Prima notizia: l’Unione Europea aumenterà il budget per la ricerca di 11 miliardi di euro da spalmare nei prossimi 7 anni nell’ambito del programma Horizon Europe che debutterà con il 2021. La dotazione complessiva arriverà così a 94,4 miliardi di euro.
Seconda notizia: The Endless Frontier Act, una nuova legge che si sono dati gli Stati Uniti, ha creato una direzione tecnologica nella National Science Foundation (NSF) che, entro il 2024, porterà il budget dell’agenzia federale che si incarica di finanziare la ricerca scientifica non di natura biomedica, da 8 a 35 miliardi di dollari.
Due notizie, due errori. Le notizie sono il succo di due ottimi articoli pubblicati recentemente dalla rivista americana Science e raccontano di due errori che possono costare caro alla comunità scientifica e, in prospettiva, anche all’economia dell’Europa e degli Stati Uniti. Non si tratta di errori commessi dagli scienziati ma da chi dirige la politica della scienza e la politica economica tra le due sponde dell’Atlantico. Sono errori di rimozione: si sono (ci siamo) dimenticati della lezione di Vannevar Bush e del suo rapporto Science: the Endless Frontier reso pubblico esattamente 75 anni fa, nel giugno 1945, che ha fatto da base teorica non solo per la politica della ricerca ma anche e per l’economia tout court dopo la seconda guerra mondiale, dapprima in Occidente, ora in tutto il pianeta.
Perché la prima notizia, quello degli 11 miliardi di euro di aumento del programma Horizon Europe (che tra l’altro è ancora in fase di discussione) ci racconta di un errore? Beh, è evidente: perché l’Unione Europea ha messo in cantiere lo stanziamento di 1.850 miliardi di euro per affrontare la crisi economica innescata dall’epidemia Covid-19. Rispetto a questa montagna di soldi, 11 miliardi sono una briciola: meno dello 0,6% del totale. Una goccia nel mare, come l’ha definita Andrés Rodríguez-Pose, un ricercatore della London School of Economics.
È evidente che l’Unione Europea non punta sulla ricerca scientifica per superare la crisi. Vero è che una parte, per ora indefinita, di quei 1.850 miliardi di euro potrebbe andare a finanziare la ricerca scientifica di alcuni almeno dei 27 paesi dell’Unione. Ma questo non consola, perché si tratta di un errore nell’errore. Il primo dei quali consiste nel fatto che, complessivamente, l’Unione Europea è indietro ai due grandi giganti della ricerca mondiale e anche a due attori di medie dimensioni, come il Giappone e la Corea del Sud. La spesa complessiva in ricerca dei 27 paesi sfiora il 2,0% del Prodotto interno lordo dell’Unione. Contro il 2,8% degli Stati Uniti, il 3,4% del Giappone, il 4,5% della Corea del Sud. E contro anche il valore, in rapida crescita, della Cina: che ormai ha raggiunto il 2,2%. Siamo indietro. E lo sappiamo da tempo: tant’è che nel 2000 a Lisbona con una precisazione ulteriore nel 2002 a Barcellona, i primi ministri di tutti i paesi membri decisero che entro il 2010 l’Unione sarebbe dovuta diventare leader al mondo nell’economia della conoscenza e che per fare questo avrebbe dovuto aumentare la spesa complessiva in ricerca scientifica dall’1,9 di allora al 3,0%, sempre entro il 2010.
Il 2010 è arrivato, ma la spesa non aveva fatto un passo aventi neppure di un decimo. Dunque il traguardo fu spostato al 2020. Il 2020 è arrivato e siamo nelle medesime condizioni del 2000. Gli altri stanno correndo, l’Europa è ferma. Non ha fiducia nella scienza. Non crede nell’analisi di Vannevar Bush, secondo cui la scienza – in particolare quella di base o come si dice oggi curiosity-driven – è il motore dell’innovazione e, dunque, dell’economia.
L’errore nell’errore consiste nel fatto di reiterare la prassi secondo cui oltre il 95% della spesa europea in ricerca avviene a opera dei singoli 27 stati membri, decisa in 27 capitali diverse, con altrettante politiche diverse, spesso divergenti, mentre tutti i paesi che abbiamo citato hanno un unico centro di decisone.
L’articolo di Nature analizza anche la qualità della spesa. E sostiene, che bisogna dimostrare che maggiori investimenti in ricerca si traducono una crescita economica. Ma la storia ha dimostrato che Vannevar Bush aveva ragione, è che la scienza è il motore dell’economia della conoscenza, ad ogni latitudine e longitudine ormai. Sta a noi europei fare leva sulla scienza per trasformare la crescita economica in sviluppo sostenibile e costruire una società più democratica della conoscenza. Ma per fare questo le briciole – di attenzione, prima ancora che di moneta sonante – non bastano.
Il secondo errore sembra entrare in contraddizione con quanto finora affermato. Cosa c’è di sbagliato nel quadruplicare e più il budget della National Science Foundation degli Stati Uniti? Nulla, se ci fermiamo al mero dato quantitativo. Anzi…
Ma l’aumento è tutto devoluto non al finanziamento della ricerca bottom-up e curiosity-driven che è nella missione originaria della NSF, un’agenzia voluta proprio da Vannevar Bush, ma alla scienza applicata e allo sviluppo tecnologico con un approccio sostanzialmente top-down: in altri termini le linee di ricerca e di sviluppo vengono decise dall’alto.
Molti, pertanto, i commenti critici: così si snatura, anzi si ribalta, la cultura tradizionale della NSF. Eccolo, dunque, l’errore. La National Science Foundation – persino la National Science Foundation – tradisce le idee e il programma di Vannevar Bush. Dimentica la lezione dello scienziato consigliere scientifico di Franklin D. Roosevelt, secondo cui, come abbiamo ricordato, il motore dell’innovazione è proprio la ricerca di base e curiosity-driven. Le cui ricadute fanno a valle la ricchezza delle nazioni, senza poter essere prevedibili a monte. Chi poteva immaginare, per esempio, che al CERN di Ginevra, che si occupa di fisica delle alte energie, sarebbe nato il linguaggio che è alla base di Internet? Neppure Einstein avrebbe potuto immaginare che la sua teoria della relatività generale avrebbe consentito la messa a punto del sistema di localizzazione GPS.
Eccoli, dunque, i due errori. Talvolta si investe poco nella ricerca scientifica. Talvolta si investe male, cercando scorciatoie di natura pragmatica 8anche i programmi europei lo fanno) dimenticando che è proprio il valore culturale in sé della scienza che genera ricadute anche economiche.
Per eccesso di pragmatismo, la storia insegna, la scienza può morire.