SOCIETÀ

La guerra dei sordi

Oggi Gaza è un cumulo di macerie tra migliaia di corpi senza più vita, un numero raccapricciante di vittime, soprattutto civili, soprattutto bambini e donne, ben oltre i venticinquemila, ma c’è chi parla di oltre trentamila, contando i dispersi. E chi ce l’ha ancora una vita, chissà per quanto ancora, non ha più alcun diritto: né di “stare”, né di farsi curare, né di nutrirsi, né di scaldarsi, né di fuggire, né di alzare le braccia in segno di resa, perché nessuno li vuole vivi, nemmeno come prigionieri, nemmeno i civili, la stragrande maggioranza, che nulla hanno a che fare con questa guerra. Pensiamo soltanto alle bombe sganciate da Israele in questi mesi: qualcosa come trentamila ordigni (la stima è per difetto), pari alla potenza distruttiva di due ordigni nucleari, in un territorio minuscolo, una striscia di terra lunga 41 chilometri e larga mediamente 9. La tecnologia satellitare ha già rilevato che si tratta dei bombardamenti più intensi della storia: più di quanto sta accadendo in Ucraina o in Siria, ma anche più di quanto sia avvenuto durante l’intera Seconda Guerra Mondiale. L’Onu e tutte le principali organizzazioni internazionali continuano a lanciare appelli disperati: la situazione umanitaria è vergognosa e continua a scivolare verso un abisso di proporzioni incalcolabili, senza precedenti. Scrive l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr): «Attualmente ogni singola persona a Gaza soffre la fame, un quarto della popolazione muore di fame e lotta per trovare cibo e acqua potabile. La carestia è imminente. Le donne incinte non ricevono un’alimentazione e un’assistenza sanitaria adeguate, mettendo a rischio la loro vita. Inoltre, tutti i bambini sotto i cinque anni – si calcola siano 335mila – sono ad alto rischio di malnutrizione grave poiché il rischio di condizioni di carestia continua ad aumentare: un’intera generazione è ora in pericolo di soffrire di arresto della crescita». Le parole del capo dell’Ufficio dell’alto commissariato per i diritti umani nei territori palestinesi occupati, Ajith Sunghay, non lasciano spazio a interpretazioni di parte: «È una pentola a pressione, nel mezzo del caos più totale: terribile la situazione umanitaria, le carenze, la paura e la rabbia dilaganti». Ma l’accusa dell’Onu è diretta, precisa: «È senza precedenti che un’intera popolazione civile soffra la fame in modo così completo e rapido. Israele sta distruggendo il sistema alimentare di Gaza e sta usando il cibo come arma contro il popolo palestinese. Sta distruggendo e bloccando l’accesso ai terreni agricoli e al mare. Rapporti recenti affermano che da quando l’offensiva di terra dell'esercito israeliano è iniziata, il 27 ottobre, circa il 22% dei terreni agricoli, compresi frutteti, serre e terreni agricoli nel nord di Gaza, è stato raso al suolo dalle forze israeliane. La maggior parte dei panifici non è operativa, a causa della mancanza di carburante, acqua e farina di frumento e di danni strutturali. Il bestiame muore di fame e non è in grado di fornire cibo o di essere una fonte di cibo. Nel frattempo, l'accesso all'acqua potabile continua a diminuire mentre il sistema sanitario è collassato a causa della distruzione diffusa degli ospedali, aumentando significativamente la diffusione delle malattie trasmissibili. Israele ha inoltre distrutto circa il 70% della flotta peschereccia di Gaza. Oltre ad aver distrutto più del 60% delle case palestinesi a Gaza, colpendo direttamente la capacità di cucinare qualsiasi cibo, e provocando un domicidio attraverso la distruzione di massa delle abitazioni, rendendo il territorio inabitabile». Si possono usare parole più chiare? E forse è utile ribadire che non c’è orrore (come l’inaccettabile, feroce, spietato attacco perpetrato dai terroristi di Hamas il 7 ottobre scorso: 1.139 vittime, la più giovane di appena 10 mesi uccisa a colpi d’arma da fuoco nel Kibbutz Beeri) che possa giustificarne un altro, di pari o superiore portata.

