Donald Trump alla Casa Bianca con Giuseppe Conte
Bisogna ammettere che interpretare gli umori e le manovre di politica commerciale del presidente Donald Trump non è semplice. Fino a pochi giorni fa, il mondo si trovava sull’orlo di una guerra commerciale di vasta portata. La sua decisione di aumentare i dazi su acciaio e alluminio prima, e su un’ampia gamma di altri prodotti europei e cinesi poi, ha da subito innescato una serie di proteste e contro-reazioni da parte dell’Unione europea e della Cina stesse, volte ad imporre, o ad aumentare, i dazi sull’importazione di un altrettanto ampia serie di prodotti americani. È notizia di pochi giorni fa l’annuncio congiunto di Trump e Junker su una serie di accordi commerciali volti a favorire il libero ed equo scambio tra USA e UE, inclusivi di una eventuale revisione proprio dei dazi su acciaio e alluminio in cambio dell’acquisto di prodotti agricoli e gas naturale liquefatto da parte dell’Unione europea.
Proviamo a fare il punto su tutta la vicenda relativa ai dazi, cercando di connetterla alla teoria economica. Partiamo dal fatto che gli Stati Uniti sono un paese di grande dimensione: dunque, ogni sua decisione di politica commerciale ha un impatto sui prezzi internazionali e sulle quantità di beni e servizi scambiate a livello globale. In linea del tutto teorica, la decisione di Trump di imporre dei dazi su alcune tipologie di beni, o settori, trova un certo supporto nella teoria economica. Generalmente, le politiche tariffarie di natura protezionistica, quali i dazi, vengono adottate per tre principali motivi. Primo, perché il commercio internazionale, sebbene apporti benefici economici aggregati, genera comunque “vincitori” e “vinti” all’interno dei singoli paesi, ossia influisce sulla distribuzione del reddito, andando a ridurre il potere d’acquisto di alcune particolari categorie di lavoratori o di classi sociali, tipicamente quelle che risultano più esposte alla concorrenza internazionale. In questo scenario si inserisce il ruolo delle lobby dei grandi settori industriali, spesso finanziatrici delle campagne elettorali presidenziali americane, interessate dunque a proteggere il proprio settore dalla concorrenza estera, nonostante questi stessi settori spesso non rappresentino fonti di vantaggio comparato per il paese. Secondo, perché l’imposizione di un dazio alle importazioni ha un effetto sulle ragioni di scambio, ossia sul rapporto tra il prezzo dei beni esportati e il prezzo dei beni importati da un paese. Andando ad aumentare l’offerta relativa mondiale del bene importato, e riducendone al contempo la domanda relativa, il dazio induce un aumento (o meglio, un miglioramento) delle ragioni di scambio del paese che lo impone a discapito di quelle del resto del mondo. Tutto questo si traduce in un aumento delle possibilità di consumo (e quindi di benessere collettivo) per il paese, che ora può vendere gli stessi beni sul mercato internazionale, ma a prezzi relativi più elevati, e quindi può permettersi di pagare un maggiori numero di beni da importazione rispetto a prima. Terzo, perché un governo può avere la temporanea necessità di proteggere un’industria nascente, ovvero un settore relativamente giovane e promettente, ma ancora non sufficientemente forte da competere sui mercati internazionali. Se storicamente tali politiche hanno funzionato nel caso di economie sviluppate, quali la Germania e gli USA nel XIX secolo, o il Giappone fino agli anni ’70, al giorno d’oggi si tende ad associarle ai paesi in via di sviluppo.
Tuttavia, la teoria economica fornisce anche altrettante motivazioni a favore del libero scambio, e dunque contro l’imposizione di dazi o contingentamenti alle importazioni. Innanzitutto, la teoria del dazio ottimo suggerisce che gli effetti netti positivi di un dazio sulle ragioni di scambio e sul benessere collettivo valgono solo se il dazio è sufficientemente piccolo. In altre parole, per un grande paese, è dimostrato che esista un livello di dazio ottimo che massimizza il benessere nazionale, oltre il quale non solo i costi (derivanti dalla distorsione dei consumi interni) superano i benefici, ma esiste un livello, definito dazio proibitivo, in grado di inibire totalmente lo scambio di beni e servizi. Secondo, la storia del commercio internazionale, sin dai tempi di Adam Smith, ha dimostrato che il libero commercio apporta più benefici che costi. Certo, questo non vuol dire che i benefici siano eguali per tutti, ma anziché proporre misure restrittive al commercio, per i governi sarebbe più efficiente proporre politiche di supporto ai redditi di coloro che risultano maggiormente danneggiati dallo stesso. Terzo, le politiche commerciali protezionistiche non sono mai adottate in maniera unilaterale. Il rischio di incorrere in una guerra commerciale è elevato, con conseguenze negative per tutti i paesi in ballo. Le guerre protezionistiche sono un po’ come il dilemma del prigioniero nella teoria dei giochi: due paesi, non potendo cooperare, sceglieranno di proteggere le proprie importazioni, incappando entrambi in perdite di benessere, anziché scegliere di favorire il libero scambio. Nel nostro caso specifico, questo terzo aspetto rappresenta sicuramente quello più preoccupante, visto che i giocatori in ballo rappresentano le tre maggiori economie al mondo, per non aggiungere anche Canada e Messico: da una guerra commerciale, tutti ne sarebbero usciti più poveri rispetto a prima.
