qualsiasi senso etico che a volte si sente millantare. Le mafie poi, spesso uccidono anche chi cerca di trovare il modo per sconfiggerle, che sia esso un giudice, un imprenditore che denuncia o un politico. Dalla strage di Portella della Ginestra alla morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, fino alle uccisioni di Placido Rizzotto, Peppino Impastato, Piersanti Mattarella, Boris Giuliano. C’è stato un momento però in cui lo Stato ha reagito, o almeno ha provato a farlo in modo forte.
L'assassinio di Pio La Torre
Solo pochi giorni fa si sono celebrati i 40 anni dall’uccisione di Pio La Torre. Il 30 aprile 1982 il segretario regionale del Partito Comunista Italiano fu ucciso da Antonino Madonia e Giuseppe Lucchese su mandato di personaggi di spicco della mafia. La “colpa”, secondo i mafiosi, di Pio La Torre è stata quella di cercare di cambiare le leggi per combattere a fondo le mafie.
Negli archivi della Camera dei Deputati si possono ancora recuperare alcuni scritti di Pio La Torre. In uno in particolare, intitolato “Critica alla relazione Antimafia” si può leggere come, secondo il segretario del PCI, “l’incessante ricerca del collegamento della mafia con i pubblici poteri presuppone l’abbandono dell’interpretazione della mafia come fenomeni di un vuoto di pote, o addirittura come opposizione al potere, o come fenomeno sociologico di una società soltanto arretrata e sottosviluppata. L’incessante ricerca del collegamento della mafia con i pubblici poteri, presuppone inoltre l’ipotesi e l’interpretazione che non ci sia solo nella mafia un bisogno di stabilire collegamenti con i pubblici poteri, ma anche un bisogno dei pubblici poteri a stabilire un collegamento con la mafia. Cioè tra le due parti vi è un rapporto di reciprocità”.
“ non c'è solo nella mafia un bisogno di stabilire collegamenti con i pubblici poteri, ma anche un bisogno dei pubblici poteri a stabilire un collegamento con la mafia Pio La Torre
È stato l’assassinio di Pio La Torre prima, e quello del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa poi (avvenuto il 3 settembre 1982), che ha fatto si che la politica approvasse finalmente dei seri provvedimenti antimafia. I primi stralci di una legislazione antimafia si vedono già nel 1956 con la legge numero 1423. Nel provvedimento approvato il 27 dicembre e chiamato “Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità” (e di fatto abrogato poi dal decreto legislativo del 6 settembre 2011, il numero 159, cioè il Codice delle leggi antimafia), venivano individuate alcune categorie di persone socialmente pericolose per le quali la magistratura poteva applicare misure di prevenzione personale.
È poi con la legge n. 575 del 1965, chiamata “Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere (anche questa abrogata dal Codice delle leggi antimafia del 2011) che tali misure di prevenzione personali sono state estese anche a soggetti sospettati di appartenere ad associazioni mafiose.
L’omicidio di Pio La Torre però, ha fatto si che venisse approvata la legge 646 del 1982. Questa legge, nota come la “Rognoni-La Torre” prendeva spunto proprio da una proposta di legge presentata alla Camera dei deputati il 31 marzo 1980 da Pio La Torre e che di fatto introdusse per la prima volta nel codice penale la previsione del reato di “associazione di tipo mafioso”, cioè il “famoso” articolo 416 bis. Non solo però, perché la Rognoni-La Torre introdusse anche le prime misure di sequestro e confisca dei beni ai mafiosi. Per la prima volta quindi, si andava ad intaccare anche il patrimonio del mafioso e non solo la libertà personale.
Per la prima volta infine, veniva istituita una Commissione parlamentare di inchiesta sulla mafia.
A questo testo collaborarono quelli che allora erano due giovani magistrati della Procura di Palermo e a cui dobbiamo gran parte delle nostre attuali conoscenze sulla mafia: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Sempre nel 1982 poi, ci fu anche un altro decreto legge, il 629, convertito poi nella legge 726/82 che istituiva l’Alto Commissariato per il coordinamento contro la delinquenza mafiosa, alle dipendenze del Ministro dell’Interno. Poteri che poi, come si legge nel resoconto realizzato da Avviso Pubblico, sono stati ampliati nel 1988 con la legge 486.
Iniziano le leggi ma gli omicidi mafiosi non si fermano. Cosa Nostra continua ad ammazzare: da Rocco Chinnici (29 luglio 1983), capo dell'ufficio istruzione del Tribunale di Palermo al giornalista Pippo Fava (5 gennaio 1984), da Ninni Cassarà (6 agosto 1985), dirigente della squadra mobile di Palermo ucciso con il collega Roberto Antiochia, fino Mauro Rostagno. Questi sono solo alcuni dei nomi che hanno perso la vita per mano mafiosa negli anni ‘80, ma la lista sarebbe molto più lunga.
La legislazione antimafia però procede comunque a piccoli passi e piccole modifiche. L’ultima più importante degli anni ‘80 è quella avvenuta con la legge numero 663 del 1986. Nelle “modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” viene introdotto il famoso articolo 41-bis.