Oggi Palestina è un impasto di distruzione, rancore e odio, senza tregua, senza soluzione. Israele, o meglio il governo che in questa drammatica fase storica è alla guida di Israele, non ha in mente alcuna via d’uscita, non ha visione del “dopo”: l’unico proposito dichiarato è annientare Hamas e tutti i suoi seguaci, non importa a quale prezzo di vite civili. Quanto ai palestinesi, che se ne vadano altrove: «Nei paesi pro Hamas», come teorizza Nikky Haley, la rivale “moderata” repubblicana di Donald Trump, oppure in un’isola artificiale costruita ad hoc al largo di Gaza, come ipotizzato dal ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz. Ovunque, fuorché lì dove sono ora, tra quelle macerie che per loro sono ancora casa, terra, radici. Lontanissimo dal realizzarsi è il sogno del segretario di stato americano Antony Blinken, che da mesi vaga in cerca di sostegno internazionale all’opzione dei due stati. Mentre l’attuale primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, si permette il lusso di alzare la voce contro gli Stati Uniti, il suo alleato più fedele e più generoso (oltre 3,3 miliardi di dollari l’anno per “assistenza estera”), e promette che la guerra durerà almeno un altro anno, fino al 2025: «Non ci fermeremo. Sarà una guerra lunga che non è vicina alla fine. E finché sarò io il premier vi garantisco che non nascerà uno stato palestinese».

Il gioco d’azzardo di Netanyahu

Benjamin Netanyahu è, ancora una volta, una delle figure chiave per comprendere, anche in prospettiva, lo scenario del conflitto israelo-palestinese. Sono in molti a ritenere che Bibi, sempre più braccato dai parenti degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas (lui stesso l’ha definita «una tragedia insopportabile») e ora anche dai familiari dei soldati uccisi nei combattimenti (il conteggio ufficiale dice 221), non stia lottando per la sicurezza della sua nazione, ma per la sua personale sopravvivenza politica. Rincorso com’è da quattro procedimenti giudiziari, colpevole di aver attentato al principio di democrazia portando Israele sull’orlo di una crisi istituzionale (l’aver tentato di silenziare la magistratura in una legge di “riforma” della giustizia, poi bloccata dalla Corte Suprema) e di aver assecondato passivamente tutte le smanie della destra più estrema (una su tutte: l’incoraggiamento all’espansione, con la forza, degli insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata), Netanyahu si gioca oggi la carta della fermezza per non mandare in frantumi la coalizione di estrema destra che lo sostiene, l’ultima sua chance per restare in sella. È la guerra a tenerlo ancora in piedi. Non ha più il sostegno dell’elettorato (un sondaggio condotto dall’università israeliana Bar-Ilan a novembre stimava al 4% la fiducia in Netanyahu) né delle altre formazioni politiche, che ben conoscono l’astuzia e la ferocia del primo ministro più longevo che Israele abbia mai avuto. E che ora si permette anche di “resistere” alle pressioni del presidente americano Biden che chiede, al pari della comunità internazionale, una ragionevole via d’uscita. Un’intransigenza che peraltro non giova affatto alla già traballante immagine pubblica di Biden, che di tutto ha bisogno tranne essere “preso a schiaffi” da Netanyahu. Scriveva pochi giorni fa Thomas L. Friedman, notista politico del New York Times: «Sembra che il presidente Biden correrà in due gare quest’anno: una in America contro Donald Trump e una in Israele contro Benjamin Netanyahu. Forse Trump potrebbe nominare Netanyahu suo compagno di corsa e potremmo risparmiare un sacco di tempo. Il sostegno di Biden al leader israeliano gli sta costando la sua base progressista, mentre Netanyahu si sta ora rivoltando contro Biden in modi che potrebbero far guadagnare a Trump un nuovo sostegno da parte degli ebrei americani di destra. Netanyahu, nonostante il disastroso attacco di Hamas del 7 ottobre che si è verificato sotto il suo controllo, ha intenzione di impostare la sua campagna per rimanere al potere con questo argomento: gli americani e gli arabi vogliono forzare uno stato palestinese nella gola di Israele, e io sono l’unico leader israeliano abbastanza forte da resistergli. Quindi votate per me, anche se ho sbagliato il 7 ottobre e la guerra di Gaza non sta andando poi così bene. Solo io posso proteggervi dai piani di Biden per far sì che Gaza diventi parte di uno stato palestinese, insieme alla Cisgiordania, governato da un’Autorità palestinese trasformata». Intanto il malumore cresce anche in Israele: oltre la metà del paese è favorevole al piano di pace proposto dagli Stati Uniti (e respinto da Netanyahu). Una prima mozione di sfiducia contro il premier (presentata dai Laburisti) è stata respinta, ma nulla esclude che ne arrivino altre. Mentre il Jerusalem Postrivela che fonti interne del Likud, il partito di Netanyahu, ritengono che l’era di Bibi è ormai arrivata alle battute finali.

