SCIENZA E RICERCA
Le disuguaglianze non si spiegano con la biologia. Una conversazione con Angela Saini
Un momento del dialogo tra Angela Saini ed Elisabetta Tola in Aula magna, università di Padova. Foto: Alessandra Lazzarotto
Angela Saini, giornalista scientifica pluripremiata e autrice di numerosi libri tradotti in tutto il mondo, è stata ospite dell'Università di Padova il 16 aprile scorso. Prima di recarsi al Palazzo Bo, nell'Aula Magna, per un evento aperto al pubblico, Angela Saini ha fatto tappa nella nostra redazione de Il Bo Live, dove abbiamo avuto l'opportunità di chiacchierare con lei nel nostro studio radiofonico.
Durante la nostra conversazione, abbiamo esplorato l'intreccio complesso delle sue tre opere principali: "Inferior", "Superior" e "The Patriarchs". La metodologia di Saini che analizza le ragioni e i modelli di disuguaglianza partendo dalle ricerche scientifiche e andando sul campo a intervistare diversi esperti e protagonisti, è il filo conduttore comune dei suoi libri che affrontano in modo molto rigoroso le radici storiche e socioculturali delle disparità sistemiche.
"Dietro a tutto questo lavoro c'è l’idea che i modelli di disuguaglianza si possano spiegare risalendo a un’origine specifica. In altre parole, c’è una storia che ci dice che non possiamo considerare queste disuguaglianze e discriminazioni come se fossero naturali, innate, organiche", spiega Saini. Infatti, continua, è piuttosto pericoloso considerarle naturali perché poi ci affidiamo a un approccio fatalista quando abbiamo a che fare con il sessismo, il razzismo, le disuguaglianze di genere o perfino il patriarcato.
La ricerca della scienza di una propria neutralità, il fatto di professarsi guidata dai dati e dai fatti, può essere spesso un'illusione che Saini destruttura con un approccio molto approfondito. Gli scienziati, sottolinea l’autrice, sono propensi alle stesse curiosità e fascinazioni che influenzano tutti noi. Il fatto di voler trovare spiegazioni scientifiche ai fenomeni sociali rischia però di condurci su percorsi problematici. "Gli scienziati sono umani... hanno esperienze di vita e sono guidati dalla curiosità", osserva, aggiungendo, "E certo ci chiediamo tutti se non ci siano alcune spiegazioni naturali dietro fenomeni complessi come la disuguaglianza o lo sviluppo economico, ad esempio. Ci chiediamo se non ci sia qualche fattore biologico che determina tutto, o se invece entra in gioco qualche altro fattore. Io penso che abbiamo affrontato queste domande in isolamento per troppo tempo nelle diverse discipline. I biologi le affrontano da una prospettiva puramente biologica. Ma non è affatto una questione puramente biologica”.
“ Il razzismo e le disuguaglianze esistono ancora
"Siamo creature sociali", osserva Saini. “Ciò significa che noi umani viviamo in modi così diversi, che è quasi impossibile isolare la natura umana, e dobbiamo dunque guardare a tutto in connessione con quello che è il nostro sistema nel suo insieme e nella sua complessità, non a compartimenti stagni”. Saini spiega che tutto questo è diventato molto difficile anche a causa dell'eccesso di specializzazione scientifica. Gli esperti lavorano in modo più isolato, ciascuno nel proprio ambito disciplinare. Forse, aggiunge, in tempi secoli passati, come ad esempio nel Rinascimento, sarebbe stato più facile attingere a molte discipline diverse e guardare a queste domande in modo più olistico. Dalla fine del XIX secolo, è diventato progressivamente più difficile farlo. E questa è la ragione per cui è necessario avere un approccio molto più interdisciplinare.
Saini esprime poi una certa preoccupazione per una sorta di ingenuità che a volte si manifesta negli ambienti scientifici. "Sono quasi rimasta sconcertata dalla mancanza di comprensione storica e politica di alcuni tra gli scienziati che ho intervistato", aggiunge, riflettendo sui molti incontri avuti con menti genuinamente brillanti, come è evidente dalle conversazioni e dalle interviste incluse nei suoi libri, ma che faticano a considerare, ad esempio, le ragioni storiche o sociali che sottendono allo sviluppo di molti fenomeni. In generale, si evince dai suoi libri, la carenza di conoscenza della storia della propria disciplina, dei cambiamenti e anche delle connessioni tra scienza e politica nel passato come nel presente, finiscono con il costituire un rischio per questi stessi scienziati, che in qualche caso sembrano non comprendere per esempio che la propria ricerca potrebbe prestare il fianco a interpretazioni ben lontane da quelli che sono i loro stessi principi di partenza. E dunque, sottolinea Saini, è davvero urgente adottare approcci sempre più interdisciplinari e ampliare gli orizzonti al di là delle strette specializzazioni scientifiche.
