SCIENZA E RICERCA
Giornata mondiale dell'Ambiente: non sia una "festa", ma una seria riflessione
di Ugo Leone
Il 1972, come ricordavo qualche giorno fa (Il 2020 e due eventi che non si sono verificati) è stato un anno ricco di iniziative tali da alimentare speranze della positiva risoluzione dei problemi dell'ambiente della cui esistenza da qualche anno l'umanità aveva cominciato a prendere atto con crescente preoccupazione e partecipazione.
Tra l' altro fu proprio questo l'anno in cui "nacquero" le grandi conferenze internazionali delle Nazioni Unite su questi problemi. La prima delle quali, la Conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente umano, ebbe luogo in quel 1972 a Stoccolma (seguita, poi, da quelle di Rio de Janeiro 1992 e Johannesburg 2002).
Due anni prima, il 22 aprile, c'era stato il primo Earth day, la Giornata della Terra, del quale quest'anno è stato ricordato il 50° anniversario. E due anni dopo, il 5 giugno 1974, il World Environment Day, Giornata mondiale dell’ambiente. Evento proclamato il 15 dicembre 1972 dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite in occasione dell'istituzione del Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente nell’ambito del quale era nata la conferenza di Stoccolma.
Quell’anno il tema o, meglio, lo slogan dell’iniziativa fu Only One Earth (un sola Terra). Era un avvertimento che invitava a tener conto delle preoccupazioni alimentate dai rapporti del MIT al Club di Roma riassumibili nella crescente consapevolezza di vivere (in tanti e in sempre di più) su un pianeta non espandibile. Il quale, come si disse in anni successivi, è l’unico che abbiamo e che essendoci stato dato in prestito dalle generazioni successive alla nostra, dovrebbe essere loro restituito per lo meno nelle condizioni in cui l’abbiamo avuto.
Abbastanza coerentemente con questo principio i temi che hanno caratterizzato le precedenti giornate hanno sottolineato la preoccupante presenza di problemi la cui mancata soluzione mette seriamente in discussione la sopravvivenza dell’umanità. Per esempio, negli ultimi anni si è parlato di scomparsa delle foreste, di inquinamento marino, di lotta alla plastica, del mutamento climatico…
Quest’anno tocca alla biodiversità e non c’è dubbio che questo tema sarà trattato (come lo sarebbe stato qualunque altro si fosse scelto) riflettendo sul “nuovo” rapporto con la natura che sembrerebbe derivato dal lungo e diffuso periodo di quarantena che ha tenuto confinati in casa milioni di cittadini.
Ma quando si parla di biodiversità non si può trascurare che il problema ha radici ben più lontane. Né si dovrebbe trascurare che quando si parla di “sesta estinzione di massa” il tema non riguarda immediatamente la scomparsa del genere umano bensì la progressiva incalzante scomparsa di una eccezionale quantità di specie e di esseri appartenenti, appunto, alla biodiversità.
Telmo Pievani (Tutte le minacce di un’altra estinzione “La lettura”, 24 maggio 2020) ricorda Richard Leakey e Roger Lewin (La sesta estinzione. La vita sulla Terra e il futuro del genere umano, Bollati Boringhieri 2015) i quali già venticinque anni fa, consideravano la distruzione degli ecosistemi alla base di una crisi paragonabile alle peggiori catastrofi del passato.
Pievani ricorda che queste considerazioni che ebbero fortuna inizialmente solo tra i movimenti ambientalisti, furono presto suffragate anche dai dati statistici. “Prima la rivista “Nature” nel 2011 e tre anni dopo “Science” hanno stabilito con tutta la loro autorevolezza che la sesta estinzione di massa è in effetti cominciata.” La previsione di Leakey e Lewinb era che entro il 2025 la Terra avrebbe perso metà della biodiversità globale. E, commenta Pievani, “ci sono andati vicino: più di 350 specie di vertebrati terrestri si sono estinte dal Cinquecento a oggi e moltissime altre (un terzo del totale) sono in via di estinzione.” È a questo che bisognerebbe cercare di porre un freno.
Porre un freno. Perché, come conclude Pievani, l’estinzione è senza ritorno: il danno è per sempre e lo paghiamo anche noi. Dalla biodiversità dipendono infatti servizi essenziali per il nostro benessere come la dispersione dei semi, la fertilità dei suoli, la decomposizione, la qualità dell’acqua e dell’aria, senza contare che tre quarti delle colture alimentari nel mondo dipendono dagli insetti impollinatori”.
È in questo contesto che il 5 giugno si celebrerà la Giornata mondiale dell’ambiente del 2020. Quanti si rendono conto in modo da darle un senso non solo “festosamente” celebrativo, ma seriamente preoccupato e impegnato a cercare di frenare, come dicevo, una tendenza il cui risultati possono essere paragonati alle peggiori catastrofi del passato? Quanti? E chi?
Ambiente. Ma di che parliamo?
Parliamo di uno spazio “naturalmente” percorso e occupato da esseri umani per diecine e diecine di migliaia di anni. Uno spazio che circa dodicimila anni fa è stato “territorializzato” con la rivoluzione agricola che ha trasformato raccoglitori e cacciatori in agricoltori e allevatori. Una trasformazione che da allora consente di parlare di ambiente. Di usare questo termine che, dal participio del verbo latino ambire, significa ciò che sta intorno. Quello spazio/territorio/ambiente è stato essenzialmente “naturale”. Fino a quando le posizioni si sono ribaltate e l’ambiente che è sempre “ciò che sta intorno” è stato sempre meno natura e sempre più, in seguito al crescente inurbamento della crescente popolazione terrestre, quello costruito. E costruito sottraendo spazio all’ecosistema naturale e alle sue specie.
Annotazione, questa, con la quale non intendo assolutamente auspicare un ritorno alla terra e agli insediamenti rurali (peraltro abbastanza irrecuperabili). Ma solo realisticamente indurre a riflettere che se non si interviene drasticamente a porre i freni dei quali dicevo è verosimile che di Giornate dell’ambiente resteranno non molti altri 5 giugno per celebrarle.