SOCIETÀ

Ecuador, lo sfregio al diritto internazionale e il rischio emulazione

L’irruzione della polizia, disposta dal governo dell’Ecuador, nell’ambasciata messicana a Quito, la sera del 5 aprile scorso, per arrestare un ex vicepresidente, Jorge Glas, accusato di corruzione (che lì risiedeva da dicembre dopo aver chiesto protezione e ottenuto, pochi giorni fa, asilo politico) è un atto senza precedenti, uno sfregio, una pagina strappata del diritto internazionale, quel complesso sistema di norme che regola i rapporti tra Stati. L’articolo 22 della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche, che risale al 1961, recita: “I locali della missione diplomatica sono inviolabili. Gli agenti dello Stato ospitante non possono entrarvi, se non con il consenso del capo della missione, che è tenuto a prendere tutte le misure appropriate per impedire che le stanze della missione siano invase o danneggiate, che la pace della missione sia turbata, e la dignità della stessa diminuita. Le stanze, la mobilia, gli altri oggetti che vi si trovano e i mezzi di trasporto della missione non possono essere oggetto di perquisizione, requisizione, sequestro o esecuzione forzata”. Insomma, l’uso della forza non è in alcun modo contemplato. E un capo di stato o di governo non può ordinare alle sue forze di polizia di fare irruzione all’interno di un’ambasciata di un altro paese, sulla base del principio universalmente riconosciuto “ne impediatur legatio” (“che l’ambasciata non abbia ostacoli”). E non c’è giustificazione che tenga, come quella presentata in una nota ufficiale dall’ufficio di Daniel Noboa, giovane presidente dell’Ecuador, a poche ore dalla conclusione del blitz: «L’Ecuador è una nazione sovrana e non permetteremo a nessun criminale di rimanere libero». Il presidente del Messico, Andrés Manuel López Obrador, ha definito l’azione «una flagrante violazione del diritto internazionale e della sovranità del Messico». E ha incaricato il suo ministro degli Esteri di sospendere immediatamente le relazioni diplomatiche con l’Ecuador. L’intera delegazione messicana è rientrata a Città del Messico. Alicia Bárcena, segretaria per le relazioni estere del Messico, ha ringraziato i diplomatici di ritorno (l’ambasciatrice Raquel Serur, l’incaricato d’affari esteri Roberto Canseco, il capo amministrativo Eva Martha Balbuena) «per aver difeso la nostra ambasciata a Quito anche a rischio della loro incolumità. Sono entrati con violenza e senza alcuna autorizzazione, aggredendo fisicamente i diplomatici. Lo condanniamo energicamente». La testimonianza di Roberto Canseco racconta lo sgomento e l’incredulità per quanto accaduto nel corso del raid: «Mi hanno buttato a terra. Come criminali, con il volto coperto da passamontagna, hanno fatto irruzione all’interno dell’ambasciata messicana a Quito. Questo non è possibile. Non può essere. È pazzesco».

