SCIENZA E RICERCA

Dante mette piede sulla Luna

«Drizza la mente in Dio grata», mi disse,

«che n'ha congiunti con la prima stella». Dante, Paradiso, Canto II

Ci siamo quasi, ormai. Sta per arrivare il 2019, l’anno della Luna.

E già, perché il 20 luglio del 1969 l’americano Neil Armstrong, primo terrestre nella storia, metteva piede sulla superficie lunare. Un piccolo passo per un uomo, disse, un grande passo per l’umanità. Tra pochi mesi, dunque, saranno cinquant’anni da quello storico – è il caso di dirlo – evento. Ma nel 2019 sarà anche il sessantesimo anniversario delle missioni Luna 2 e Luna 3 lanciate dall’Unione Sovietica nel 1959. Di rilevanza storica – certo, l’aggettivo è abusato, ma come altro definire queste inedite imprese se non “storiche”? – fu soprattutto Luna 3 che ci regalò la prima immagine della faccia nascosta dell’astro più vicino alla Terra.

Il Bo Live seguirà con attenzione le celebrazioni di questi incontri ravvicinati con la Luna. Proprio per questo non possiamo dimenticare che la cultura italiana ha un rapporto privilegiato con quello che – forse impropriamente – chiamiamo il satellite naturale della Terra.

Dice Italo Calvino che c’è un ménage à trois, una storia a tre, che attraversa per intero la vicenda della letteratura italiana. Una relazione triangolare, limpida, trasparente, per nulla ambigua, che – da Dante ad Ariosto a Bruno, da Galileo a Leopardi e (aggiungiamo noi) allo stesso Calvino – lega la letteratura alla filosofia e alla scienza del nostro paese e la caratterizza. Il ménage à trois in cui si lascia coinvolgere la letteratura italiana – è questa la lucida tesi di Italo Calvino –, ha un grande obiettivo: proporre una mappa aggiornata del mondo e della conoscenza, ricostruire incessantemente un’immagine dell’universo. Ebbene, questa storia triangolare che costituisce la vocazione profonda della letteratura italiana ha un narratore privilegiato. Un astro narrante. La Luna. Perché è anche e soprattutto facendo parlare lei, la Luna, che Dante e Ariosto, Galileo a Leopardi propongono quella che Calvino definisce «l'opera letteraria come mappa del mondo e dello scibile» e intendono «lo scrivere [come] mosso da una spinta conoscitiva che è ora teologica ora speculativa ora stregonesca ora enciclopedica ora di filosofia naturale ora di osservazione trasfigurante e visionaria».

Partiamo da Dante, il poeta che è alle origini della letteratura italiana. E consideriamo la sua Commedia. L’opera con cui il fiorentino avvia e immediatamente sublima il ménage à trois trasformando la scienza (del suo tempo) in poesia e, per dirla con Zygmunt Baránski, la poesia in «un linguaggio privilegiato e senza mediazioni della scienza». Non è forse proprio la Luna uno degli strumenti principali che Dante utilizza per dimostrare che è possibile comunicare la filosofia in versi e «senza veli», direttamente, con un’efficacia divulgativa e narrativa pari se non superiore a quella concessa alla prosa?

Alla Luna, la «prima stella», il poeta fiorentino dedica un intero canto, il secondo del Paradiso, della sua Commedia e affida il compito di inaugurare il suo viaggio nell’universo fisico per restituircene un’immagine completa. Il Canto II del Paradiso è un inno alla Luna. Ma non alla Luna come mito, metafora o allegoria, bensì proprio alla Luna come astro. Come oggetto fisico collocato nel cielo e in grado di raccontarci com’è fatto il cielo. Come astro errante e, appunto, narrante. Rileggiamolo, senza presunzione di completezza, questo “inno” alla Luna e alla scienza della Luna.

