SOCIETÀ

Il segno profondo dell'epidemia del capitalismo

Le epidemie viaggiano con le merci e le merci viaggiano con le persone. Negli ultimi trent’anni si è affermato uno sciocco storytelling sulla globalizzazione, come se il mondo non fosse già “globale” duemila anni fa, quando l’impero romano faceva arrivare oro, incenso e mirra dall’Africa e dall’Asia. Era già globale quando il vino di Cipro compariva sulle tavole dei re di Francia e d’Inghilterra. Era già globale nel 1347 quando la prima nave genovese proveniente da Caffa, in Crimea, portò i topi e le pulci che trasmettevano il bacillo Yersinia Pestis prima a Istanbul e poi ad Alessandria d’Egitto e a Messina. Una volta lì, la peste nera, attraverso la vasta rete commerciale dei genovesi, raggiunse tutto il Mediterraneo e poi tutta l’Europa. 

Con il Coronavirus la prima epidemia del capitalismo contemporaneo è arrivata e, malgrado il numero di morti finora contenuto in confronto alle grandi epidemie della storia (20 milioni la peste nera, 100 milioni l’influenza spagnola nel 1918-20) lascerà un segno profondissimo. La medicina limiterà forse il numero dei morti ma l’economia mondiale prenderà la bronchite, forse la polmonite. La Cina è la fabbrica del mondo e, per quanto le autorità di Pechino possano censurare le notizie, tra un po’ i telefonini Apple fabbricati dalla Foxconn rallenteranno i loro arrivi e dio solo sa se a Natale non si dovrà andare al mercato nero per procurarsi un iPhone. 

Esagerazioni? Apple ha già annunciato un rallentamento delle forniture e, fino a ieri, il mercato azionario sembrava credere che non stia succedendo nulla di grave: le azioni della società fondata da Steve Jobs oscillavano sempre attorno a quota 315 dollari, poco sotto il record di dieci giorni fa a $ 327. Ma è evidente che la corsa al rialzo si è fermata: un anno fa le azioni Apple quotavano 169 dollari, poco più della metà del massimo raggiunto il 12 febbraio. È perfettamente possibile che nei prossimi sei mesi tornino al punto di partenza.

In realtà, tutto il commercio mondiale subirà una brusca battuta di arresto, dopo essere cresciuto del 29% tra il 2018 e il 2019, raggiungendo la cifra di 5.630 miliardi di dollari nel 2018. Sono cifre quasi incomprensibili per il profano, ma basti dire che tutto, proprio tutto, ciò che tocchiamo ogni giorno nella nostra vita quotidiana in misura maggiore o minore viene dall’estero. Non solo i telefonini ma anche le automobili con cui ci spostiamo, i computer con cui lavoriamo, il letto in cui  dormiamo, la farina del pane che mangiamo. Anche frutta e verdura a “kilometro zero” dipendono dall’elettricità, che in parte importiamo dalla Francia, e dal petrolio per i trattori, che ovviamente non viene estratto in Italia. 

Ogni prodotto complesso, per esempio un’automobile, è composto di decine o centinaia di parti con origini diverse e strettamente intrecciate, in catene di produzione definite Just in Time, il che significa che in magazzino c’è poco o niente, perché le catene di montaggio sono alimentate da puntuali consegne di pezzi arrivati la sera prima dalla Germania piuttosto che dal Giappone o dalla Cina. Questa interdipendenza rende vulnerabili le economie, tutte le economie nazionali, anche quelle che non hanno ancora visto l’arrivo di un singolo caso di paziente colpito dal virus.

Qualche anno fa, il sociologo tedesco Wolfgang Streeck scrisse un libro sulla crisi del capitalismo intitolato Buying Time, “Guadagnare tempo”. La sua tesi era che i successi dell’economia di questi anni si basavano su una strettissima integrazione produttiva e finanziaria ma che proprio questo rendeva il sistema globale fortemente vulnerabile a uno choc esterno che, a causa di questa integrazione, si sarebbe immediatamente diffuso da Pechino a Washington e da Oslo a Sidney. Lo choc adesso è arrivato: si chiama Covid-19 e non abbiamo ancora visto un centesimo dei suoi effetti.

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