CULTURA

La letteratura al tempo della crisi climatica: il ruolo politico della cultura

Il tema del rapporto fra uomo e natura è, oggi, drammaticamente attuale. Sulle difficoltà poste dallo sforzo di tutelare la natura dalla pervasiva attività umana s’interrogano politici, tecnici, uomini di scienza; ma, nonostante siano già disponibili soluzioni scientifiche e tecnologiche, non riusciamo a stabilire un piano d’azione condiviso e continuiamo a guardare dissolversi, impotenti, il mondo che conosciamo. 

Alcuni intellettuali propongono da tempo, seppur in sordina, una possibile interpretazione di questo singolare fenomeno di inazione collettiva, tanto più anomalo a fronte di un rischio sempre più certo ed evidente: e se vi fosse un freno culturale? Il mondo della cultura si sta mostrando, negli ultimi anni, sempre più interessato alle questioni sollevate dalla crisi climatica: di fronte all’apparente fallimento in cui scienza e politica sono incorse nel comunicare con incisività ed efficacia la necessità di un tempestivo cambiamento di rotta, ci si rivolge ora con rinnovata speranza alla letteratura. Rivelatrice, in tal senso, è la posizione di scrittori di spicco nel panorama internazionale come Olga Tokarczuk, scrittrice ed attivista polacca, vincitrice nel 2018 del Premio Nobel per la Letteratura: nel discorso tenuto durante la cerimonia di apertura dell’ultima edizione della Frankfurter Buchmesse l’autrice ha sottolineato, infatti, l’enorme potenziale della letteratura: "Credo in una letteratura che lega le persone, che sottolinea ciò che hanno in comune oltre le differenze, che chiarisce come a un livello profondo, sotto la superficie delle nostre diversità, siamo legati da fili invisibili, siamo una parte piccola ma non insignificante di un’unità".

L’opera di finzione sembra essere investita di una precisa missione: ha il compito di traghettarci al di là di quella morsa paralizzante che Günther Anders definiva “dislivello prometeico”, un sostanziale divario tra la facoltà di fare e la facoltà di sentire. Tale analisi, a ben vedere, sembra calzante anche in rapporto alla crisi climatica: la sola conoscenza razionale del rischio non garantisce, infatti, l’attivazione di una risposta emotiva, necessaria invece per muovere gli individui all’azione. Da una parte, sembra che si tratti di un problema ancora lontano dalla nostra quotidianità, del quale perciò non sia veramente urgente occuparsi; dall’altra, tuttavia, l’eventualità che esso si realizzi ci spaventa, e cerchiamo di difenderci da tale paura negandola o rassegnandoci ad essa: è il caso, rispettivamente, della cieca fede in fantasiose soluzioni tecnologiche o di un apocalittico pessimismo. 

A differenza della saggistica, che, pur offrendo nozioni specifiche e dettagliate, non riesce a smuovere le coscienze individuali, il romanzo ha un ruolo di frontiera: piuttosto che fornire a sua volta conoscenze – obiettivo nel quale si rivelerebbe, rispetto al mare magnum della letteratura specialistica, inevitabilmente inadeguato – esso deve provare ad offrirci prospettive inedite, che ci spingano a guardare il mondo attraverso gli occhi di chi, solitamente, consideriamo “altro” da noi.

Ma è davvero in grado, la letteratura di finzione, di sobbarcarsi un simile compito? Alcuni autori, come l’indiano Amitav Ghosh, sono scettici sulla possibilità che ciò accada, e accusano la letteraturain particolare la tradizione occidentale moderna e contemporanea – di carenza immaginativa, ovvero di una fondamentale incapacità di rappresentare l’uomo in una prospettiva relazionale. Come sottolinea Marcello Ghilardi, docente di Estetica all’università di Padova, ad aggravare questa carenza immaginativa vi è anche il progressivo penetrare della globalizzazione nel mondo dell’estetica: ciò provoca nei modelli letterari, musicali, figurativi un’omologazione e un appiattimento che tolgono all’arte la sua propensione a sorprendere, a fornire punti di vista originali sul mondo. Essa diventa prodotto, e come tale risulta ripetitiva, scontata, incapace ormai di assolvere a quel compito catartico che, in origine, ne costituiva l’essenza più propria.

In quest’ottica, dunque, sembrerebbe che neanche la letteratura possa “salvarci”: dal Novecento in poi, essa si è sovente rifugiata in un universo estetico ideale, fingendo di non aver nulla da dire sul mondo. Ma, in tal modo, essa abbandona la sua primigenia vocazione sociale, politica. Fin dai suoi albori la letteratura si è mossa su un duplice binario: da una parte rivolgendosi all’interiorità, cercando di "aiutare il soggetto a diventare se stesso", e dall’altra perseguendo un obiettivo propriamente politico, che si realizza nel contribuire a plasmare la società, pur senza scadere in una retorica moralizzante. "In fondo – afferma Ghilardi – tutti i grandi romanzi sono, al tempo stesso, forgiatori di soggettività e propagatori di idee": la letteratura ha, in nuce, una vocazione politica, alla quale non può sottrarsi senza rinnegare se stessa. 

In un momento storico liminale come il nostro, la letteratura non può, insomma, esimersi dallo svolgere il suo ruolo all’interno della società: chi fa letteratura ha il dovere morale di calarsi nella realtà, di affrontarla. La letteratura deve recuperare quella dimensione politica nella quale è nata ed in cui trova la propria ragion d’essere, ma che, strada facendo, ha perso di vista. Ciò non significa abbracciare una visione parziale e faziosa della realtà: spesso, anzi, voler difendere con eccessiva veemenza un’idea può risultare perfino controproducente. La migliore letteratura non si prefigge come scopo di risvegliare le coscienze, né ha la pretesa di influenzare i modi di pensare. I grandi romanzi sono, prima di tutto, opere d’arte, e in quanto tali dotati di valore per se stessi; ma la loro grandezza è racchiusa proprio nella capacità d’influire, in modo indiretto ma profondo, sulla realtà nella quale sono calati. 

Ghilardi chiarisce questa paradossalità intrinseca al mondo letterario quando afferma che "i romanzi realisti parlano in fondo di cose metafisiche, mentre sono i romanzi fantastici a parlare delle cose reali, di tutti i giorni, a spiegarci come ci relazioniamo con il mondo in cui viviamo"; e riescono in questo difficile compito grazie all’obliquità con cui affrontano questioni profonde e delicate: secondo alcune letture critiche, ad esempio, tra i romanzi più ecologisti del Novecento va annoverata niente meno che la trilogia del Il signore degli anelli, in cui Tolkien avanzerebbe una serrata critica alla meccanizzazione posta in atto dall’uomo nel Novecento, contrapponendo a questo modello una rinnovata alleanza tra l’uomo e la natura.  

A fronte di un problema complesso e polimorfo come la crisi climatica, la letteratura mostra, insomma, di avere le potenzialità per agire con efficacia, e con risultati addirittura migliori rispetto a quei campi del sapere a cui è comunemente demandata la responsabilità di risolvere le grandi questioni del mondo che ci circonda. Ma il cambiamento climatico chiama in causa ambiti troppo eterogenei, ha conseguenze troppo totalizzanti sulla vita umana perché si possa credere di uscirne soltanto attraverso interventi tecnici mirati e parziali. Ciò di cui abbiamo bisogno è, in primo luogo, un cambiamento nel nostro comune immaginario: dobbiamo reimparare ad essere umani, a concepirci non come separati, ma come appartenenti alla Natura. E, in questo, solo la letteratura ci può aiutare, dischiudendo per noi nuovi orizzonti sul mondo. 

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