O voi che siete in piccioletta barca,

desiderosi d'ascoltar, seguiti

dietro al mio legno che cantando varca,

tornate a riveder li vostri liti:

non vi mettete in pelago, ché forse,

perdendo me, rimarreste smarriti.

Dante inizia il secondo Canto del Paradiso con un ammonimento spiazzante: lettori, state attenti. Perchè il discorso che sto per farvi, tramite Beatrice e tramite la Luna, è difficile. Conviene che a seguirmi siano solo coloro, tra voi, che hanno avuto la possibilità di sedersi al tavolo degli Angeli e nutrirsi del loro stesso pane (la conoscenza) e sono quindi attrezzati con gli strumenti più raffinati della filosofia (naturale) e della teologia. In ogni caso, o voi che siete su una «piccioletta barca», seguite la scia della mia, di barca. Perché altrimenti vi perdereste. No, non è che Dante inauguri il Canto II del Paradiso con un atto di superbia. Non sta prospettando, in questo incipit del suo inno alla Luna, l’esistenza di una distanza immensa e incolmabile tra il suo sapere e quello dei lettori. Vuole solo metterli sull’avviso: vi trovate – ci troviamo, io autore e agente della Commedia e voi lettori, anche voi lettori colti – davanti a un’esperienza nuova. In primo luogo perché:

L'acqua ch'io prendo già mai non si corse;

 

È la stessa frase che avrebbero potuto usare Neil Armstrong: perché nessuno sulla Terra ha mai vissuto qualcosa di simile. E nessuno l’ha mai raccontato. Questa esperienza – l’acqua che «già mai non si corse» – è l’ascensione di un uomo al cielo. E la novità non sta nel viaggio in sé, effettuato da miriadi di anime. Ma in chi lo compie: io, un uomo in carne e ossa. Quanto al cielo che ho attraversato e che mi appresto a descrivere, non è una metafora. È proprio lo spazio fisico che sovrasta la Terra. È l’universo. Quello cui dunque vi invito a partecipare, ben attrezzati e senza distrarvi, è un viaggio nell’universo. Il viaggio di un filosofo naturale nell’universo fisico.

Seguiamo, dunque, la scia del legno di Dante con la nostra «piccioletta barca». Iniziamo con lui il viaggio. Prima però, e lo facciamo a uso esclusivo di chi non fosse fresco di lettura della Commedia, conviene, come si dice, proporre un breve riassunto delle tappe precedenti del viaggio, fantastico, che il poeta fiorentino ha intrapreso nell’Aldilà. Dunque, fino al momento in cui propone il suddetto ammonimento, Dante ha utilizzato 68 canti della sua opera in versi (i 34 dell’Inferno, i 33 del Purgatorio e il primo del Paradiso) per raccontare ai suoi lettori come, nella notte tra il 24 e il 25 marzo (o, secondo altri, tra il 25 e il 26 marzo) dell’anno 1300, lui, poeta fiorentino giunto «nel mezzo del cammin di nostra vita», si sia improvvisamente ritrovato «per una selva oscura, ché la dritta via era smarrita». L’indomani mattina, venerdì 25 marzo, il provetto esploratore ha incontrato le tre fiere e al tramonto, accompagnato da Virgilio, eccolo che inizia la discesa negli Inferi, prima tappa del suo inedito viaggio nell’altro mondo. Un altro mondo che non esiste in una qualche dimensione spirituale o magica, ma nelle tre dimensioni dello spazio fisico che contiene la Terra e tutto ciò che è fuori dalla Terra e in una misurabile dimensione del tempo.

