CULTURA

L’arte come rumore del mondo

La Biennale veneziana d’arte ripropone per il 2015 il suo format consueto, quello di formidabile contenitore d’opere, artisti, suoni, persone e personaggi, luoghi, occhi, oggetti, parole. E nel groviglio di stimoli che escono da quel contenitore non ci si può esimere dallo scegliere, soprattutto in questa edizione. È necessario più che mai fermare i propri passi e ascoltare, guardare, leggere. Magari sentirla, quest’arte. Non è possibile rimanere sordi, questa volta, perché neanche all’artista è consentito restare in silenzio, “non può più rivendicare una distanza dal proprio contesto culturale”. A intimare il divieto di estraniamento è lo stesso curatore della Mostra veneziana, Okwi Enwezor, perché anche se “L’arte non ha obblighi”, questa Biennale deve affermarsi come “qualcosa che accade nel mondo e ne porta con sé rumore, inquinamento, polvere e decadenza”.

Ed è così che gli artisti, più di un centinaio solo alle Corderie e nelle Artiglierie dell’Arsenale veneziano, raccontano la propria esperienza personale, o quella di un popolo, di un’etnia, di minoranze, di maggioranze inascoltate, o di moltitudini silenziose. Le loro storie si aggrovigliano negli spazi immensi dell’Arsenale, trasformati in un labirinto senza percorsi definiti ma con infinite tappe che invitano alla riflessione. Immagini e suoni, distribuiti, nascosti o rivelati da partizioni, creano corridoi, stanze, piazze, aree cellulari riempite dai lavori dei singoli artisti, che così fianco a fianco si mostrano spesso senza toccarsi. Bisogna davvero scegliere dove fermarsi, cosa approfondire, cosa ascoltare, come muoversi. Un po’ di tempo ci vuole davvero.

Neon fucsia e blu elettrico intrappolano la curiosità, rilanciando messaggi di dolore e morte (Bruce Nauman); sui muri bianchi e lisci di un corridoio pieno di luci s’incastrano crudeli aggeggi metallici, catene e armi d’acciaio colato (Melvin Edwards), motoseghe nere di pece che pendono a grappoli dal soffitto (Monica Bonvicini). Poi, d’improvviso lo spazio si apre su macerie dolorose, di pietra, tessuto e rottami; ma sono rosa, azzurre, verdi, gialle, viola, bianche, luminose e vitali (Katharina Grosse). Ancora il colore, vibrante, fluorescente, di tele stampate a grandi lettere nere veicola messaggi di solitudine e coraggio, destini oscuri e paure all’unisono con voci e  musica (Lili Reynaud Dewar).

Il suono lega gli spazi, richiamando il visitatore dietro ad ogni angolo. Nel buio, lo scatto regolare di un proiettore di diapositive racconta una passato svedese al femminile, e collettivo (Petra Bauer). Lo stridore, gli spari, le urla umane, gli uccelli impazziti, i motori: forte, fortissimo; è una videoinstallazione di Chantal Akerman, forse, l’opera più coinvolgente delle Corderie, più fortemente penetrante perché multisensoriale, amplificata in volume e luminosità: sugli schermi nella stanza buia, uno dopo l’altro, si susseguono paesaggi aridi e spopolati che corrono veloci, all’altezza di un’automobile, sovrastati dal frastuono inquieto e violento. Al termine di un percorso, due piccole fermate di pace artificiale, plastica e giochi e fiori di stoffa, la finzione.

Ma ancora molti sono gli angoli dietro ai quali si aprono luoghi inattesi abitati da creature enormi e sottosopra (Georg Baselitz), da aeroplanini leggerissimi (Ernesto Ballesteros), di volti, a decine, rubati dalla macchina fotografica nelle carrozze delle metropolitane (Chris Marker). I timbri giganti di Barthélémy Toguo sono in realtà busti umani in legno, portatori di messaggi che inchiostrano le pareti di dolori e di gioie comuni all’umanità, immergendo i visitatori in un affollarsi di conflitti, personali, mondiali: “speranza” – “mai più tortura” – “anche i bambini sono persone” – “non sparate” – “je suis charlie” – “viviamo in esilio”. Sono solo alcuni.

Toguo è un artista camerunense che espone per la prima volta alla Biennale, non a caso in una edizione che più degli anni precedenti merita di portare l’aggettivo “internazionale”. Se infatti gli artisti nati in Europa e Nord America dominavano l’esposizione nel 2011, coprendo l’80% delle partecipazioni, quest’anno non ne rappresentano che un terzo, e lasciano invece spazio a un maggior numero di artisti asiatici, africani, latinoamericani e dall’Oceania.

Ecco allora che, ancora all’Arsenale, vale la pena attraversare le maree nel padiglione di Tuvalu, fermarsi a comprendere la complessità e l’eterogeneità degli spunti in quello del Sud Africa, seguire il rumore potente dello scroscio d’acqua proveniente dallo spazio del Messico, poggiare l’orecchio ad ogni singolo altoparlante nell’isolotto italo- latinoamericano, per ascoltare le “Voci indigene”, radici profonde che conquistano qui un pieno diritto di espressione. E poi sedere sul muretto in fondo al viale, sotto le Gaggiandre, in compagnia delle poderosi fenici dell’artista cinese Xu Bing. Perché oltre il giardino delle Vergini, le calli veneziane conducono a proseguire la visita nei 29 padiglioni ai Giardini della Biennale; e altre 29 partecipazioni nazionali s’incontreranno nei palazzi veneziani, assorbiti dalla città per qualche mese. Davvero bisogna scegliere e fermarsi, ascoltare e guardare.

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