SOCIETÀ

Libertà svelate

In Iran continuano da oltre due mesi le proteste iniziate il 16 settembre scorso, quando la ventiduenne Mahsa Amini è stata uccisa per non aver coperto interamente i suoi capelli con l’hijab. L’imposizione del velo islamico non è l’unico motivo per cui è insorta la popolazione civile, ma questo capo di abbigliamento resta comunque uno dei simboli della rivolta.

Il dibattito sull’obbligatorietà del velo è iniziato molto tempo prima del 1983, anno in cui il parlamento iraniano ha approvato la legge, ancora oggi in vigore, che impone alle donne di coprirsi la testa nei luoghi pubblici. Con l’aiuto di Shirin Zakeri, ricercatrice docente di storia contemporanea dell’Iran e del medioriente all’università La Sapienza di Roma e collaboratrice dell’OSMED (Osservatorio sul Mediterraneo), abbiamo ricostruito una breve storia delle politiche riguardanti l’utilizzo del velo – e le relative conseguenze sulla condizione femminile – in Iran dalla prima metà del Novecento ad oggi.

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Ascolta l'intervista a Shirin Zakeri

“Nel 1936, sotto la monarchia di Reza Pahlavi, venne istituita una legge che proibiva alle donne di indossare il velo nella sfera pubblica”, racconta Zakeri. “Con questa politica, che vietava anche agli uomini di uscire di casa indossando simboli religiosi tradizionali, lo scià cercava di imporre nuovi canoni per l’abbigliamento basati sul modello occidentale. L’obiettivo era quello di modernizzare la società iraniana e creare così uno stato secolarizzato ispirandosi anche al programma di riforme introdotto dal presidente Atatürk in Turchia, il quale, tra le altre cose, aveva cercato di scoraggiare l’utilizzo del velo per le donne e promuovere uno stile di abbigliamento più occidentale.

Eppure, mentre Atatürk non aveva mai imposto uno svelamento forzato, la politica di Reza Pahlavi fu percepita da parte della società iraniana degli anni Trenta e Quaranta, ancora fortemente basata sui valori tradizionali, come un gesto particolarmente aggressivo. Quest’imposizione fu criticata duramente anche dai rappresentanti del potere religioso e venne perciò abolita dal successore Mohammad Reza Pahlavi. Possiamo dire che fu soltanto durante il regime di quest’ultimo, durato dal 1941 al 1979, che le donne iraniane ebbero davvero la possibilità di scegliere come vestirsi e se indossare o meno il velo”.

Mohammad Reza Pahlavi fu a sua volta il promotore della cosiddetta “Rivoluzione bianca”, il programma di occidentalizzazione e modernizzazione del paese iniziato nel 1963. Cosa cambiò allora per le donne?

“Le riforme promosse da Mohammad Reza Pahlavi avvennero in seguito al colpo di stato del 1953, in cui il governo democratico del primo ministro Mossadeq fu fatto cadere anche grazie alla partecipazione dei servizi segreti statunitensi e britannici”, continua Zakeri. “La rivoluzione bianca non prevedeva solamente riforme economiche (che interessavano principalmente il settore agricolo e quello industriale), ma anche mutamenti relativi alla condizione femminile. In quel periodo, infatti, le donne poterono partecipare alla società iraniana e occupare posizioni di leadership in ambito lavorativo; nacquero diversi movimenti e riviste femminili e vennero promulgate delle leggi a protezione delle donne della famiglia, le quali ottennero uguali diritti rispetto agli uomini e maggiori possibilità di mantenere la custodia dei bambini dopo la separazione”.

Eppure, il popolo iraniano non tollerava più la monarchia. Nel 1979, in seguito alla rivoluzione popolare guidata dall’ayatollah Ruhollah Khomeini, nacque infatti la Repubblica islamica dell’Iran.

“Alla rivoluzione popolare del 1979 parteciparono diverse fasce della popolazione iraniana, come partiti politici, gruppi di studenti, di donne, partiti nazionalisti e gruppi islamisti”, sottolinea Zakeri. “I cittadini insorsero perché non volevano più un governo monarchico né, soprattutto, uno scià influenzato dall'Occidente; chiedevano, invece, un sistema politico fondato sui valori identitari e culturali iraniani. Nonostante Mohammad Reza Pahlavi si fosse impegnato molto per creare un’identità culturale iraniana collettiva e riaccendere il sentimento patriottico della popolazione, la sua monarchia era ormai stata etichettata come filoccidentale.