All’articolo 41 della legge del 26 luglio 1975 viene aggiunto il -bis che dice che ”in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il Ministro di grazia e giustizia ha facoltà di sospendere nell'istituto interessato o in parte di esso l'applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l'ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto".
LEGGI ANCHE:
Gli anni ‘90, cioè quelli in cui gli omicidi e le stragi mafiose si sono intensificati iniziarono con cinque diversi interventi legislativi in materia di antimafia. Il primo fu il decreto legge n. 8 del 1991, che venne poi convertito nella legge n. 82 del 1991. Questo decreto interveniva sulle “nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonchè per la protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia”. Di fatto veniva introdotto un sistema che andava a premiare chi decideva di collaborare con la giustizia. Questo stresso sistema premiale era già in essere per i reati di terrorismo e con questo decreto fu esteso anche ai reati mafiosi.
Il secondo intervento avvenne il 13 maggio con il decreto legge n. 152 del 1991, convertito poi nella legge n. 203 del 1991. Questo interveniva sui “provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa”, dettando norme sul regime delle pene e sul trattamento penitenziario nonché disposizioni sugli imputati che si dissociano.
Solo pochi giorni dopo, cioè il 31 maggio 1991, fu disciplinato lo scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose con il decreto legge n. 164.
Gli ultimi due decreti emanati ad inizio anni ‘90 furono il 143 sui “provvedimenti urgenti per limitare l’uso del contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenire l’utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio” ed il 345 che istituiva la Direzione Investigativa Antimafia.
Quando si parla di mafia in Italia però, c’è un anno cruciale, un anno in cui è cambiato tutto, un anno di cui nel 2022 si celebra il 30ennale.
Il 1992
Non si può capire l’Italia di oggi se non si analizza il 1992. Tra stragi di mafia, inchieste giudiziarie sulla corruzione, 30 anni fa la storia del nostro Paese ha preso una svolta, forse non inaspettata, ma dettata da fatti tragici. Il 1992 iniziò con l’omicidio di Salvo Lima democristiano, eurodeputato ed ex sindaco di Palermo, politicamente vicino a Giulio Andreotti, allora presidente del Consiglio. Il suo omicidio fu voluto da Totò Riina e Bernardo Provenzano, i capi dei corleonesi. Lima era uomo di potere, referente di Andreotti in Sicilia ma anche vicino a Cosa Nostra, già sindaco del capoluogo siciliano negli anni '60, con Vito Ciancimino come assessore ai lavori pubblici, Lima fu assassinato in quanto non riuscì ad evitare le condanne al maxiprocesso.
Il 23 maggio poi, ci fu la strage di Capaci, in cui il giudice Giovanni Falcone, la moglie e magistrata Francesca Morvillo, e gli uomini della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani furono fatti saltare in aria in un tratto dell’autostrada A29. Alle 17:57 all’altezza di Capaci avvenne la deflagrazione che cambiò per sempre la storia d’Italia.
Gran parte dello Stato reagì con forza dal punto di vista legislativo e venne emanato il decreto legge n. 306 del 1992, convertito poi nella legge n. 356 del 1992. Nelle “modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa” si inasprì la normativa allora vigente, con particolare riferimento al regime carcerario, alle misure di prevenzione patrimoniale, ai reati di traffico di armi e stupefacenti.
Poco più di un mese dopo però, il 19 luglio 1992, un altro attentato pose fine alla vita del collega e compagno di mille battaglie contro la mafia di Falcone, Paolo Borsellino. Alle 16:58 una Fiat 126 rubata e riempita con circa 90 kg di tritolo esplose in via Mariano D’Amelio a Palermo, all’altezza del civico 21, proprio dove abitavano la madre e la sorella del Giudice. Nell’attentato dinamitardo morirono Paolo Borsellino e la sua scorta formata da: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Sull’onda dell’emozione l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli la notte stessa del 19 luglio firmò l’applicazione del 41 bis per circa trecento detenuti mafiosi, trasferendoli anche nei carceri di massima sicurezza dell’Asinara e di Pianosa.
La reazione, sempre parlando dal punto di vista legislativo, portò all’approvazione del decreto legge numero 399 del 20 giugno 1994. Nelle “disposizioni urgenti in materia di confisca di valori ingiustificati” si vollero colpire in maniera più efficace i patrimoni accumulati dalla criminalità organizzata. In particolar modo venne istituita la “confisca allargata”, cioè la possibilità di confiscare eventuali patrimoni illeciti di cui il condannato non è in grado di dimostrare la provenienza. Sempre nel 1994 il decreto legislativo numero 490 ha introdotto l’obbligo da parte delle pubbliche amministrazioni di verificare l’esistenza di fattori ostativi alla stipula di contratti, appalti, concessioni.
