SOCIETÀ
Eros e disabilità. I pregiudizi ancora da abbattere e l’importanza di un’educazione sessuale inclusiva
“L’amore vince su tutto” è un luogo comune trito e ritrito in cui ciascuno di noi, chi più chi meno, può scegliere di credere. Eppure, si tende talvolta a dimenticarlo quando il “tutto” in questione comprende una sedia a rotelle, un bastone per non vedenti o un disturbo dello sviluppo intellettivo. Esistono ancora troppi pregiudizi associati al binomio disabilità/sessualità. A partire dall’idea, priva di fondamento, che le persone con disabilità siano prive di desideri sessuali, alla falsa credenza che, per alcune forme di disabilità, non valga la pena intraprendere o incoraggiare percorsi di vita indipendente che prevedano anche la possibilità di instaurare legami affettivi di qualità. È importante invece portare alla luce tali pregiudizi e rendersi conto che, se parlare di sesso nella società moderna non è più un tabù, questo dovrebbe valere anche in condizioni di disabilità.
La tematizzazione a livello sociale e culturale del benessere sessuale in presenza di disabilità è avvenuta a diversi livelli in ambito artistico (pensiamo ad esempio al progetto sensuability, che attraverso i linguaggi del cinema, della pittura e della fotografia cerca di sfatare il mito secondo cui le persone con disabilità siano “angeli asessuati”) della cultura pop (dal fumetto Uniti nonostante tutto alla serie americana Atypical su Netflix) e anche del marketing (con le campagne organizzate da aziende come My secret case e Victoria’s secrets). Queste e altre iniziative di sensibilizzazione e diffusione di una cultura più vera e inclusiva della sessualità stanno contribuendo un po’ alla volta a infrangere alcuni dei pregiudizi che ancora plasmano l’immaginario comune quando si parla di amore, desiderio e disabilità.
Abbiamo chiesto ad Angelo Lascioli, professore ordinario di pedagogia speciale all’università di Verona, da dove nasca la necessità di affrontare criticamente questo tema nel dibattito pubblico attuale.
“I bisogni affettivi e sessuali sono costitutivi dei processi di crescita, sviluppo e realizzazione personale di ogni essere umano”, premette Lascioli. “Tutti noi, infatti, abbiamo bisogno di attribuire un senso e una collocazione a questi bisogni durante i diversi momenti della nostra vita, specialmente da adulti. Nonostante tale evidenza, per molto tempo ha persistito nell'immaginario collettivo l’idea che le persone con disabilità fossero prive di bisogni affettivi e/o sessuali. C’è stata, per certi versi, una sorta di scotomizzazione che ha impedito di riconoscere in esse alcuni bisogni, pensieri e desideri, inclusi quelli legati alla genitorialità e alla volontà di costruire una famiglia, che sono invece dati per scontati nelle persone che non hanno una disabilità.
Oggi, fortunatamente, tale forma di pregiudizio non è così radicata come un tempo. Viviamo in una società in cui la sessualità non è più considerata un tabù, ed è divenuta parte ordinaria del dibattito e del confronto culturale, politico e sociale. Lo stesso vale per la sessualità delle persone con disabilità, i cui bisogni vengono oggi più facilmente riconosciuti e considerati, anche se permangono ancora alcuni pregiudizi, per certi versi ancora nascosti, associati alla difficoltà di pensare il rapporto (certamente non sempre facile) tra sessualità e disabilità”.
Se sono nascosti, possiamo provare a portarli alla luce?
“Un modo efficace per svelare un pregiudizio è di provare a dargli un nome”, osserva Lascioli. “In tal senso, nomino il primo dei pregiudizi che ancora interferiscono sul processo di riconoscimento dei bisogni sessuali delle persone con disabilità, definendolo “pregiudizio di Quasimodo”. Tale forma di pregiudizio deve il suo nome al celebre personaggio descritto da Victor Hugo nel romanzo Notre-Dame de Paris, (altrimenti noto come Il Gobbo di Notre-Dame), il quale a causa della sua “anormalità” è costretto a vivere recluso nella stupenda cattedrale di Parigi senza poter uscire né partecipare in prima persona alla vita della città. Tale pregiudizio deriva dalla difficoltà di riconoscere nelle persone con disabilità il desiderio di sperimentare e di vivere la loro vita come tutti, nella sua interezza e con i suoi rischi, finendo per pensare a loro solo in termini limitati, come se fossero “uomini e donne quasi” (quasi-a-modo) ossia solo parzialmente essere umani al pari degli altri. Tale pregiudizio induce talvolta anche a pensare, erroneamente, che le persone con disabilità vivano al meglio la loro vita solo se collocati in luoghi e situazioni protette, apparentemente “preferenziali”, che di fatto li separano dalle possibilità esistenziali sperimentate dalle persone prive di disabilità. La conseguenza di questa falsa credenza è che anche la loro vita affettiva e sessuale rischia di svolgersi in contesti e situazioni che ne riducono drasticamente le possibilità, senza considerare il rischio che i loro bisogni affettivi e sessuali, a causa delle limitazioni sperimentate, finiscano per non essere nemmeno riconosciuti da loro stessi come dotati di senso e valore.