Tuttavia, pare che questo rischio sia ad oggi scongiurato, almeno per la maggior parte dei paesi sopra citati, mentre resta ancora incerta la situazione riguardante i rapporti USA-Cina. L’adozione di politiche commerciali protezionistiche così aggressive sembra poi ulteriormente ingiustificato dal fatto che gli Stati Uniti, negli ultimi anni, si sono assestati su ritmi di crescita economica molto sostenuti, con un forte aumento dell’occupazione, a meno che Trump non sperasse con l’aumento dei dazi di colmare il crescente deficit di bilancio legato al calo delle entrate fiscali successive alla sua recente riforma fiscale.
Un ultimo aspetto riguarda le potenziali conseguenze per le esportazioni e gli investimenti esteri delle imprese europee e italiane. I dazi su acciaio e alluminio possono rappresentare una potenziale fonte di svantaggio competitivo per le imprese europee, sia in termini di export diretto che in termini di export di beni che utilizzano intensivamente tali materie prime (si pensi, ad esempio, ai macchinari e alle apparecchiature, che rappresentano i beni maggiorente esportati dalle imprese italiane negli USA). Tuttavia, i dati Istat sui volumi di export mostrano un costante incremento del valore delle esportazioni dal 2015 al 2017 (con un record di saldo di bilancia commerciale pari a circa 25 miliardi di euro), ma anche tra gennaio-aprile 2017 e gennaio-aprile 2018. Se è vero che Trump ha intenzione di rinegoziare l’adozione, o l’entità, di tali dazi, le esportazioni italiane non potranno che beneficiarne. Gli Stati Uniti però non rappresentano solo una dei principali mercati di sbocco per le esportazioni europee, ma anche il principale attrattore di investimenti diretti esteri (IDE). Gli IDE rappresentano investimenti operati da imprese estere (tipicamente le multinazionali) con lo scopo di instaurare un interesse di lungo periodo nel paese destinatario, generalmente di natura produttiva. L’imposizione dei dazi da parte dell’amministrazione Trump, e il conseguente rischio di guerra commerciale, può indurre le imprese europee (e italiane) in USA a spostare la propria produzione in altri paesi, magari avvicinandola all’Europa (o all’Italia stessa), in un’ottica di re-shoringo back-shoring? Ad oggi risulta difficile rispondere a questa domanda, per tre motivi. Primo, come scritto in apertura, gli annunci di Trump sono imprevedibili e spesso contradditori. Secondo, gli IDE operati negli USA non perseguono motivazioni legate alla riduzione del costo di produzione, piuttosto motivazioni legate alla penetrazione commerciale di un grande bacino di consumatori (market seeking) o all’accesso a tecnologie e risorse strategiche (brevetti, marchi, risorse umane) spesso non reperibili nel paese di origine (strategic asset seeking). Dunque, tali investimenti sono meno sensibili ad aumenti dei dazi. Il caso del settore automobilistico è emblematico: difficile convincere i consumatori americani a non acquistare più automobili europee, anche se più care, così come è difficile per una grande multinazionale europea produttrice di automobili rinunciare al mercato più redditizio di tutti. Certo, imprese europee operanti negli USA e importatrici di acciaio e alluminio potrebbero vedere i propri costi di produzione aumentare: tuttavia, prima di smantellare impianti di produzione o cedere attività occorre che tali incrementi siano molto consistenti a fronte dei ricavi e che per tali imprese non sia possibile reperire le materie prime altrove, per esempio dal vicino e più efficiente Canada. Terzo, il fenomeno del re-shoring, o back-shoring, risulta ancora modesto e spesso non solo legato a motivazioni di costo (del lavoro, dell’energia, della logistica, dunque non solo dell’import), ma anche a strategie di marketing (per sfruttare cioè l’effetto del “made in”), alla scarsa qualità dei servizi offerti nei paesi di destinazione (tipicamente Cina ed Est Europa), o ai tempi di consegna delle merci e dei servizi. Dunque, nonostante per gli USA il rischio di ri-localizzazione non sia nullo, sembrerebbe difficile ipotizzare una larga manovra di disinvestimento da parte delle imprese europee in USA, a meno di un forte deterioramento delle relazioni internazionali.