L’estrema destra israeliana non vuole accordi

Dunque siamo allo stallo. Netanyahu sa perfettamente che la guerra non potrà essere portata avanti all’infinito, ma spera di resistere a capo del governo fino all’elezione (possibile) di Donald Trump che potrebbe restituirgli quel sostegno che ormai sta cominciando a venir meno (ma attenzione, le presidenziali statunitensi saranno il 5 novembre: altri 7 mesi di guerra a Gaza?). Peraltro, nella terrificante ipotesi di finire per delegare le sorti dell’equilibrio geopolitico mondiale a figure di questo calibro (Trump-Putin-Netanyahu). Biden, invece, tentenna perché non vorrebbe arrivare a “strappare” con l’alleato forte in Medio Oriente in una situazione così delicata nel contesto internazionale, ma questa sua “debolezza” non è per nulla apprezzata dalla base del suo elettorato, e questo gli potrebbe essere fatale nella prossima elezione (un conflitto di questa portata, in un anno elettorale, è la peggior situazione che un presidente uscente possa trovarsi ad affrontare). Daniel Levy, un ex negoziatore di pace israeliano, ha sostenuto: «Washington dovrebbe sfidare Israele a presentare una proposta su come garantire l’uguaglianza, l’affrancamento e altri diritti civili a tutti coloro che vivono sotto il suo controllo». E la comunità internazionale dimostra di saper denunciare, ma non intervenire. Anche perché nel frattempo il conflitto s’è pericolosamente allargato, coinvolgendo in modo più o meno diretto il Libano, l’Iran, lo Yemen, con i ribelli Houthi che con i loro attacchi alle navi civili nel Mar Rosso stanno mettendo in grandissima difficoltà il commercio marittimo mondiale. Come uscirne? Per gradi, certo, ma finché l’estrema destra avrà voce all’interno del governo israeliano a nulla si arriverà. Come hanno ribadito poche ore fa Il ministro della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben-Gvir, e quello delle Finanze, Bezalel Smotrich, che si oppongono a qualsiasi accordo con Hamas che possa portare a un cessate il fuoco: «Fermare la guerra in un momento così delicato potrebbe mettere in pericolo l’intera operazione e comportare costi enormi nella Striscia di Gaza e su altri fronti», ha sostenuto Smotrich. Mentre Ben-Gvir si è detto «a favore della restituzione degli ostaggi, ma contro un accordo terribile».

Parole che aumentano lo sgomento per chi osserva da lontano la tragedia di Gaza. E la rabbia di chi la guarda da vicino, di chi la vive ogni giorno sulla propria pelle, come la giornalista palestinese Afaf Al-Najjar, che sulle colonne di Al Jazeera ha scritto, domenica scorsa: «Quasi 80 anni fa, il mondo si era impegnato a non permettere che gli orrori dell’Olocausto si ripetessero. Eppure, si ripetono oggi a Gaza. I racconti che abbiamo sentito sui ghetti e sui campi di concentramento riecheggiano oggi proprio a Gaza, dove 2,3 milioni di noi sono stipati in aree sempre più piccole e costretti a sopportare condizioni invivibili. Quando si mettono fianco a fianco i resoconti delle atrocità che entrambi questi popoli hanno affrontato, si vedrà che la storia si sta ripetendo, solo che questa volta il mondo intero sta guardando e non sta facendo nulla per fermarla. Il voto solenne del “mai più”, nato dalle ceneri dell’Olocausto, aveva lo scopo di impedire il ripetersi dei suoi orrori. L’impegno inciso nella coscienza collettiva del mondo era una promessa ai popoli vulnerabili di tutto il mondo che sarebbero stati protetti, che i loro aguzzini sarebbero stati fermati.In questi tempi bui, il “mai più” non può rimanere una semplice frase di ricordo. Deve diventare un invito all’azione. Il mondo deve mantenere l’impegno di difendere la dignità e i diritti di tutte le persone, in ogni angolo del mondo, e impedire che si verifichi un altro genocidio».

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