Siccome Khomeini, leader carismatico della rivoluzione, era anche un capo religioso, essa si configurò anche come una battaglia in difesa dei valori islamici e per una società musulmana. Anche molte donne laiche, che solitamente non portavano il velo, cominciarono a metterlo come simbolo di protesta. Non potevano immaginare, allora, che ben presto sarebbero state costrette a indossarlo.

Il dibattito sull’obbligatorietà del velo iniziò poco prima della fondazione della Repubblica islamica, che sarebbe avvenuta in seguito a un referendum approvato con un consenso del 98% dei votanti, i quali scelsero questa nuova forma di governo rispetto all’unica altra alternativa possibile, la monarchia, pur senza sapere esattamente come sarebbe stato riformato il quadro giuridico e normativo.

Le donne non si aspettavano che avrebbero perso molti diritti con l’inizio della Repubblica islamica, che basò il proprio codice civile e penale sulla shari’a. Subito dopo la rivoluzione, la legge a protezione delle donne nella famiglia venne purtroppo abolita e sostituita con nuove normative che privarono le donne di molti dei loro diritti. In pochi anni dalla rivoluzione popolare, infatti, una donna non poteva più ricoprire alcune cariche pubbliche, come ad esempio quella di magistrato, e la sua testimonianza valeva la metà di quella di un uomo. Inoltre, la separazione era estremamente difficile per una donna che chiedeva la custodia dei figli.

Ancora una volta, il corpo femminile cominciò a essere strumentalizzato per veicolare un messaggio politico, proprio come era successo durante la monarchia di Reza Pahlavi, il quale voleva mostrare al resto del mondo che l’Iran fosse un paese modernizzato in cui le donne vestivano senza velo, secondo lo stile occidentale. Stavolta, invece, l’immagine da diffondere all’esterno era quella di un paese islamico in cui tutte le donne indossavano il velo. Per questo motivo, un po’ alla volta, molti istituti, scuole e posti di lavoro cominciarono a introdurre nel regolamento interno l’obbligo di indossare il velo per le donne che desideravano accedere a tali strutture. Queste politiche, che all’epoca erano ancora solo delle voci che circolavano nel dibattito pubblico, vennero combattute fin da subito da parte dei movimenti femminili, che l’8 marzo dell’epoca organizzarono una grande manifestazione contro il velo obbligatorio, senza purtroppo ottenere nessuna vittoria.

A partire poi dal 1980 – anno in cui l’Iran entrò in guerra con l’Iraq – il regime promosse una rivoluzione culturale di islamizzazione del paese, in cui ogni ideologia, iconografia o forma d’arte di ispirazione occidentale doveva essere proibita e “islamizzata” perché rispecchiasse una società musulmana. Si arriva così al 1983, anno in cui viene promulgata la legge, che vige ancora oggi, che impone alle donne l’obbligo di indossare il velo in pubblico”.

Quali furono le principali battaglie combattute dagli anni Ottanta ad oggi dalle donne iraniane che si opposero al nuovo sistema politico?

“I movimenti di protesta femminili, che oggi sono vivi più che mai, hanno anni di storia alle spalle e sono riusciti a resistere e a restare vivi all’interno della società nonostante i continui tentativi di repressione da parte del governo e le tante difficoltà che hanno dovuto affrontare per difendere la loro voce nella società e chiedere un cambiamento”, prosegue Zakeri. “Una tappa importante di queste battaglie fu la partecipazione delle donne iraniane alla quarta edizione del congresso mondiale per le donne dell’ONU nel 1995 a Pechino, che diede loro l’opportunità di entrare in contatto e confrontarsi con associazioni femminili di altri paesi. Questo accadde poco tempo prima dell’insediamento del governo riformista di Khatami, che venne eletto anche per un secondo mandato, restando in carica fino al 2005, il quale permise ai movimenti che mettevano al centro la questione dell’identità femminile di crescere e di far sentire la loro voce sia nella società civile, sia a livello internazionale.