“I due attentati di quel 1992 - ha dichiarato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante le celebrazioni di due anni fa in ricordo dei magistrati - segnarono il punto più alto della sfida della mafia nei confronti dello Stato e colpirono magistrati di grande prestigio e professionalità che, con coraggio e con determinazione, le avevano inferto durissimi colpi, svelandone organizzazione, legami, attività illecite. I mafiosi, nel progettare l'assassinio dei due magistrati non avevano previsto un aspetto decisivo: quel che avrebbe provocato nella società. Nella loro mentalità criminale, non avevano previsto che l'insegnamento di Falcone e di Borsellino, il loro esempio, i valori da loro manifestati, sarebbero sopravvissuti, rafforzandosi, oltre la loro morte: diffondendosi, trasmettendo aspirazione di libertà dal crimine, radicandosi nella coscienza e nell'affetto delle tante persone oneste ".
L’ultima legge in materia di antimafia degli anni ‘90, fu la 109/96 che regolava le “Disposizioni in materia di gestione di beni sequestrati o confiscati”. Una legge fondamentale voluta proprio da quella società civile che riuscì ad unirsi dopo le stragi del 1992. L’associazione Libera, fondata da Don Ciotti, il 30 giugno 1995 uscì con un appello su oltre 40 testate nazionali e locali. “Vogliamo che lo Stato sequestri e confischi tutti i beni di provenienza illecita, da quelli dei mafiosi a quelli dei corrotti. Vogliamo che i beni confiscati siano rapidamente conferiti, attraverso lo Stato e i Comuni, alla collettività per creare lavoro, scuole, servizi, sicurezza e lotta”. Un anno dopo l’associazione riuscì a raccogliere un milione di firme per far si che si potenziasse quella legge, la Rognoni-La Torre del 1982, che introduceva per la prima volta nel codice penale il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso (art. 416 bis) e una prima norma per la confisca dei beni ai mafiosi. La legge 109/96 sull’uso pubblico e sociale dei beni confiscati alle mafie venne approvata in via definitiva dal Senato il 7 marzo del 1996, con il sostegno di uno schieramento politico ampio e trasversale.
Dalle stragi di mafia del 1992 sono passati 30 anni, 30 anni in cui di mafia si è parlato, discusso e in qualche modo si è cercato di contrastarla. Ciò che scriveva Pio La Torre nel 1975 però, purtroppo vale ancora oggi. Anche nel 2022 sembra che non solo le mafie abbiano bisogno “di stabilire collegamenti con i pubblici poteri, ma anche un bisogno dei pubblici poteri a stabilire un collegamento con le mafie. Cioè tra le due parti vi è un rapporto di reciprocità”. Ciò che abbiamo scritto in questo articolo è solo una piccola reazione legislativa a delle stragi, una reazione si forte ma che ad oggi non è servita a debellare la criminalità organizzata. Bisogna essere consapevoli che per tramutare in realtà le parole di Giovanni Falcone, che disse che la “mafia è un fattore umano e come tutti i fattori umani ha un inizio ed una fine”, non è necessaria solo la repressione. È fondamentale un grosso lavoro sociale e culturale. Una società più giusta ha meno bisogno di ricorrere a scorciatoie ed una società più informata e consapevole è più conscia che a cercar scorciatoie spesso si finisce in un vicolo cieco da cui poi è ben difficile uscirne. A 30 anni da quel 1992 è bene fare memoria, ma la memoria è inutile se non si unisce l’impegno, l’impegno di tutti noi a ricercare una società più giusta e ad isolare chi culturalmente ricerca la mafiosità anche nei piccoli gesti quotidiani.
A 30 anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio saranno molte le celebrazioni. È facile celebrare, ricordare un’esplosione o un omicidio davanti le telecamere e solo per pochi minuti. È più difficile invece cercare di fare buona memoria, ricercare quella verità che 30 anni fa era avvolta da una coltre grigia che teneva al suo interno stato e antistato, legalità e illegalità in un abbraccio tra mafia e politica che in alcuni luoghi e in alcune situazioni non è mai finito. E si badi bene che non sono luoghi racchiusi solo in una parte d’Italia, si va dalla Sicilia alla Veneto, dove l’ex sindaco prima e vicesindaco poi di Eraclea, un piccolo comune nel litorale veneziano, è stato condannato con una sentenza in Appello, a più di tre anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.
A 30 anni dalle stragi è bene rileggere ciò che dicevano quei due magistrati che oggi vediamo come dei simboli dell’antimafia. Le loro critiche erano spesso dure nei confronti della politica e di quella costante ricerca di una scorciatoia, una forma mentis che a 30 anni di distanza sembra essere ancora ben presente nel nostro Paese. Fare buona memoria quindi, significa ricordare, rileggere e ragionare nuovamente sulle parole di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. C’è una frase, una delle tante frasi, di Falcone che purtroppo è utile doverla ribadire ancora dopo 30 anni. “Per lungo tempo si sono confuse la mafia e la mentalità mafiosa, la mafia come organizzazione illegale e la mafia come semplice modo di essere. Quale errore! Si può benissimo avere una mentalità mafiosa senza essere un criminale”. Fare memoria quindi, è innanzitutto cercare di abbattere questa mentalità.