La visita all’Inferno, collocato in un cono che punta verso il centro del nostro pianeta, dura infatti la notte intera e il giorno seguente, fino a sera. Un viaggio veloce, dunque, ma piuttosto intenso. Che gli consente di interloquire con molte anime dannate. Poi, dalle viscere del pianeta, risale verso il Purgatorio e giunge alla collina dell’Eden, il paradiso terrestre che si trova nell’altro emisfero, agli antipodi di Gerusalemme (il che ci dice che la Terra, per Dante come per tutti i filosofi naturali del suo tempo, è sferica e finita). È la risalita, fisica e spirituale. Al termine della quale Dante si ritrova ai piedi del beato monte: è l’alba della domenica, 27 marzo. Qui si immerge nelle acque della sorgente che hanno in comune i fiumi Letè ed Eunoè e a mezzogiorno di mercoledì 30 marzo ne esce «puro e disposto a salire alle stelle», cioè a compiere l’ultima parte del viaggio, lungo un tragitto che attraversa il cosmo intero oltre la Terra e, in appena 19 ore, lo porterà in Paradiso. Intanto alla prima guida, il poeta pagano Virgilio, se n’è sostituita un’altra, l’amata cristiana Beatrice. Dante la segue. E con lei lascia il mondo dell’imperfezione e della corruzione – la Terra – e si avvia verso il mondo della perfezione e della purezza: il mondo sopra la Luna. La cosmologia di Dante è pienamente aristotelica.

Rapito dallo spettacolo armonioso dei cieli, immerso in una musica – quella pitagorica delle sfere – mai prima ascoltata e abbagliato da una luce così intensa da trascendere ogni possibile esperienza terrena, il poeta neppure si accorge che, violando ogni legge della fisica, sta volando – lui, che al contrario dell’eterea Beatrice, ha un corpo greve – e sta attraversando veloce più di una freccia il primo dei dieci cieli che costituiscono l’universo. Anzi, il cosmo: il tutto armoniosamente ordinato dei Greci.

Un’armonia geometricamente ordinata e razionalmente conoscibile che il cristiano apprezza ancora di più perché «è forma – come sottolinea Beatrice – che l’universo a Dio fa somigliante». Il Dio di Dante è un Geometra. E mentre il poeta spiega, attraverso Beatrice, la sua visione del cosmo assunta dalla filosofia naturale di Aristotele e Tolomeo e reinterpretata alla luce della fede cristiana, eccolo giungere alla prima tappa del viaggio. Ed entrare nella dimensione che a noi in questa sede più interessa.

Ma, prima di seguirlo definitivamente nella sua avventura lunare, conviene rubare ancora un po’ della pazienza dei nostri lettori e aprire un’ulteriore parentesi per ricordare come e perché questo canto, il secondo del Paradiso, sia considerato un po’ da tutti – dallo stesso Dante e da molti dei suoi critici – il più difficile della difficile Commedia. Un Canto, il più “tecnico” dei canti filosofici, «la cui difficoltà è divenuta addirittura proverbiale tra i dantisti», come ci ricorda Giorgio Inglese. Ma Dante e almeno una parte della costellazione dei suoi critici riconoscono la difficoltà del secondo Canto del Paradiso per motivi affatto diversi.

Per l’autore della Commedia il Canto è difficile, tanto da dover mettere sull’avviso i suoi lettori, perché questo viaggio sulla Luna – anzi, nella Luna – è cosa nuova e rivelerà fatti mai prima conosciuti, cui è poco adusa l’intelligenza umana. Detto in altri termini, Dante sa che il canto è più difficile degli altri non perché più ermetico, ma perché fornirà spiegazioni fisiche del tutto inusuali, lontane dal senso comune. Lui, che si è preso il carico di indicare la rotta al lettore nel viaggio fuori dalla Terra, intende però – anzi, perciò – assolvere a questo compito mediante 148 versi «senza veli», in maniera diretta, in punta di scienza e di filosofia, senza allegorie.

