Costruire la Città-Europa. È la nuova utopia che Renzo Piano ha lanciato ieri dalle colonne di La lettura, l’inserto culturale del Corriere della Sera. Un luogo abitato dove non c’è più contrapposizione tra il centro storico delle città, le periferie e la campagna. Dove non ci sono deserti, perché è nei deserti – dice Piano – che nascono i mostri. Per realizzare la Città-Europa occorre dunque una grande opera di connessione, a iniziare da una rete di trasporti pubblici tali da impedire che un quartiere o anche un borgo siano legati a ogni altro, che non si trasformino in deserti.
L’Europa è la mia dimensione, sostiene il senatore a vita. E proprio questo nostro continente ha le caratteristiche per diventare quel modello di nuova complessità urbana e rurale che deve essere il nuovo modo che gli umani adottano per abitare la Terra.
Sempre su La lettura, ma nel numero precedente, quello del 28 giugno scorso, anche un altro grande intellettuale, lo scrittore francese Olivier Guez, affrontava il tema europeo e sosteneva che fatta l’Europa, ora occorre fare gli europei. Riprendendo una frase attribuita a Massimo D’Azeglio che all’indomani dell’unificazione della nostra penisola avrebbe sostenuto: «Fatta l’Italia, ora bisogna fare gli italiani».
Ma è proprio così? Davvero l’Europa è stata fatta come l’Italia nel 1861? E davvero gli europei devono essere fatti affrontando le stesse difficoltà che abbiamo avuto nel “fare gli italiani”?
E se questa volta fosse vero il contrario? E se ora avessimo già gli europei (almeno in parte) e quel che resterebbe da fare è l’Europa unita, nel senso politico, che sognavano Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi nella Ventotene del 1941 e ancor prima Albert Einstein e Georg Friedrich Nicolai nella Berlino del 1914?
Che l’Europa resti da fare è facile da dimostrare. Non esiste una costituzione europea. E neppure uno stato federale europeo. L’Unione è una grande incompiuta. Meglio – molto meglio – di una frammentazione di stati, com’erano ancora l’Italia prima del 1861 e la stessa Germania prima del 1871. Ma non ancora uno state federale. L’Unione Europea non ha una sua politica estera, non ha un proprio esercito e una propria polizia federale, non ha una propria politica di sicurezza, non ha una propria politica sanitaria né culturale né scolastica. L’Europa è, per l’appunto, una grande incompiuta.
E gli europei? Beh qui le cose sono un po’ diverse. È vero che ci sono minoranze che amano l’identità nazionale e, dunque, la frammentazione continentale. Ma sono minoranza. Mentre ci sono numerose persone – forse la maggioranza – che come Renzo Piano si sentono come europei. Sentono l’Europa come la propria dimensione.
Di più: ci sono matrici e collanti culturali che stanno creando una identità europea. Che stanno creando gli europei.
Questi gruppi che fungono da lievito sono almeno tre. I grandi intellettuali umanisti come Renzo Piano e Olivier Guez abituati quotidianamente a vivere non solo in Europa ma a vivere l’Europa. Si tratta, è vero, di un gruppo numericamente forse ristretto e culturalmente cosmopolita. Renzo Piano gira il mondo ed è attivo in ogni angolo del pianeta. Ma lo fa da europeo (che ama molto la sua Italia, la sua Liguria e la sua Genova): non c’è mica contraddizione in questo. I grandi intellettuali come Renzo Piano, Olivier Guez e tanti altri costituiscono il riferimento più o meno esplicito di un gran numero di europei (di persone che si sentono europee), dal Manzanarre al Reno da Capo Nord a Capo Passero.
C’è poi un secondo gruppo di intellettuali – scienziati naturali – che agiscono come una vera e propria comunità europea. L’esempio più grande, più antico e forse più noto è il CERN di Ginevra: il più grande laboratorio scientifico del mondo intero, il primo esempio di azione comune intrapresa dagli europei dopo la lunga guerra civile culminata nella sconfitta del nazifascismo nel 1945. Lì, al CERN, lavora una comunità europea di fisici così come la intendono gli scienziati: aperta a tutti, anche a chi europeo non è. Perché poi questa è l’idea di Europa: una federazione di stati che dialoga in pace col resto del mondo.