Condanna unanime

Il Messico ha immediatamente denunciato la condotta dell’Ecuador alla Corte Internazionale di Giustizia, il Tribunale delle Nazioni Unite, con sede a L’Aja, nei Paesi Bassi. E il coro di condanne di fronte a quanto accaduto a Quito è stato pressoché unanime. A partire dal segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres: «Le violazioni del principio cardine dell’inviolabilità delle sedi e del personale diplomatico e consolare mettono a repentaglio il perseguimento delle normali relazioni internazionali, che sono fondamentali per il progresso della cooperazione tra gli Stati». Pressoché unanime la critica all’Ecuador da parte degli stati sudamericani: dal Brasile alla Colombia, dal Cile all’Honduras, alla Bolivia. Perfino l’Argentina dell’ultraliberista Javier Milei: «La Repubblica Argentina si unisce ai paesi della regione nel condannare quanto accaduto presso l’Ambasciata messicana in Ecuador», ha scritto in una nota il Ministero degli Affari Esteri. «L’Argentina chiede il pieno rispetto delle disposizioni di tale strumento internazionale nonché degli obblighi derivanti dalla Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche». Più dura la nota del presidente venezuelano Nicolas Maduro: «Esortiamo la comunità internazionale a prendere misure contro questi atti riprovevoli che minacciano l’integrità e la piena stabilità dell’America Latina. Questa mancanza di buon senso da parte delle autorità rischia di innescare un periodo di terrore per l’Ecuador, dove si manifesterebbe il neofascismo come ideologia estrema e totalitaria». Il Nicaragua, come segno di forte condanna, ha interrotto tutti i rapporti diplomatici con l’Ecuador. Il presidente colombiano Gustavo Petro ha annunciato che il suo paese promuoverà un’azione della Commissione Interamericana per i diritti umani a favore di Jorge Glas, l’ex vicepresidente ecuadoriano “prelevato” dalle forze di sicurezza dell’Ecuador all’interno dell’ambasciata messicana: «Il suo diritto di asilo è stato violato in modo barbaro». Anche la Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici (Celac) ha convocato diverse riunioni straordinarie per affrontare la questione. Duro il commento della scrittrice e giornalista cilena Isabel Allende, figlia del presidente socialista Salvador Allende deposto nel 1973 da Augusto Pinochet durante un tragico colpo di stato organizzato dagli Stati Uniti: «Nemmeno Pinochet aveva osato invadere un’ambasciata durante la sua dittatura». Dopo il colpo di stato, e il suicidio di Allende nel palazzo della Moneda l’11 settembre 1973, la famiglia dell’ex presidente socialista si rifugiò per diversi giorni all’interno dell’ambasciata messicana a Santiago del Cile, prima di andare in esilio in Venezuela.

Il dilemma della sanzione e il rischio emulazione

Il vero problema a questo punto è: cosa accadrà dopo? La violazione della “sacralità” della sede di una missione diplomatica è un precedente troppo grave per essere archiviato come un episodio di folklore locale. Lo spiega bene Diego García-Sayán, avvocato peruviano, ex presidente della Corte Interamericana dei Diritti Umani, che alla Bbc ha dichiarato: «L’irruzione con forze in uniforme in una sede diplomatica è un atto scandalosamente contrario al diritto internazionale». E se la risposta degli organismi internazionali, soprattutto della Corte Internazionale di Giustizia, sarà blanda, o comunque marginale, il messaggio che passerà è: si può fare. Esteban Nicholls, direttore degli studi latinoamericani presso l’Università andina Simón Bolívar dell'Ecuador, ritiene che le possibilità siano sostanzialmente due: «Una sanzione pecuniaria, cioè una multa; oppure la rimozione dell’Ecuador da alcuni comitati, magari revocando il diritto di voto in organizzazioni multilaterali come l'Organizzazione degli Stati Americani (OSA)». Il professor Nicholls ha anche immaginato quale potrebbe essere la linea difensiva dell’Ecuador di fronte al Tribunale delle Nazioni Unite: «Sosterrà che l’ambasciata messicana ha ospitato un prigioniero comune, non una persona perseguitata politicamente: e il diritto internazionale non permette a un criminale comune di rifugiarsi in un’ambasciata. Tuttavia la Corte riterrà comunque l’Ecuador colpevole perché violare i confini di un’ambasciata equivale, almeno nella teoria del diritto internazionale, a invadere un altro paese».

