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La musica non ha età, la schiena sì: una sera a un concerto con i ventenni

C’è un momento nella vita in cui scopri che la musica non ti abbandona mai, ma il corpo tende a farlo. Succede in un locale pieno di ventenni, quando ti rendi conto che l’unica cosa che ti separa da loro non è il gusto musicale, ma la resistenza lombare.

Proprio sotto il palco, o forse no

Ok, hai una certa età, e i tuoi coetanei disapprovano apertamente la musica che ascolti. Questo però non ti ha mai fermato, e ai concerti ci vai lo stesso, da sola, con il terrore di ritrovarti in un covo di "sbarbi" che si chiederanno “ma suo figlio dov’è?”.
Locale medio-grande, quelli con il soffitto industriale e i neon che ti cambiano l’umore a seconda del colore (a proposito, la luce fucsia a quanto pare nasconde le rughe, dovrebbero studiare il fenomeno). Sei arrivata presto, perché da quando hai una carriera avviata hai capito che improvvisare non è una strada percorribile, ma non è bastato, così finisci solo in quarta fila: sei ancora nel limbo tra il “posso rimanere mezza giornata in attesa davanti all’entrata perché non ho nulla da fare” e il “sono così realizzata che posso pagare qualcuno per fare la coda al posto mio”. Con l’agilità dei vent’anni sfrutteresti il fatto di non avere nessuno al seguito e cercheresti di infilarti in ogni pertugio per finire in prima fila metaforicamente in braccio all’artista sul palco, ma la saggezza dei 40 ti suggerisce di tenere un profilo basso.

Dress code al concerto dei ventenni

Per passare inosservata, comunque, hai riesumato il diploma di makeup artist che fa polvere nel cassetto da più di un decennio: sfumature, basi, illuminanti, ed ecco che nella penombra diventi una trentenne credibile. Certo, se ti dimentichi che prima di uscire ti sei chiesta se fosse meglio assumere del Muscoril per quei fastidiosi doloretti alla schiena, che certo si sarebbero acuiti stando tre ore in piedi (i concerti da guardare seduti in teatro sono un lusso per quelli che ascoltano un altro tipo di musica). Arrivata in loco, però, realizzi che la strategia mimetica era sbagliata, e che sarebbe stato meno faticoso truccarsi per dimostrarne cinquanta al posto di trenta e passare per madre di uno sbarbo col telefono in mano, accettando serenamente quello che prima o poi diventerà il tuo destino se la musica non cambia, in tutti i sensi.

L’abbigliamento era il clou della protesta ideologica: jeans, maglietta, giaccone e stivali, che già sei fuori target, tanto vale cercare almeno di stare comodi. Niente glitter, niente minigonna, niente top che lasciano la pancia scoperta, perché è evidente che i giovani hanno trovato degli spacciatori di difese immunitarie e tu non sei nel giro giusto. Attorno a te, branchi di ragazzi in livrea da venerdì sera, pelli perfette e quell’allegria spavalda di chi non ha ancora scoperto la differenza tra dolori muscolari e dolori metafisici.

Bradipi attaccati al palco

Il cantante, romano nel midollo, con quell’andatura un po’ sciolta da chi ha imparato a camminare sui sanpietrini e a parlare in metrica di quartieri, calici di vino e mondiali zompati non è tanto più giovane di te, ma ha dalla sua una bottiglia di prosecco, che a fine concerto si sarà scolato integralmente. 

Te ne rendi conto dopo, perché il primo pensiero è “se si scatena lui puoi farcela anche tu”. Peccato che a un certo punto ti accorgi che stai ballando come un bradipo che dopo anni è riuscito finalmente a fare pace con il proprio metabolismo, mentre attorno a te ci sono solo persone possedute da una tarantola. Del resto in certi contesti è meglio muoversi con la prudenza che allo spuntare dei capelli bianchi diventa un valore non negoziabile.

La musica non ha età, ma le ginocchia sì. Ok, è uno slogan che non vende magliette (anche se si potrebbe provare), ma comunque descrive con onestà chirurgica la scena: alla prima canzone il basso ti arriva allo sterno, con quella vibrazione che a vent’anni chiamavi adrenalina e a quaranta chiami risonanza magnetica preventiva obbligatoria prima dell’accesso in sala. Alla seconda canzone pensi di aver calibrato il peso sugli stivali, ma al primo pestone del tipo davanti scopri che devi rifare tutto. Alla terza capisci che la vera differenza generazionale non sono i gusti musicali, ma il rapporto con la gravità.