Molti genetisti si sono sentiti a disagio quando è stato pubblicato il suo libro Superior. Molti hanno reagito anche vivacemente, rivendicando il loro impegno genuino a dimostrare che il razzismo è non solo sbagliato ma anche privo di basi scientifiche. Per tanti ricercatori il rischio di usare la scienza al servizio del razzismo è un problema passato, che appartiene e precisi momenti storici, non è più una minaccia. Tuttavia, lei sottolinea, se la nostra società contemporanea ha ancora questi problemi, se le persone pensano ancora in questi termini discriminatori, come è evidente anche dalle informazioni che leggiamo tutti i giorni e dall’aumento dei movimenti di estrema destra che spesso alimentano proprio la visione discriminatoria nei confronti di altre culture, altri popoli, altri modi di vivere, come possiamo aspettarci che gli scienziati ne siano completamente immuni? Non viviamo in tempi completamente illuminati e privi di pregiudizi. Al contrario, la discriminazione e il razzismo sono appunto ancora molto vivi.
C'è stato però un punto di svolta molto importante di recente, secondo Saini. "Il grande punto di svolta che ho notato, almeno in Occidente, è stato l'omicidio di George Floyd nel 2020. All'improvviso, anche i genetisti che erano piuttosto scettici su quello che dicevo hanno iniziato a riconoscerne il valore. Da allora, ho lavorato molto con tanti di loro. E penso che ci sia stato anche un dialogo molto migliore tra le scienze sociali e le scienze naturali, una migliore consapevolezza del fatto che i biologi non sanno tutto e hanno bisogno di imparare da queste altre discipline".
Discutendo la ciclicità con cui la genetica torna a tentare di spiegare il comportamento umano sulla base di presunte differenze naturali, Saini riflette proprio sui rischi della visione deterministica. "Siamo passati attraverso una fase, verso la fine degli anni ‘90 e l’inizio di questo secolo, in cui le enormi promesse fatte nella genomica non sono state tutte realizzate. L'idea che avremmo isolato un gene per ogni cosa, che avremmo risolto tutte queste malattie usando la genetica non è stata pienamente realizzata. Quindi quell'entusiasmo, in genetica, è un po' calato".
Ora invece, ci spiega ancora, stiamo assistendo a una nuova crescita di interesse, in particolare verso la possibilità di usare i dati genomici di enormi popolazioni per individuare diversi fattori di rischio, per spiegare i comportamenti e stabilire correlazioni tra varianti genetiche e tratti sociali. Tuttavia, sottolinea ancora Saini, "Dobbiamo ricordare che sono ancora solo correlazioni. Non implicano l'esistenza di alcun meccanismo biologico per spiegare comportamenti complessi, come l’inclinazione alla violenza, per esempio, o la capacità di studio o di riuscita in un compito". C'è però la tentazione di usare questi punteggi di rischio, ad esempio, nell'insegnamento o all’interno delle pratiche mediche. E Angela Saini è molto scettica su questa nuova tendenza. "A meno che non si abbia un meccanismo chiaro, come si fa a sapere cosa si sta effettivamente guardando? E visto che stiamo trattando con popolazioni molto grandi, cosa significano poi realmente questi indici per il singolo individuo?" Per esempio, ha senso cambiare ad esempio l'insegnamento di uno studente sulla base di queste enormi medie statistiche su grandi popolazioni? È giusto definire una terapia sulla base di fattori di rischio ‘di popolazione’ senza considerare poi che la singola persona potrebbe non rientrare in quella statistica? Alla fin fine, in realtà, queste ricerche, che si basano su un uso deterministico della genomica che richiama senza dubbio le pratiche del passato, finiscono con il prestarsi ancora una volta a un uso politico della scienza.
Anche i giornalisti e l’informazione, però, giocano un ruolo fondamentale quando si affrontano questi temi. La domanda vera, infatti, è perché ci sia ancora un interesse così ampio verso quest'approccio basato sulla ricerca della differenza. Perché come società siamo così affascinati dall’idea che il determinismo possa funzionare. E queste sono domande che dovrebbero guidare anche chi fa informazione, per capire in che contesto più ampio, generale, si finisce con il disegnare queste ricerche e quali siano i possibili rischi ad esse associate.
