SOCIETÀ

L’energia della Cina resta dipendente dal carbone

Pochi giorni fa al Congresso Nazionale del Popolo il Partito Comunista cinese ha approvato il 14esimo Piano quinquennale che include impegni in ambito energetico e climatico. Nonostante la Cina sia la più grande produttrice di elettricità da energia rinnovabile, doppiando gli Stati Uniti al secondo posto, la sua dipendenza dal consumo di carbone resta il fattore più preoccupante in ottica di riduzione delle emissioni climalteranti globali.

Senza la Cina non ci sarà possibilità di raggiungere gli obiettivi fissati dagli accordi di Parigi nel 2015, ovvero mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C e preferibilmente al di sotto di 1,5°C, soglia ritenuta critica per la tenuta del clima del pianeta, ma al contempo considerata già al di fuori della portata degli sforzi globali. Europa e Stati Uniti, come anche Corea, Giappone e altri 60 Paesi, mirano a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050: significa che la loro economia emetterà tanti gas climalteranti quanti ne sarà in grado di assorbire (attraverso gli alberi ad esempio). La Cina si è impegnata a raggiungere il medesimo obiettivo, ma con 10 anni di ritardo, entro il 2060.

L’annuncio del leader Xi Jinping era arrivato, inaspettato, a settembre 2020, in un discorso tenuto all’annuale Assemblea generale delle Nazioni Unite. L’appuntamento coincideva con la vigilia delle elezioni statunitensi che avrebbero visto uscire sconfitto Donald Trump, che dagli accordi di Parigi si era ritirato, e vincente Joe Biden, che negli accordi sul clima è rientrato, riportando gli Washington in prima linea nella lotta al cambiamento climatico. Inoltre, la tonalità verde del discorso di Xi Jinping era anche un indirizzo per il rilancio dell’economia cinese nell’era post-Covid che, secondo il leader cinese, dovrebbe vedere l’ascesa dell’Oriente e il declino dell’Occidente.

Sia il Vecchio Continente, sia il Nuovo Mondo, sia il Dragone prevedono tappe intermedie nel raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità climatica. Per quanto riguarda il carbone ad esempio i Paesi europei, che nel 1951 hanno dato avvio al lungo processo di unione partendo proprio dalla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (la Ceca), mirano a eliminarlo completamente a partire dal 2025. La Cina, invece, prevede nel piano appena approvato di aumentare lo sfruttamento del carbone e raggiungere il picco entro il 2030. Da lì in avanti il consumo di carbone dovrebbe calare progressivamente, fino alla neutralità climatica del 2060, che è stata accolta con favore dalla comunità internazionale. La strada per arrivare a quel traguardo tuttavia non è stata dettagliata da Pechino e le riserve sulla fattibilità dell’operazione non mancano.

La Cina emette il 28% delle emissioni di anidride carbonica globali, il valore equivalente alle emissioni prodotte da Stati Uniti, Unione Europea e India messe assieme. Ciononostante le emissioni accumulate dagli Stati Uniti e dagli altri Paesi che hanno maggiormente goduto dei benefici di tutta l’era industriale, sin dal suo inizio, rimangono molto più alte di quelle cinesi. È anche per questo che la Cina ritiene di non dover farsi carico del taglio delle emissioni nella stessa misura che spetta alle economie già sviluppate. Il problema è stato generato dall’Occidente, che ha goduto dei vantaggi derivanti dall’eccesso di emissioni: è all’Occidente che spetta la fetta più grande di responsabilità nel risolvere il problema.

Ma a dispetto della granitica solidità con cui la leadership cinese si presenta al mondo, in patria è in corso un insolitamente acceso dibattito a riguardo di quanto decisa e veloce debba essere l’azione per la sostenibilità climatica, in particolare nei confronti del carbone, di cui la Cina è il più grande produttore e consumatore mondiale: oltre 4 miliardi di tonnellate ne vengono bruciate ogni anno.

Questo valore è aumentato nel 2020 dello 0,6% rispetto al 2019 e secondo quanto riporta Reuters è destinato ad aumentare anche nel 2021. È infatti prevista l’apertura di nuove miniere e centrali tecnologicamente più avanzate (e la chiusura di altre più arretrate). Nel 2020 la Cina ha estratto 3,84 miliardi di tonnellate di carbone, il valore più alto dal 2015. Secondo l’EIA, l’agenzia statistica e analitica del dipartimento dell’energia del governo statunitense, dal carbone la Cina ha ricavato il 58% dell’energia che ha consumato nel 2019. Nel 2020 secondo Reuters questo valore si è abbassato, ma di poco, assestandosi al 56,8%, mentre i miliardi di tonnellate sono aumentati dello 0,6% come abbiamo detto. La percentuale di rinnovabili è cresciuta, arrivando al 24,3%, ma sono salite ancora di più anche le percentuali di petrolio e gas naturale, rispettivamente del 3,3% e 7,2% rispetto all’anno precedente.

Secondo quando riporta il New York Times, autorevoli climatologi cinesi e consiglieri politici vorrebbero limiti più stringenti alle emissioni, nessun nuovo progetto per centrali a carbone, il ritiro di quelle più vecchie e una decisa spinta in favore delle rinnovabili. Il potere decentralizzato di alcune province, i vertici di aziende statali e di grandi gruppi industriali vedono invece nel carbone il mezzo che ha fatto crescere la Cina negli ultimi decenni e ne difendono l’utilizzo per quelli a venire, proponendo l’apertura di nuove miniere e centrali “green” (per quanto possano esserlo le centrali a carbone), ad esempio nella provincia di Shanxi, a ovest di Pechino.

Il piano cinese appare quindi contraddittorio, perché da una parte promette di aumentare la percentuale di energia prodotta da fonti rinnovabili come l’idroelettrico, il solare e l’eolico (entro il 2025 dovrebbero raggiungere il 20% della totale domanda energetica), ma allo stesso tempo sembra concedere molte libertà all’industria del carbone. Soprattutto il piano non include un tetto massimo di emissioni annue e non pone un limite alla costruzione di nuovi centrali a carbone. Sebbene venga stabilito che il picco di consumo di carbone sarà registrato entro il 2030, non dice quanto alto potrà essere questo picco, né quale sforzo e quanto tempo sarà necessario per abbassarlo.

Naturalmente la transizione al di fuori di un’economia a carbone comporterà costi significativi in termini di dismissioni di posti di lavoro, milioni. La Cina è stato l’unico, tra i Paesi leader, a veder crescere nel 2020 il proprio Pil, del 2,3%. Ma al contempo ha registrato un aumento delle emissioni del 1,7% rispetto all’anno precedente. Questa crescita ha però avuto un costo, ben visibile anche da queste immagini dei satelliti Copernicus dell’ESA (Agenzia Spaziale Europea). In alcune zone le concentrazioni di emissioni (biossido di azoto nella fattispecie) non solo sono tornate ai livelli pre-pandemici, ma li hanno anche già superati.

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