A molti dei suoi critici, invece, il Canto II del Paradiso risulta difficile e arido – con un riflesso condizionato che si manifesterà anche in alcuni lettori del Sidereus Nuncius di Galileo – semplicemente perché non lo comprendono. Non ne capiscono la fisica. Non ne afferrano la novità. Non ne afferrano la centralità. E giudicano quello stile inusitato – che non solo traduce in poesia le conoscenze scientifiche del tempo, ma usa la poesia come strumento di espressione di una logica rigorosa – uno stile sterile e monotono. Ravvedono nel lucido argomentare di Beatrice (in cui ci imbatteremo tra poco e che la santa e amata guida ha già iniziato a utilizzare nel canto precedente, il primo del Paradiso) un raziocinare strenuo e rigido: innaturale. Considerano l’intero canto, dal prologo di Dante alla chiusa di Beatrice, dottrinale e didascalico. Difficile, appunto. E, dunque, inessenziale. Di più. Molti di questi critici, quando non capiscono perché non conoscono la fisica e l’astronomia che Dante comunica, travisano deliberatamente i versi. O, come ha osservato prima e meglio di noi l’astronomo Ernesto Capocci, direttore dell’Osservatorio di San Gaudioso a Napoli a metà del XIX secolo: «quando non giungono a comprenderlo sen’escon fuori con un’allegoria». Non capiscono quel che Dante dice e, brandendo come un’arma in modo improprio i versi del Canto IX dell’Inferno, sostengono che chissà quale «dottrina ... s'asconde sotto 'l velame de li versi strani». La verità, sostiene Capocci, è che Dante: «vi parla di stelle, ed essi vi dicono che le son non so quali virtù!». Lui parla di fisica e di astronomia e loro sostengono che dietro il significato letterale (per loro) incomprensibile si nasconde un alto significato simbolico.

Questa critica, criticata dall’astronomo Capocci, ha una cifra romantica e, vuoi per ignoranza, vuoi per convinzione, di fatto nega alla filosofia e, in particolare, alla filosofia naturale – e, persino, alla ragione – ogni valore in campo poetico. Persino un critico nostro contemporaneo e di grande valore, come Natalino Sapegno, commentando i primi veri del Canto II del Paradiso, scrive: «Di qui prende l’avvio una delle pagine di sapore più schiettamente raziocinante di tutto il poema: e quindi delle più lontane dal nostro gusto». Quasi che la frontiera dello schiettamente raziocinante sia, per necessità, lontana del gusto e dall’opera del letterato.

Ma questa distanza tra letteratura, scienza e ragione è l’esatto contrario di quello che pensano Calvino, Leopardi e, in primo luogo, di quanto afferma lo stesso Dante. Il quale, invece, ha scritto la Commedia proprio per riunire in una grande sintesi la teologia, la filosofia naturale e la poesia e per proporre (anche) il suo Weltbild scientifico, la sua visione del mondo naturale. Anzi, per ricostruire un’immagine del cosmo. Un’impresa in cui riesce con una maestria davvero impareggiabile. Molto apprezzata dal linguista tedesco Wilhelm von Humboldt, fratello dello scienziato Alexander, che nel 1821 definisce Dante il «divino creatore di un nuovo mondo». Proprio perché, come riconosce l’astronomo Capocci, coi suoi versi fa vedere «le più grandi e meravigliose scene del mondo sensibile e razionale, che meglio non potrebbe se avesse in sua balìa i colori e’ pennelli di Michelangelo: è un magico artifizio, una camera ottica parlante». Per il linguista von Humboldt, per l’astronomo Capocci e per molti critici contemporanei, dunque, la Divina Commedia è il cannocchiale – una camera ottica parlante – usato da Dante per gettare uno sguardo sull’universo in un’epoca in cui il cannocchiale non esiste. Un’impresa straordinaria, che riesce perché Dante è padrone di tutto lo scibile del suo tempo. Sa di teologia e di filosofia, di astrologia e di alchimia, di astronomia e di scienza (filosofia naturale). Ed è padrone assoluto dell’arte di trasformare il linguaggio della scienza nel linguaggio della poesia senza erodere né il rigore del primo, né la cifra estetica del secondo. (1. Continua)

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