Il rischio concreto, ora, è l’effetto emulazione. Lo spiega, interpellata dall’Associated Press, Natalia Saltalamacchia, docente di relazioni internazionali presso l’Instituto Tecnológico Autónomo de México (ITAM): «Quando uno stato come l’Ecuador prende una decisione del genere, sta davvero mettendo in pericolo tutte le ambasciate di tutti gli stati del mondo. Si entra in uno situazione di anarchia, una sorta di legge della giungla». A parti inverse, lo stesso Ecuador era stato protagonista di una vicenda piuttosto tesa, nel 2012, quando il governo britannico minacciò (senza mai passare all’azione) di fare irruzione nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra per perseguire il leader di WikiLeaks Julian Assange, che lì si era rifugiato chiedendo asilo politico (qui la cronistoria di quei giorni concitati). «Siamo profondamente scioccati dalle minacce del governo britannico contro la sovranità dell’ambasciata ecuadoriana e dal loro proposito di entrare con la forza nei locali dell’ambasciata», aveva dichiarato l’allora capo del governo ecuadoriano, il presidente Rafael Correa. «Questa è una chiara violazione del diritto internazionale e dei protocolli stabiliti nella Convenzione di Vienna». Altri precedenti in materia: il Miami Herald ricorda che «il 21 febbraio del 1981 le truppe speciali di Cuba, inviate da Fidel Castro, violarono con la forza l’ambasciata ecuadoriana per arrestare 15 dissidenti che avevano lì cercato asilo. E pochi mesi prima, il 9 dicembre 1980, sempre a Cuba, le forze speciali fecero irruzione nell’ambasciata vaticana in cerca di persone che vi avevano chiesto asilo politico. Tre fratelli di età compresa tra i 19 e i 25 anni - Ventura, Cipriano ed Eugenio Garcia Marin – furono catturati dalle truppe cubane all'interno della missione vaticana. E, secondo l’Archivio di Cuba, giustiziati tre settimane dopo». Diversi poi gli attentati che hanno riguardato, negli anni, le ambasciate (qui un elenco), ma salvo il caso di Cuba mai direttamente provenienti dal paese ospitante.

L’azzardo di Noboa, in un paese dominato dalla violenza dei narcos

Resta da capire perché il presidente ecuadoriano Daniel Noboa abbia deciso di procedere con un’azione così clamorosamente “scorretta” per arrivare all’arresto non di un capo di una delle gang di narcotrafficanti che stanno trasformando l’Ecuador in un quotidiano inferno di violenza, ma di un ex vicepresidente, Jorge Glas, accusato di corruzione: importante certo, ma non così “centrale” nella sua sfida contro il crimine organizzato. Secondo l’Associated Press, questo è esattamente quel che si aspettano gli elettori di Noboa: una lotta al crimine senza esclusione di colpi: «Gli ecuadoriani erano alla ricerca del loro uomo d’azione alle ultime elezioni, stanchi della corruzione diffusa e delle rapine, dei rapimenti, delle estorsioni e degli omicidi alimentati dalla crescente presenza dei cartelli internazionali della droga», scrive l’agenzia di stampa statunitense al termine di un reportage sul posto. «Noboa, che spesso sfoggia giubbotti antiproiettile, occhiali da sole e giacche di pelle, finora sembra ricoprire quel ruolo. Se fermare i trasgressori della legge significa fare irruzione in un’ambasciata, allora così sia». Secondo Carlos Galecio, consulente di comunicazione politica e coordinatore del programma di comunicazione presso l’Università privata “Casa Grande” di Guayaquil, in Ecuador, «il presidente Noboa ha dato un messaggio forte alla nazione. È una spinta alla sua immagine molto potente». L’Ecuador, lo scorso 1 marzo, aveva chiesto al Messico il permesso di entrare nell’ambasciata per arrestare l’ex vicepresidente, condannato per “uso improprio delle risorse” destinate alla ricostruzione della provincia di Manabi dopo il terremoto del 2016. Il Messico aveva invece concesso asilo politico a Jorge Glas i primi di aprile: da lì l’ordine del raid. Glas si trova ora nel carcere di massima sicurezza di La Roca. L’ex presidente ecuadoriano Rafael Correa, nell’auspicare una mobilitazione internazionale che porti al suo rilascio, ha denunciato che Jorge Glas è stato “maltrattato” durante il suo arresto e il successivo trasferimento in carcere.

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