CULTURA

La dozzina dello Strega: Maddalena Vaglio Tanet

Maddalena Vaglio Tanet, al suo esordio nella narrativa per adulti con Tornare dal bosco (Marsilio, 2023), fa bingo: il suo romanzo è leggibile – senza fatica – su così tanti piani da ambire a essere quello che di un libro ci si auspica sempre. Cioè universale.

Racconta, infatti, una storia personale (della cugina di suo nonno – lo scopriamo dalla nota dell’autrice, che invero avrebbe potuto non esserci: non c’era bisogno, per il lettore almeno, di sapere che grado di verità avesse la storia) ma la trasfigura non solo in letteratura, cioè in racconto cui si chiede sempre la sospensione dell’incredulità, ma addirittura in metafora di qualcosa d’altro, di trasversale, di profondo e spaventevole.

Narra infatti di Silvia Canepa, maestra elementare in un paesino del biellese, che, appresa la notizia che la sua allieva prediletta, Giovanna, “uno scricciolo mentuto con i gomiti aguzzi, le scapole come alucce e una frangia biondastra che balza sopra occhi disumani”, si è tolta la vita buttandosi dalla finestra, scompare.

S’è inoltrata nel bosco, che un bosco è davvero, con gli alberi, le foglie, l’erba bagnata, ma anche più: è il malardriss, il luogo del disordine dove cercare di perdersi perché lì lei sente che può essere accolto il suo desiderio di non fare più parte del consorzio umano, almeno per un po’.

“Invece di andare a scuola la maestra entrò nel bosco”, così è come decide di iniziare la storia Vaglio Tanet, in una costruzione della suspance che non abbandona il lettore nonostante da scoprire non siano i fatti (la maestra è scomparsa ed è andata nel bosco, una ragazzina è morta, e dal bosco la maestra verosimilmente tornerà: lo dice il titolo del libro) ma le intenzioni, i moti reconditi dell’anima, le rivoluzioni del pensiero, le origini del cedimento umano.

La discesa agli inferi della maestra Canepa è però fermata da un ragazzino asmatico, Martino, che del bosco non ne vuole sapere perché desidera tornare dai suoi amici a Torino, città dalla quale la famiglia s’è spostata proprio per la sua malattia respiratoria. Quando la trova resta sgomento: “Silvia Canepa sapeva di pipì, sudore e vestiti ammuffiti; era un odore rancido, ben distinto dagli altri odori del bosco. […] Come si parla a una maestra nascosta che puzza di piscio?”

E più in generale come ci si avvicina a una persona che soffre? Che non si sente capita? Che vive il peccato della colpa che non ha il coraggio nemmeno di pronunciare, e che alberga, a conti fatti, solo nella sua mente?

Vaglio Tanet traduce in letteratura il disagio esistenziale, mescola i piani del reale e dell’immaginato, sovrapponendo una mente confusa dal dolore al rigore della ragione (la maestra nel suo errabondo vagare incontra fantasmi del presente e del passato), e al contempo ci invischia in una storia di paese, di dettagli, di voci di corridoio, di matrimoni traballanti e di amicizie adolescenziali, di intenzioni pronunciate e segreti mantenuti.

Oltre a Silvia, Giovanna e Martino, ci sono infatti Luisa moglie del cugino Anselmo, i genitori di Martino, Lea e Stefano, e l’amico di famiglia, Gianni, e l’amica di Martino, Giulia, il supplente della maestra Canepa, i genitori di Giovanna: c’è la vita insomma – che resta fuori dal bosco. “La parte difficile” per chi non sta fuori, ma dentro il bosco, è “posare i piedi sull’asfalto e sui palazzi dritti e duri”. E tutti forse almeno una volta ci siamo sentiti come Silvia, “conficcata nella vita di sbieco, come una vite spanata che non fa presa del tutto e non coincide come dovrebbe con la propria impronta”. Vaglio Tanet trova un modo per dirlo: costruisce un bosco e ci porta lì dentro.

Invece di andare a scuola la maestra entrò nel bosco Maddalena Vaglio Tanet

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