Nei libri di Saini si ragiona molto anche sulla tendenza tutta umana ad adottare narrazioni lineari e semplificate del passato. "Una volta che il passato è accaduto, è molto facile ripercorrerlo e unire i punti in una singola narrazione". Se però riflettiamo su quanto siano incerti i tempi attuali, riflette anche Saini, possiamo chiaramente vedere che anche minuscoli cambiamenti potrebbero determinare esiti molto diversi. Una piccola percentuale nei voti, ad esempio, potrebbe spostare un quadro politico anche in modo piuttosto drammatico e dunque dare vita a un futuro tutt’altro che scontato. "La storia dipende proprio da questi meccanismi, da questi avvenimenti. E invece noi non pensiamo al passato in questo modo”, specifica ancora Saini, e aggiunge che “C'è un vero rischio quando coinvolgiamo la biologia in queste grandi narrazioni, come se gli esseri umani fossero sempre destinati a prendere una direzione specifica, questa direzione che già conosciamo". Il rischio è appunto quello di vedere come inevitabile e naturale un certo esito, mentre ogni esito è in realtà il risultato di cause complesse e diverse, non sempre definibili né conoscibili.
In particolare in The Patriarchs, continua a spiegare Saini, "Volevo sfidare questa idea che il patriarcato fosse inevitabile, che non ci fossero possibili alternative. Le persone spesso sostengono ancora che in un modo o nell’altro, gli uomini sarebbero sempre stati al comando. Anche se rifacessimo tutto, sarebbero ancora al potere ogni volta, in ogni possibile universo". E lei evidentemente non è affatto d’accordo con questa visione. Anzi, sostiene ancora, quando guardi nei dettagli come si è svolta la storia, è probabile che lo sviluppo e la diffusione del patriarcato in diverse società sia un fatto molto più recente di quanto pensiamo. E non ha certo riguardato necessariamente tutti i popoli della terra. Inoltre, rimane una diffusione disomogenea, dal momento che a seconda di dove ti trovi nel mondo, lo sviluppo stesso del patriarcato dipende da molti fattori diversi e spesso anche molto lontani nel tempo.
C’è un bellissimo esempio nel libro di Saini che dimostra esattamente quanto possa essere sbagliato partire da una sorta di assunto rispetto all’ordine naturale delle cose. “L’Europa si racconta come il luogo dove sono stati inventati i diritti umani e i principi di uguaglianza. E certo è stato uno shock nel mezzo del XIX secolo, per i colonizzatori europei dei territori nord americani incontrare società organizzate in modo completamente diverso. In quel momento storico, per gli europei il patriarcato era effettivamente un sistema che rientrava nell’ordine naturale delle cose. Il padre era sempre il capo della famiglia, il monarca era capo dello stato, e c’era un dio che era autorità assoluta. E peraltro, i colonizzatori emigrati nel Nord America stavano in effetti costruendo una società dove non c’era più un monarca a gestire lo stato. Ma non mettevano affatto in discussione il patriarcato nella famiglia o nella società, non c’era uguaglianza tra uomini e donne in alcun modo. Pensavano che fosse naturale così. Dunque quando incontrano alcune nazioni indiane dove invece le donne ricoprivano ruoli di potere, e che erano basate su una trasmissione matrilineare tra una generazione e un’altra, è stato per loro un vero shock. E hanno così interpretato che il matriarcato era tipico di una società primitiva, mentre l’evoluzione portava naturalmente allo sviluppo del patriarcato.
"Questo è stato un momento davvero tragico. Prima di tutto perché in questo modo si è ritenuto di voler inquadrare i nativi americani come popoli primitivi, cosa del tutto sbagliata, dato che erano semplicemente popoli che vivevano in altro modo, ma né superiori né inferiori a loro" prosegue Saini, "Ma soprattutto questo inquadramento è stato poi alla base dell’azione deliberata di imposizione della logica patriarcale anche sulle nazioni indiane, sui popoli nativi, dato che il patriarcato era visto come appunto obiettivo, traguardo naturale di una società evoluta".
Guardando avanti, Saini esprime comunque un cauto ottimismo.
Nonostante la rinascita dei movimenti conservatori e nazionalisti, lei vede speranza nel coraggio e nel progressismo della generazione più giovane. Mentre ci avviciniamo alla conclusione della nostra conversazione, Angela Saini fa riferimento esplicitamente alla situazione in Iran, come un esempio particolarmente significativo. Mentre scriveva The Patriarchs, Angela Saini stava appunto terminando un capitolo proprio sull'Iran e aveva incontrato e intervistato molte ricercatrici e studiose iraniane della generazione adulta, quella che ha combattuto il regime e che in molti casi hanno dovuto lasciare il paese. La loro visione era piuttosto pessimista. Ma poi il terribile omicidio di Mahsa Amini ha cambiato tutto. Ora, in Iran, giovani donne e uomini non solo protestano per le strade ma continuano a ribellarsi quotidianamente contro l'oppressione e mostrano una resistenza e una visione che meritano un enorme rispetto. Ecco perché Angela Saini pensa che ci sia ancora speranza. Perché i conflitti sociali sono sempre terribili ma possono dare vita a nuovi equilibri e a nuove visioni, anche più ugualitarie e rispettose delle persone. E conclude la nostra conversazione dunque proprio con questa domanda "Come possiamo non avere fiducia nel futuro di questa generazione?"