Inconvenienti tecnici di regia

Se non altro, la quarta fila regalava una certezza: le luci. Che però sono la nemesi dei video ricordo: anche i non nativi digitali più scafati non sono stati abituati a filmare in mezzo alle strobo, e mentre gli "sbarbi" hanno un secondo cervello che permette loro di godersi il concerto mentre inquadrano, premono, taggano, tu ogni volta che provi a registrare un video selfie con il cantante sullo sfondo ti rendi conto che forse faresti prima con l’AI, perché lui è peggio di un’anguilla: corre, salta, scivola via dall’inquadratura e poi la luce fa un salto dal bianco ospedale al nero profondo proprio nel momento in cui eri riuscita a mettere a fuoco la sua faccia. Il risultato: trenta clip da tre secondi e mezzo ciascuna, dominate da sagome, urla e un indice che ogni tanto decideva di prendersi la scena. Il selfie tattico, quello che include te e l’artista in un’inquadratura unica, è una disciplina olimpica per la quale non esistono fascicoli informativi al botteghino: gli "sbarbi" la praticano con la naturalezza di chi ha imparato prima a ruotare la camera che a ricordare le tabelline, mentre tu per fare quello stesso video dovresti almeno stare ferma immobile, ma non andresti a ritmo rovinando l’atmosfera. Forse servirebbero corsi serali di autoscatto dinamico, con moduli su “gestione di soggetti ipercinetici”, ma sarebbero comunque resi vani dalla fatica concreta di conciliare l’abitudine alla ripresa cinematografica con il desiderio preistorico di godersi qualcosa senza archiviarlo fisicamente da qualche parte, con buona pace della lobby del cloud.

Ognuno ha il volume che si merita

La performance era una sequenza ben oliata: brani nuovi che diventano vecchi in dodici ore, classiconi che il pubblico canta come fossero patrimonio UNESCO, quel modo di strizzare l’occhio alla città eterna e, sorpresa, l’anteprima di una canzone che sarebbe uscita a mezzanotte. Tutto fantastico, ma nel mentre un pensiero intrusivo bussava alle tempie: il volume. A 20 anni non ci pensi e più alto è meglio è, a 40 cominci a fare proiezioni della te stessa nel futuro. E allora, mentre i subwoofer lavorano di diplomazia sulle viscere, ti chiedi se quel concerto lascerà un fischio a lunga conservazione, se l’udito è un bene deperibile, se hanno già inventato una tecnologia avveniristica per recuperarlo se la situazione dovesse volgere al peggio.

Servizio di affitto "sbarbi"

Alla fine del concerto, in fila per recuperare il giaccone, attacchi discorso con un gruppetto di universitari: nessuna smorfia stile “ma che ci fai qui, tu non sei dei nostri”, nessun imbarazzo, forse il disagio era solo un problema tuo. Ti raccontano di esami non passati, di coinquilini che non lavano i piatti, e di cotte fuori stagione ascoltando le canzoni del romano che vi ha portati sullo stesso terreno di gioco. Tu annuisci comprensiva, fai domande, ridi: un dialogo civile tra specie contigue, che possono incontrarsi grazie a una passione comune. Forse il trucco aveva fatto la sua parte, o magari il segreto è semplice: quando ami la stessa musica, le differenze anagrafiche si annullano per conversione acustica.

Ed ecco che si fa strada una nuova idea di business: il servizio di affitto "sbarbi". Tu paghi, loro ti vengono assegnati come copertura quando vuoi andare a un concerto senza sentire di dover giustificare la tua presenza lì. Entri con uno o due ragazzi credibili nel ruolo di figli o nipoti, loro sgomitano per arrivare in prima fila, tu guardi le persone intorno come chiedendo “ma chi li ha educati questi? Non guardate me, sono solo la zia che ha pescato la pagliuzza più corta, e ora scusate ma devo seguirli…”. Ti piazzi di fronte al palco e nessuno sospetta che tu sia lì per il cantante e non per dovere di accompagnamento. I pacchetti premium potrebbero prevedere la consulenza selfie in movimento e quella linguistica per sentirti a tuo agio nello slang oltre che nel flow.

Riportando tutto a casa

E poi si torna alla base. O meglio, tu torni a casa, perché dai discorsi origliati intuisci che il concerto era solo la prima parte della loro serata. E a quel punto capisci che, a livello emozionale, cambia poco che tu abbia 20 o 40 anni, perché assistere dal vivo a un’esibizione ha sempre lo stesso sapore, però cambia parecchio dal punto di vista fisico, perché è quasi mezzanotte e vuoi solo riposare le tue stanche membra.
Prima di addormentarti, rimane un pensiero: quant’è ridicolo assegnare alle canzoni una fascia d’età?
La musica è una geografia senza catasto, ognuno può trovare il suo posto dove meglio crede, e se altri si prenderanno la briga di bollare i tuoi gusti facendo fare all’entusiasmo la coda alla dogana possono essere congedati senza onori. A meno che, chiaramente, non abbiano dei figli da accompagnare ai concerti a cui loro si rifiutano di andare: in quel caso, si potrebbe raggiungere un accordo.

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