Il secondo pregiudizio è quello denominato “pregiudizio dell’eterno bambino”. Riguarda la difficoltà che spesso incontrano i familiari delle persone con disabilità, come pure gli insegnanti e talvolta anche gli operatori che lavorano nei servizi a favore delle persone con disabilità, che consiste nel non riuscire a immaginare la vita adulta di queste persone. Tale pregiudizio è tanto più forte quanto sono gravi le condizioni di limite sperimentate da questi individui a causa delle loro condizioni di salute. La consapevolezza della presenza di condizioni di fragilità e/o di difficoltà dovute alla disabilità, inducono talvolta a credere che queste persone debbano essere trattate con quell’elevato livello di attenzione, cura e protezione solitamente riservato ai bambini. Da qui anche la visione infantilizzante dei loro bisogni, che genera non poche difficoltà nel pensarle adulte e, di conseguenza, quando si tratta di considerare e dare valore alla dimensione affettiva e sessuale delle loro vite.
Il terzo pregiudizio, che chiamo “pregiudizio dell’identità speciale”, deriva dalla tendenza a considerare la vita delle persone con disabilità come una “vita speciale” o a ritenere la loro biografia esistenziale come una “storia speciale” e, di conseguenza, anche i loro normali bisogni solo nei termini di “bisogni speciali”. Questo genere di ragionamento, originariamente finalizzato alla protezione dei diritti delle persone con disabilità, può talvolta innescare un meccanismo di stigmatizzazione che spinge a considerare la loro identità unicamente come “speciale”, fino a pensare che anche i loro bisogni affettivi e sessuali debbano essere trattati con soluzioni “speciali”. Per rispondere a questi bisogni, è invece importante creare le condizioni adeguate che permettano loro di sperimentare percorsi di vita normali, con un’ottica inclusiva, ossia aperta a tutte le contraddizioni e le potenzialità che caratterizzano le esperienze affettive e relazionali umane”.
Cosa accade quando questi pregiudizi vengono interiorizzati dalle persone con disabilità trasformandosi in una forma di auto-stigma?
“È importante combattere il pregiudizio se si vogliono effettivamente promuovere percorsi di vita per le persone con disabilità che siano rispettose anche dei loro bisogni affettivi e sessuali”, afferma Lascioli. “Il pregiudizio non ha solo una dimensione agita (che nasce dall’azione di chi lo impone agli altri), ma anche subita (che entra nella vita di coloro a cui è rivolto). Nel passato, ad esempio, quando le persone con disabilità venivano trattate come soggetti incapaci di lavorare e di apprendere, quando li si pensava incapaci di autodeterminazione e la loro vita veniva inquadrata in percorsi istituzionali separati da quelli previsti per le altre persone, tali convinzioni venivano talvolta interiorizzate dai soggetti stessi con disabilità, i quali faticavano quindi a immaginarsi come persone indipendenti, capaci di inseguire i propri sogni e di prendere autonomamente le proprie decisioni. Questo meccanismo di auto-stigma ha contaminato anche la sfera sessuale e, in alcuni casi, è proprio ciò che impedisce loro persino di mentalizzare la propria sessualità. La mentalizzazione della corporeità erotica è quel processo psichico delicato e, per certi versi, sconvolgente (perché denso di esperienze emotive nuove e profonde) che avviene solitamente durante l'adolescenza e obbliga a ricostruire la propria identità alla luce della scoperta della propria corporeità erotica.
Per supportare e facilitare i processi di scoperta e mentalizzazione della sessualità è necessario offrire alle persone con disabilità, in ambito scolastico ma non solo, percorsi di educazione sessuale. Specialmente quando sono presenti difficoltà di tipo cognitivo e/o emotivo, come nelle disabilità intellettive o nell’autismo, che rendono difficile affrontare i compiti evolutivi tipici dell’adolescenza. Ciononostante, esistono ancora alcune resistenze e difficoltà nel proporre percorsi di educazione sessuale a queste persone, dovute all’esistenza di quei pregiudizi “nascosti”, descritti poc’anzi, che ostacolano la definizione e l’istituzionalizzazione di percorsi efficaci di questo genere dedicati alle persone con disabilità”.
