CULTURA

Lepanto, l’ultima crociata

Lepanto è Lepanto, una delle poche battaglie che conosciamo per nome: il suo posto nella storia è accanto a luoghi mitici come le Termopili, Waterloo, Gettysburg, Stalingrado. In tutte, al di là del valore strategico, ad affrontarsi sono mondi, modi di vivere, civiltà. Tra tutte però Lepanto ha un posto particolare per come ha forgiato e nutrito per secoli l’immaginario comune, occupando nel descriverla generazioni di pittori, storici, poeti e scrittori. Come Miguel de Cervantes, che nello scontro perse l’uso della mano sinistra ma per tutta la vita fu fiero di aver vissuto in prima persona “la más alta ocasión que vieron los siglos”, il maggior momento di passione e di gloria dei secoli passati, presenti e futuri.

Più ancora che in Spagna la vittoria fu sentita a Venezia, che per secoli ne ha rivendicato il maggior merito. Ancora oggi a Palazzo Ducale, tra i dipinti e le iscrizioni che rievocano la battaglia, è custodito uno degli stendardi della flotta ottomana, sotto lo sguardo fiero del Capitàn da mar Sebastiano Venier, che sprezzante lo trascinò  nelle acque della laguna, e quello mesto di Marcantonio Bragadin, lo sfortunato difensore di Famagosta. E ancora fino qualche anno fa nei campi e nelle corti i bambini giocavano “a Lepanto”. Perché Lepanto è questo: europei contro turchi, Cristianesimo contro Islam, noi contro loro, e in questo sta la ragione del fascino e del fastidio che ancora oggi è capace di suscitare.

Lo scontro si inserisce nella contesa tra Venezia e l'Impero Ottomano per il dominio di Cipro, ma presto diventa anche qualcos’altro. Per papa Pio V è l’occasione per bandire una vera e propria crociata, tentando di coalizzare le forze cattoliche in un’Europa segnata dalla Riforma e sconvolta dalle guerre di religione. Così riesce a riunire due acerrime rivali come Venezia e la Spagna (le cui navi e gli equipaggi arrivano soprattutto dai possedimenti del Sud Italia), a cui si aggiungono Stato della Chiesa, Genova, Cavalieri di Malta e diversi piccoli Stati italiani (Savoia, Toscana, Urbino, Lucca, Ferrara, Mantova). Le dimensioni dello scontro sono enormi: al largo dell’odierna Nafpaktos, vicino allo stretto che separa il Golfo di Corinto da quello di Patrasso, vengono a contatto almeno 200 navi grandi e medie per parte, per un totale di circa 150.000 uomini e centinaia di pezzi di artiglieria. Si tratta tutt’ora della più grande battaglia combattuta nel Mediterraneo per numero di effettivi, e una delle più imponenti della storia.

“Lepanto è una tipica battaglia navale del Cinquecento – spiega Pietro Del Negro, professore emerito di storia militare presso l’università di Padova e curatore assieme a Paola Bianchi del volume Guerre ed eserciti nell'età moderna (Il Mulino 2018) –. Il tentativo da entrambe le parti è combattere come in uno scontro terrestre: le navi nemiche vengono agganciate in modo da far venire a contatto le fanterie a bordo”. Le artiglierie, pur esistenti da diverso tempo, sono ancora carenti per precisione e calibro, ma proprio a Lepanto giocano un ruolo più importante, iniziando il percorso che soprattutto con le guerre napoleoniche le porterà a cambiare definitivamente le regole della guerra per mare.

Parliamo delle sei famose galeazze corazzate, armate di cannoni su tutti i lati e altissime, in modo da essere praticamente inabbordabili. “L’effetto sorpresa è fondamentale – conferma Del Negro –. Le imbarcazioni sono state approntate da poco nell’arsenale di Venezia e non sono mai state utilizzate prima; quando vengono collocate davanti alla flotta cristiana, due per ognuno dei tre tronconi, in un primo momento vengono addirittura scambiate per navi da carico dagli ottomani. Quando però questi si avvicinano vengono investiti da una tempesta di proiettili”.

