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Il Fondo sovrano norvegese ha deciso di fare a meno del petrolio

Il fondo sovrano norvegese, cioè il fondo per investimenti a controllo statale più grande del mondo ha deciso di fare a meno del petrolio. La notizia, che più che una notizia sarebbe meglio definirla il processo, è di quelle che inevitabilmente avranno delle ripercussioni economiche e politiche. Economiche perché gli investimenti "petroliferi" del fondo ammontavano a circa sei miliardi di dollari, politiche perché segnano una svolta nel Paese, che ora vuole essere il leader nella lotta alla crisi climatica. Per farlo la strada è ancora lunga ed il collegamento tra il combustibile fossile e la Norvegia per ora è ancora molto forte (è tra i maggiori produttori pro-capite al mondo). L'abbiamo definito processo perché la decisione di dismettere tutti gli investimenti è di vecchia data. Il Norges Bank investment aveva già annunciato questo cambiamento di rotta nel 2015 e solamente nel 2020, anno nefasto anche per quanto riguarda gli investimenti petroliferi, le perdite per il fondo sarebbero state superiori ai 10 miliardi di dollari.

Ma quindi la Norvegia non produce più petrolio? Non è proprio così. Dismettere gli investimenti non significa bloccare la produzione, che è ancora uno dei perni dell'economia norvegese. La produzione mondiale di petrolio poi, dal 1980 ad oggi è in continua crescita. Si è passati dai poco più di 60 milioni di barili al giorno fino a superare, negli ultimi due anni, i 100 milioni di barili al giorno. Se un barile equivale a circa 158 litri il calcolo è presto fatto: ogni giorno nel mondo vengono prodotti più di 15 miliardi di litri di petrolio. Quasi il 70% di questa produzione è fatta da solamente 10 Paesi, mentre l’OPEC, cioè l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio fondata nel 1960, produce il 44% del totale (i Paesi membri dell’OPEC sono: Algeria, Angola, Arabia Saudita,Equador, Emirati Arabi Uniti, Iran, Iraq, Kuwait, Libia, Nigeria, Venezuela, Guinea Equatoriale, Repubblica del Congo e Gabon).

Al primo posto tra i produttori mondiali di petrolio ci sono gli Stati Uniti, con più di 19 milioni di barili al giorno, seguiti dall’Arabia Saudita, Russia e Canada. In particolare si nota la discesa nella curva produttiva dell’Arabia Saudita dovuta ai tagli stabiliti dall’OPEC, dal 2018 al 2019, a causa dei quali (o grazie ai quali secondo i punti di vista) la produzione di petrolio dell’Arabia Saudita è diminuita di 609.000 barili al giorno.

Il Brent e il Wti: le differenze

Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire quali sono e tipologie di petrolio. I petroli sono molti e differenziano tra loro anche per caratteristiche chimiche in base al luogo in cui risiedono, ma sostanzialmente se ne prendono in considerazione due, estratti in posti diversi. I due panieri, o benchmark che dir si voglia, sono il Brent e il Wti. Queste due diverse “tipologie” sono quelle che vengono prese come riferimento dagli investitori e/o speculatori di tutto il mondo.

Il Brent è estratto dal Mare del Nord, nel luogo da cui prende il nome. L’estrazione iniziò nel 1976 e ad oggi non è più solamente circostanziata a Brent ma è una miscela di 19 campi petroliferi diversi situati tra Brent, Forties, Oseberg ed Ekofisk. Viene utilizzato principalmente per raffinarlo e ottenere gasolio e benzina. Il Brent è il benchmark di riferimento in particolar modo per l’Europa, l’Africa ed il Medio Oriente.

La produzione di petrolio Brent non è tra le maggiori al mondo, ma rimane uno dei due panieri principali che fa da riferimento internazionale. Come vediamo dal grafico sottostante, che ricalcherà a grandi linee anche quello del Wti, il prezzo del petrolio Brent ha subito negli anni grosse oscillazioni. L’ultima, com’è immaginabile, è accaduta nell’aprile scorso quando si sono raggiunti i minimi storici ed arrivando addirittura ad essere, per la prima volta nella storia, negativo, scendendo fino a meno 37 dollari e 65 centesimi al barile.

Il secondo benchmark fondamentale per le quotazioni del petrolio è il Wti, cioè il West Texas Intermediate. Questa tipologia è prodotta negli Stati Uniti ed è quotata unicamente sul mercato statunitense del NYME. Il Wti è considerato un petrolio più  "sweeter" e "lighter" rispetto al Brent. “Sweeter” cioè più dolce perché contiene meno zolfo, “lighter” perché è meno denso.


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Il fondo sovrano norvegese

Arriviamo però ad un caso specifico che ci fa capre come anche il mercato del petrolio non sia un fattore irreversibile ma, anche alla luce della necessaria e fondamentale transizione verso l’utilizzo di energie rinnovabili, possa prima o poi essere considerata una risorsa non così fondamentale. Stiamo parlando del caso del fondo sovrano norvegese, che è il fondo per investimenti a controllo statale più grande del mondo. Come abbiamo visto, la Norvegia è uno dei pesi con l’estrazione pro-capite di petrolio più imponente al mondo. 

Lo stesso Norges Bank investment management era stato creato ed ha accumulato gran parte della sua ricchezza proprio grazie alla produzione di petrolio. Negli ultimi tempi però, anche a causa del netto calo dei prezzi per barile dello scorso anno, il fondo ha deciso di ridimensionare di molto la sua attività petrolifera. 

A onor del vero, la decisione nel Norges Bank investment era già stata annunciata nel 2015. Una decisione che aveva destato scalpore. All’epoca infatti il fondo, che aveva un valore complessivo di oltre 750 miliardi di euro, aveva annunciato una svolta nel suo modello di affari, passando ad una visione che potremmo definire più ambientalista. Ora l’annuncio è diventato realtà e il Fondo sovrano norvegese ha venduto tutto il suo portfolio di titoli investiti in compagnie che si occupano dell’estrazione del petrolio. 

Una decisione che completa quindi un processo che dura da alcuni anni e che ha l’obiettivo di ridurre l'esposizione del fondo verso settori che hanno caratterizzato gran parte dell’economia norvegese degli ultimi 50 anni. Nel 2020 le perdite dichiarate da Trond Grande, CEO del fondo, sarebbero state superiori ai 10 miliardi di dollari. Una perdita indubbiamente ingente ma ridimensionata dal guadagno di circa 123 miliardi di dollari dovuti alla rivalutazione dei suoi investimenti nel settore tech. L’intero portfolio di investimenti petroliferi, che ammontava a circa 6 miliardi di dollari, è stato quindi interamente venduto dal Fondo sovrano norvegese.

Una politica volta a focalizzare di più l’attenzione ad investimenti etici e sostenibili dal punto di vista ambientale. La scelta del Norges bank investment vorrebbe porre quindi il Paese come leader nel contrasto alla crisi climatica. Una posizione che però fino ad ora poteva sembrare un paradosso. Il cambiamento è iniziato ma non basta certo bloccare questi investimenti per poter dire che la Norvegia ha superato questo paradosso (bloccare gli investimenti non significa bloccare le estrazioni). Se l’obiettivo è quello di rendere il Paese leader nella lotta alla crisi climatica, la strada da fare è ancora lunga, consapevoli che nessun camino inizia senza il primo passo.

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