Edith Bruck. Foto: Tania/Contrasto
Edith Bruck ha novant’anni, è ungherese e di romanzi ne ha pubblicati parecchi, tutti in italiano. Il primo risale al 1959, Chi ti ama così, in cui raccontava l’infanzia in riva al Tibisco e l’esperienza traumatica del lager.
In quest’ultimo, Il pane perduto (La nave di Teseo) ch’è breve, veloce e appuntito, l’autrice torna alla sua vita, sessantadue anni dopo la prima volta, come spinta dalla necessità di ricordare ancora. Nella nota al testo che chiude l’opera si legge: “Al primo segnale di un’improvvisa amnesia, che per chiunque sarebbe stata normale, anche per l’età, io restai senza fiato. Mi mancava l’ossigeno, come se stessi perdendo la vita stessa”.
Ecco, in questo romanzo di Bruck due sono le necessità che traspaiono, inevitabilmente mescolate, a chi s’appresta a leggerlo: il bisogno dell’autrice di raccontare, per non dimenticare, per precisare, perché certe ferite possono solo cicatrizzare ma dolere, mute, per sempre, e l’esigenza di narrare perché la scrittura è un’urgenza, sempre, l’unico modo che lo scrittore ha di stare al mondo.
Ad esempio, una volta tornata al paese dopo le torture del lager, la protagonista, Ditke, sente di non poter assecondare la sorella Judit, che vorrebbe che si spostassero insieme a Budapest con l’intenzione, poi, di raggiungere la Palestina:
“Vieni con me” insisteva a lungo per convincermi. “Qui non c’è posto per noi, che vuoi fare?”
“Scrivere.”
“Scrivere che cosa? Che ti metti in testa? A chi scrivi?”
“A me.”
“Impareremo un mestiere, la lingua dei nostri Avi, saremo a casa nostra, la Terra Promessa dal Signore a Mosè.”
“Ho già sentito questa favola.”
“Non possiamo separarci, io e te siamo una sola rinate insieme.”
“No, siamo in due e sto studiando il pianoforte da Sara e ho cominciato anche a scrivere e mi sto sgonfiando.”
“Obbedisci, sei ancora una mocciosa, stai così bene da Sara?”
“Non sto bene da nessuna parte, ma non obbedisco più a nessuno”.
In questo breve, disincantato dialogo si percepisce la contraddizione insita in ogni legame e in ogni scelta e insieme il desiderio inesausto e doveroso di cercare chi noi siamo, tanto più se la libertà è stata, per un tratto, violentemente mutilata.
Nell’accostamento di frammenti di vita (novant’anni si racconterebbero in ben più di 120 pagine, che è la misura de Il pane perduto, e al contempo, forse, ne potrebbero bastare per paradosso anche di meno) Bruck scrive un romanzo autobiografico ch’è quanto di più lontano si possa immaginare dal diario ma pure dalla ricostruzione illustrativa, al punto che di cosa si stia parlando non è, per l’autrice, necessario spiegarlo.
Ne Il pane perduto risuona l’eco della verità. Che siano le pagnotte impastate e lasciate lì per volontà altrui, la disumana potenza dell’istinto di sopravvivenza, la sopraffazione dell’amore quand’è sbagliato, o la ricerca della salvezza e la possibilità, grandiosa, di trasferire tutto questo alle parole. Che non necessariamente, anzi, devono essere nella lingua che per prima abbiamo imparato, ma possono essere invece il frutto di una scelta.
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