Non c’è solo il CERN, naturalmente. Ci sono tante altre imprese scientifiche comuni agli europei. L’ESA, l’agenzia spaziale europea, per esempio. O l’EMBO (European Molecular Biology Organization), che è espressione della comunità biologica europea. Ma si potrebbero citare altre decine di esempi.
Ecco, gli scienziati che abitano nei 27 paesi dell’Unione e in altri ancora vivono naturaliter la loro dimensione europea, non meno di Renzo Piano. Non è un caso che la comunità scientifica inglese sia stata e sia tuttora pressoché unanime nel condannare la Brexit. Anzi, nel ritenerla un’operazione insensata, prima ancora che dannosa.
La comunità scientifica europea riprende un’antica tradizione. Chi frequentava le prime università del continente, nel XIII secolo, si sentiva e soprattutto agiva da europeo. Furono gli studenti e i docenti di quegli atenei a “creare” l’Europa, che prima di allora non esisteva. Le terre che oggi abitiamo altro non erano che l’appendice più occidentale dell’Eurasia. Furono quegli studenti e quei docenti a creare una cultura comune nel continente.
Lo stesso vale per la scienza nata (o meglio, rinata) nel Seicento. Come ha scritto più volte Paolo Rossi, uno dei più grandi storici delle idee scientifiche, non esiste un luogo dove nel Seicento è nata la scienza moderna perché quel luogo è l’Europa stessa. Quella che nacque nel Seicento fu una comunità scientifica transnazionale che si percepiva e agiva come tale. Con un sentimento universalistico che è tuttora un valore irrinunciabile nel mondo scientifico. Gli scienziati italiani, francesi, tedeschi, spagnoli e inglesi (sì, anche inglesi) si sentono e sono nei fatti europei.
Come nel Duecento, come nel Seicento e nei secoli successivi oggi la comunità scientifica costituisce lo scheletro che regge il corpo dell’identità europea, in attesa che questo corpo maturi e nasca l’Europa.
Allo stesso modo e per certi versi anche più sono europei i giovani della cosiddetta “generazione Erasmus” che ricordano, appunto, i giovani studenti del Duecento che fondarono le università europee. In senso stretto, la “generazione Erasmus” è costituita dai giovani e dai meno giovani che dal 1987 utilizzano i fondi dell’Unione per passare una parte del loro tempo di studio in una scuola o in università europea diversa da quelle del proprio paese. Il progetto nacque da una proposta di un’italiana, Sofia Corradi, che nel 1969 propose di abbattere le barriere culturali che ciascun paese europeo continuava a elevare nonostante stesse andando avanti il progetto di unità economica. Il progetto fu varato quasi venti anni dopo (nel 1987, appunto) e in tutti questi anni ha consentito a milioni di giovani di spostarsi in un ancora incompiuto spazio europeo dell’educazione. Nel solo 2018 (ultimi dati disponibili) hanno aderito al progetto Erasmus + e si sono spostati per studio da una parte all’altra dell’Unione 852.940 persone, di cui 435.291 studenti universitari. È stato uno scienziato della politica di origine tedesca, Stefan Wolff, a parlare di questi giovani che da quasi trentacinque anni si muovono in Europa come di “generazione Erasmus”.
Ma la “generazione Erasmus” è ben più vasta di quella coinvolta nei progetti Erasmus. Oggi la gran parte dei giovani dell’Unione – decine di milioni – si muove in Europa come nella propria dimensione naturale. Come i tedeschi in Germania prima di Bismarck o gli italiani in Italia prima di Garibaldi e di Cavour.
Questi giovani si sentono e sono europei.
Grandi intellettuali umanisti, intellettuali scienziati naturali, giovani studenti e non. Gli europei ci sono. Quel che manca è l’Europa. Chissà se la rete di connessioni capace di rammendare le città, le periferie e le campagne per creare un ordito organico socialmente ed ecologicamente sostenibile così come la immagina da Renzo Piano non possa favorirne la nascita.