Quali sono i casi in cui il benessere sessuale di una persona con disabilità richiede un intervento dal punto di vista clinico?
“Va innanzitutto chiarito che la disabilità non è una condizione patologica, bensì l’effetto dell’interazione tra un individuo e l’ambiente esterno, quando le caratteristiche dell’ambiente risultano sfavorevoli a causa delle condizioni fisiche o mentali dell’individuo”, spiega il professore. “Avere una disabilità, inoltre, non significa avere un’affettività e/o una sessualità “disabili”, né tanto meno avere un’affettività e/o una sessualità “malate”. Come per ogni altro individuo, la presenza di determinati problemi di salute può interferire con la qualità della vita affettiva e sessuale e ciò può rendere necessaria una valutazione clinica, talvolta seguita dalla necessità di un intervento terapeutico. Esistono naturalmente alcune condizioni di disturbo correlate a quadri di disabilità che rappresentano un ostacolo nel processo di sviluppo affettivo e sessuale, che per tale ragione richiedono una presa in carico di tipo clinico (talvolta anche farmacologico), ma non è la disabilità in sé a rappresentare un ostacolo allo sviluppo affettivo e sessuale.
È solo quando determinate condizioni di salute rischiano di compromettere la vita affettiva e il benessere sessuale che si rende necessario un trattamento clinico farmacologico, come accade per alcune malattie endocrine, che possono causare disfunzioni sessuali, o a causa di determinati disturbi di personalità di tipo borderline, che rischiano di pregiudicare la possibilità di instaurare sane e adeguate relazioni affettive. Anche in questi casi, a prescindere dalla condizione di disabilità, vale quanto detto prima: non sono né la disabilità né la sessualità ad essere oggetto di intervento clinico, bensì la patologia o il disturbo che interferisce con la possibilità della persona di sperimentare una vita affettiva e sessuale di qualità.
Più che un trattamento di tipo farmacologico, ciò che si rende spesso necessario, in presenza di alcune forme di disabilità, è un supporto professionale con finalità educative, ossia in grado di accompagnare e sostenere il processo di sviluppo affettivo e sessuale. Ciò dovrebbe specialmente avvenire per i ragazzi e le ragazze con disabilità intellettive, i quali a causa delle difficoltà dovute a questa tipologia di disabilità non hanno accesso ai principali canali informativi (internet e scambio di informazioni tra pari) solitamente utilizzati dagli adolescenti per raccogliere le conoscenze utili a gestire la loro educazione affettiva e sessuale in modo autonomo. In mancanza di simili occasioni di acquisizione e scambio di conoscenze e informazioni, talvolta è necessario che altri (psicologi, sessuologi o pedagogisti) supportino questi ragazzi e ragazze con disabilità nelle fasi di riconoscimento ed espressione dei loro bisogni sessuali, e, in alcuni casi, anche per acquisire le abilità sociali necessarie per gestirli. Ciò si rende necessario anche per le persone con alcune forme di autismo che possono faticare a individuare i sottintesi seduttivi di alcuni comportamenti oppure a riconoscere ed evitare eventuali situazioni di disagio o pericolo”.
Non necessariamente, quindi, la sessualità nella disabilità impone un supporto specialistico e, anche in quei casi, l’intervento in questione dev’essere prioritariamente educativo, ossia mirato ad accompagnare queste persone nella definizione di un proprio progetto di vita di qualità, che ricomprenda le dimensioni affettive e sessuali e che ponga al centro il benessere della persona con disabilità e dei suoi familiari”.
La storia d’amore di Paul e Hava Forziano, un uomo e una donna con disabilità intellettive, raccontata in un breve documentario realizzato da The Atlantic
In che senso si può parlare di un diritto alla sessualità? Non solo rispetto alle persone con disabilità, ma in generale. Porre il benessere sessuale nell’ottica di un diritto non presuppone l’esistenza di un dovere che lo garantisca?
“Per comprendere il senso e la necessità di riconoscere alle persone con disabilità un diritto alla vita affettiva e sessuale – come stabilito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità ratificata anche dal Parlamento italiano – è innanzitutto necessario considerare il processo storico che ha condotto alla formulazione della logica dei diritti”, afferma Lascioli.
