SOCIETÀ

Il Kenya potrebbe essere (suo malgrado) la nuova meta dei rifiuti targati USA

È universalmente noto che la plastica, se non correttamente smaltita e riciclata, è un pericolo per gli ecosistemi. È altrettanto noto, però, che dal 1960 in poi la produzione globale di prodotti in plastica è costantemente aumentata, nonostante le crescenti preoccupazioni ambientaliste: questo aumento, infatti, ha coinciso con una sempre maggiore quantità di rifiuti plastici abbandonati in ambienti naturali, che hanno determinato innumerevoli disastri ambientali tristemente noti al pubblico (si pensi soltanto alla grande isola galleggiante nell’Oceano Pacifico, il cosiddetto Pacific Trash Vortex).

A questo quadro, già di per sé non consolante, si aggiunge ora un nuovo tassello: il New York Times, poco tempo fa, ha pubblicato un’inchiesta che, partendo dall’analisi di alcuni documenti riservati, mostrerebbe come gli Stati Uniti – e in particolare di alcune grandi compagnie petrolifere facenti parte dell’American Chemistry Council –, per assicurarsi la possibilità di esportare rifiuti petrolchimici in Kenya, stiano esercitando attività di lobbying sui governanti del Kenya, nel tentativo di convincerli ad allentare le misure di protezione ambientale adottate. Dallo scorso 8 luglio, infatti, sono in corso trattative tra Stati Uniti e Kenya in vista della stipulazione di un accordo di libero scambio tra i due paesi. La notizia non è di poco conto: i rapporti commerciali fra i due Stati sono da tempo consolidati, e gli USA tengono molto a questa alleanza in virtù del ruolo chiave che il Kenya ricopre nella regione, essendo membro di spicco della Comunità dell’Africa Orientale (Eastern African Community) e una delle più importanti economie del continente.

L’interesse americano per il mercato dei rifiuti africano si è intensificato da quando, nel 2018, la Cina ha sospeso l’importazione di rifiuti provenienti dai paesi occidentali, creando così in molti di questi, Stati Uniti compresi, gravi problemi di gestione. Nel 2019, per di più, è stata aggiornata e implementata la Convenzione di Basilea, un accordo internazionale mirante a regolamentare i movimenti transnazionali (soprattutto verso paesi in via di sviluppo) di rifiuti plastici, riconosciuti ora dal documento come “rifiuti pericolosi” per i loro effetti deleteri sull’ambiente. Ecco perché ci si è rivolti a quei paesi emergenti che, in mancanza di opportunità più “pulite”, accettano i rifiuti provenienti dalle economie più avanzate: il Kenya, non a caso, è fra questi.

Tuttavia, dopo anni di continuo aumento di rifiuti da smaltire, il paese è ormai allo stremo: il paesaggio è letteralmente invaso dalla plastica, che crea disagi e danni ambientali sempre più estesi. Per far fronte a questa situazione, già nel 2017 il presidente Uhuru Kenyatta aveva stabilito, accogliendo un’iniziativa popolare lanciata dal giovane attivista James Wakibia, il bando delle buste di plastica monouso, misura già adottata da altri paesi africani, che ha sì migliorato, ma non risolto completamente il problema.

In questo contesto, le pressioni esercitate dai lobbyisti di Big Oil denunciate dal New York Times costituiscono una seria preoccupazione per gli ambientalisti kenyoti: protezione dell’ambiente e interessi economici, in questo caso, confliggono apertamente. Il presidente Kenyatta, infatti, si trova in una posizione svantaggiosa nella trattativa con gli USA, poiché l’economia del Kenya non può permettersi di mettere a repentaglio l’alleanza commerciale con gli States; le compagnie petrolifere ne sono consapevoli, e sfruttano tale vantaggio per portare avanti i propri interessi. La prospettiva di esportare i rifiuti in Kenya è infatti allettante, ai loro occhi, per due motivi: da una parte perché, dopo il vertiginoso calo dei prezzi del petrolio causato dalla pandemia, compagnie come Shell, Exxon Mobil e Chevron hanno bisogno di continuare a inondare il mercato di nuovi prodotti di origine petrolchimica per non veder crollare le proprie finanze; dall’altra perché il Kenya potrebbe rivelarsi una porta d’accesso per commerciare rifiuti (e non solo) con l’intero continente africano.

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