Nel 2006 nacque la campagna One million signatures, che ebbe un grosso impatto a livello sociale. Le donne che parteciparono a quest’iniziativa si impegnarono per sensibilizzare l’opinione comune sul tema delle pari opportunità e aumentare la consapevolezza sociale e politica delle cittadine iraniane andando addirittura di casa in casa e bussando alle loro porte. La campagna, purtroppo, fu bloccata dal governo successivo, guidato dal presidente conservatore Ahmadinejad.

Dopo la fine della campagna One milllion signatures sorsero nuove manifestazioni di protesta, come il movimento verde del 2009 che contestava i risultati delle elezioni parlamentari – che si erano concluse con la rielezione di Ahmadinejad – e si battevano per un sistema democratico e non dittatoriale. Queste proteste, alle quali parteciparono molte donne, alcune delle quali anche in veste di leader, vennero represse duramente con l’arresto di studenti, intellettuali e attivisti.

Dal 2009 ad oggi sono state organizzate molte altre campagne per l’uguaglianza di genere, i diritti delle donne e l’abolizione del velo obbligatorio. Quest’ultima protesta iniziò sui social media come Instagram, Facebook e Twitter, dove molte donne e ragazze iniziarono a pubblicare dei video in cui si scoprivano la testa recitando uno slogan contro il velo obbligatorio, per poi entrare successivamente nelle piazze. Purtroppo, infatti, molto prima dell’uccisione di Masha Amini, diverse altre donne sono state arrestate e condannate per aver protestato a capo scoperto contro il velo obbligatorio”.

Possiamo dire che nessuna di queste battaglie è stata veramente vinta, almeno finora?

“Per la costruzione di un sistema democratico sono necessari molto tempo e pazienza”, risponde Zakeri. “Le proteste che da molti anni hanno più volte messo in discussione il sistema politico iraniano hanno già ottenuto qualche piccola vittoria. Anche il solo fatto di poter protestare in nome della democrazia, criticando apertamente i decisori politici, prima del 2009 sarebbe stato impensabile in un paese sotto un sistema teocratico.

Sebbene la contestazione del velo obbligatorio sia da sempre centrale nei movimenti di protesta femminili, questi combattono anche per altre cause relative alla giustizia, ai pari diritti e a un miglioramento delle condizioni socioeconomiche di un paese che si trova in una condizione di grande sofferenza, dove l’inflazione supera il 50% e la vita quotidiana è sempre più dura per i cittadini. Perciò, al momento dell’uccisione di Masha Amini, morta sotto la custodia della polizia morale, la popolazione era ormai pronta per esprimere la sua insoddisfazione sociale e politica per la situazione attuale.

In un paese guidato da un presidente ultraconservatore – che ha vinto le elezioni del 2021, che hanno registrato un’affluenza inferiore al 50% –, un parlamento che sta in gran parte nelle mani della fazione conservatrice e che non lascia spazio ai riformisti, molti iraniani avevano perso ogni speranza per un futuro migliore. Queste nuove proteste, invece, hanno riacceso la speranza in molte persone, che ora hanno di nuovo la forza di lottare per ottenere un cambiamento".

“Nonostante durante i governi riformisti ci sia stata meno rigidità sulla questione, la legge sul velo obbligatorio non è mai stata tolta per un preciso motivo: in un paese teocratico come l’Iran, cedere su questo argomento significherebbe mettere in discussione l’intero sistema islamico e, in altre parole, ammettere l’esistenza di molte altre leggi che non sono più compatibili con la società attuale iraniana che è una società giovane – in cui l’età media è di 32 anni – e in cui c’è un alto tasso di istruzione femminile”, spiega Zakeri.

“La società iraniana non si riconosce più nelle leggi in vigore, per questo si è nuovamente risvegliata e si rifiuta di continuare ad accettare leggi discriminatorie verso le donne. È importante stare a vedere cosa succederà adesso. Tutti coloro che stanno protestando, a prescindere dall’età, dal sesso e dall’etnia, dalle piccole alle grandi città, stanno rifiutando l’attuale sistema che quindi dovrà necessariamente attraversare dei mutamenti profondi”.

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