“Purtroppo, la storia delle persone con disabilità ci insegna che se alcuni bisogni e libertà fondamentali nella vita di ogni essere umano non fossero stati riconosciuti e ridefiniti nei termini di diritti universali, tali bisogni e libertà avrebbero rischiato di essere ignorati in presenza di disabilità, causando di conseguenza enormi disuguaglianze sociali. È stata infatti la Legge 517/77 che, stabilendo il diritto all'istruzione scolastica per tutti, ha permesso ai genitori che avevano figli con disabilità di iscriverli alla medesima scuola frequentata dai loro compagni: prima, per poter avere un’istruzione, dovevano portare i loro figli nelle scuole speciali in quanto non venivano accolti nella scuola di tutti; è stato grazie alle leggi che hanno istituito il diritto al lavoro per tutti che le fabbriche, le ditte e le imprese oggi sono tenute per legge ad assumere le persone con disabilità che un tempo non potevano accedere al lavoro, pur avendone le capacità.
I diritti, in altre parole, servono (anche) a ricordarci dell’esistenza di alcune dimensioni della vita umana che non possono essere precluse ad alcuni gruppi di popolazione. In questo senso, la “logica del diritto” costituisce la porta di accesso ad alcune esperienze personali e sociali che altrimenti non verrebbero garantite in presenza di determinate condizioni, tra cui quella di disabilità.
A livello pedagogico, il diritto alla vita affettiva e sessuale determina innanzitutto la necessità di garantire una corretta educazione sessuale a tutti i ragazzi e le ragazze con disabilità, fornendo loro le conoscenze adeguate sull’argomento (quelle relative, ad esempio, alla fisiologia e al funzionamento dell’apparato riproduttivo). Non si può pensare, infatti, che le persone con disabilità, solo a causa di questa loro condizione, possano essere mantenute all’oscuro di tali nozioni. Pensiamo, addirittura, che in passato per molte persone con disabilità era pressoché impossibile costruirsi una vita di coppia non solo a causa dei divieti talvolta imposti da parte delle famiglie, ma anche a causa della difficoltà di accedere alle informazioni di base a ciò necessarie.
Quando invece ci si addentra nella questione da un punto di vista giuridico, si pongono alcune questioni più controverse da risolvere. Se, infatti, a ogni diritto corrisponde un dovere, pensare in questi termini al benessere affettivo e sessuale impone la necessità di capire quale dovere tuteli tale diritto, poiché è pressoché impossibile pensare all’affettività e alla sessualità al di fuori di una dimensione di libertà e reciprocità senza scadere nell’ambito della mercificazione o, addirittura, dell’abuso. Si tratta naturalmente di un tema piuttosto delicato che richiede una riflessione anche etica e che non può certamente essere risolto solo in ambito pedagogico”.
Cosa ne pensa della proposta avanzata dal comitato LoveGiver di istituire in Italia la figura dell’assistente sessuale?
“Sulla possibilità di istituire la figura dell’assistente sessuale si è sviluppato un dibattito piuttosto acceso che impone anche di chiederci cosa si intenda quando si parla di assistente sessuale”, spiega Lascioli. “Nel tempo si è cercato di trovare una definizione tecnicamente precisa di questa figura per evitare di farla scadere in una forma di prostituzione. Attualmente, l’assistenza sessuale è pensata come l’intervento di una figura professionale con specifiche e mirate competenze utili per supportare una persona con disabilità nel delicato percorso della scoperta della propria sessualità. Non esiste in Italia una legge che stabilisca quali dovrebbero essere i compiti di questa figura professionale.
Detto questo, è anche importante ricordare che il benessere affettivo e sessuale non è il sinonimo della soddisfazione del piacere e del bisogno erotico. Pertanto, al di là della necessità di definire nel dettaglio la natura e i compiti dell’assistente sessuale, dovremmo anche chiederci se l’istituzione di questa figura professionale rappresenti una soluzione adeguata a garantire il diritto all’affettività e alla sessualità a tutto tondo. A mio parere, non è così. Questo non vuol dire che tale figura non abbia un senso e un valore in alcuni casi, ma resta fondamentale chiarire alle persone con disabilità e ai care giver i limiti di questo genere di intervento. Anche nel caso venisse istituita la figura dell’assistente sessuale resterebbe comunque fondamentale incoraggiare e sostenere lo sviluppo di percorsi di vita indipendente e di autodeterminazione per tutte le persone con disabilità, nel contesto dei quali creare le condizioni per cui anche la dimensione affettiva e sessuale trovi spazio e realizzazione, ad esempio attraverso interventi a sostegno delle esperienze di vita di coppia. In questa direzione si stanno muovendo da tempo molte associazioni che si occupano di persone con disabilità. Sono oggi molte le persone con disabilità, anche di tipo intellettivo, che nell’ambito dei percorsi di vita indipendente a loro proposti stanno facendo esperienza di vita di coppia, anche quando i livelli di autonomia sono ridotti: in questi casi, ciò è reso possibile grazie al supporto esterno che deriva da educatori e da altre figure assistenziali a ciò preparate”.