Per le forze turche è l’inizio della fine; gli scontri, iniziati verso mezzogiorno, vanno avanti tra rovesci e colpi di fortuna da una parte e dall’altra: alla fine però verso il tramonto il trionfo della Lega Santa è netto e palese. La flotta cristiana registra relativamente poche perdite mentre quella turca viene sbaragliata: il comandante supremo Alì kapudan pascià viene ucciso e la sua testa appesa all’albero maestro della sua ammiraglia; la stessa fine tocca all’altro grande capitano Mehmet Shoraq (Scirocco), mentre il famoso corsaro di origine calabrese Uluç Alì (Occhialì o Uccialì) riesce a fuggire con le sue navi. Gioisce invece per la vittoria lo stato maggiore alleato guidato da don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V e fratello di Filippo II, che prima della battaglia ha arringato i suoi cavalieri e poi ha danzato con loro sul ponte della nave.

A decidere i destini della battaglia è stata la maggiore potenza di fuoco della flotta cristiana e la netta superiorità delle fanterie spagnole imbarcate, dotate di armamenti e corazze più pesanti, e dei marinai italiani, in particolare veneziani. “Come dimostrano le battaglie successive ai Dardanelli, condotte da Lorenzo Marcello, nel Mediterraneo orientale le navi della Serenissima conserveranno a lungo una netta superiorità in termini di manovra e di impatto – continua Del Negro –. Un vantaggio che andando avanti si ridurrà, soprattutto per l’utilizzo da parte degli ottomani di vascelli olandesi e inglesi, ma che i veneziani non perderanno del tutto nemmeno nei periodi solitamente considerati di decadenza. Ancora nel 1780-81 ad esempio Angelo Emo condurrà una spedizione contro Tunisi, dimostrando di riuscire a percorrere e a tenere sotto controllo un’area vastissima in cui i veneziani non hanno alcun appoggio”.

Fin da subito Lepanto appare in occidente come una grande vittoria, una lezione data direttamente dal Cielo all’arroganza del Gran Turco. Eppure, come è noto, i suoi effetti saranno estremamente limitati. Cipro, che aveva rappresentato il casus belli, è ormai definitivamente persa per i veneziani, mentre l’anno dopo l’arsenale di Costantinopoli, più grande di quello di Venezia, riuscirà a mettere in mare una nuova flotta. Fernand Braudel perlerà della battaglia come di un mero ‘disturbo di superficie’, e anche secondo Del Negro “la sua fama è per certi versi immeritata. La vera svolta ci sarà solo con il fallimento del secondo assedio di Vienna nel 1683, che determinerà il crollo dell’esercito ottomano e l’inizio della ritirata che lo porterà a perdere non solo l’Ungheria ma in larga misura anche la penisola balcanica. Se ad ogni modo a Lepanto gli ottomani avessero avuto la meglio, forse avrebbero potuto attaccare direttamente l’Italia meridionale e i possedimenti veneziani nell’Adriatico. La sconfitta in una certa misura tende ad affievolire la loro spinta espansionistica, in particolare sul mare”.

Lepanto è il canto del cigno dell’Europa cattolica, che non ritroverà più una sua unità sotto le insegne del papa, e rappresenta in qualche modo l’epilogo della centralità del Mediterraneo nei giochi mondiali. In futuro sia la Serenissima che la Sublime Porta conosceranno un comune destino di decadenza, che per Venezia si concluderà con l’occupazione napoleonica e la cessione all’Austria, per il Sultano 120 anni più tardi con la nascita della Repubblica Turca. Oggi, mentre sembra tornare in auge lo scontro di civiltà, quella lontana battaglia torna a far parlare di sé. Non solo in occidente ma anche nel Mediterraneo orientale, dove la Turchia di Erdoğan riscopre l’attrazione per la ‘patria blu’ (Mavi Vatan): il mare. Per questo motivo Ankara nei prossimi anni investirà sempre più nella costruzione di una potente marina mercantile e da guerra, intenzionata a non mollare la presa su Cipro e sulle risorse dell’area. Voglia di potenza certo, ma forse anche di cancellare, un giorno, l’onta di Lepanto.

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