SCIENZA E RICERCA

L’impatto delle “nature-based solutions” sulla lotta al riscaldamento globale

Sebbene un crescente numero di Paesi stia prendendo impegni per ridurre le emissioni di gas a effetto serra delle proprie economie rendendole pienamente sostenibili entro la metà del secolo, l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C (e idealmente al di sotto di 1,5°C) sottoscritto con gli accordi di Parigi appare ancora lontano dalla reale fattibilità. Allo stato attuale, il mondo corre sul binario che porta a un aumento di circa 3°C delle temperature globali, scrive su Nature un gruppo di studiosi guidati da Cécile A. J. Girardin, direttrice dell’Oxford Biodiversity Network, e della Nature-based Solutions Initiative.

Sarà impossibile contenere il riscaldamento globale agendo solo sulla riduzione delle emissioni, riportano gli autori, perché settori come l’agricoltura e l’industria pesante non arriveranno mai a zero emissioni entro il 2050, come documenta anche il recente rapporto Net Zero by 2050 dell’agenzia internazionale dell’energia.

Se si vogliono davvero raggiungere gli obiettivi climatici, sarà pertanto necessario rimuovere anidride carbonica dall’atmosfera a velocità e quantità crescenti nei prossimi anni. Per farlo esistono due vie, quella artificiale e quella naturale.

La prima prevede la cattura della CO2 dall’aria e il suo sequestro nel sottosuolo (Carbon Capture and Sequestration – CCS), ma rappresenta una tecnologia ad oggi poco diffusa, dispendiosa e che presenta ancora diverse incognite.

La via naturale mira a rimuovere CO2 riducendone la concentrazione in atmosfera in tre modi almeno: limitando la deforestazione, ripristinando gli ecosistemi e rendendo più efficace la gestione della terra.

Queste soluzioni basate sulla natura (nature-based solutions - NBS) sono secondo gli autori un doppio affare, non solo perché aiutano a mitigare il cambiamento climatico, ma anche perché salvaguardano la biodiversità e, non ultimo, restituiscono benefici socio-economici sostenibili: “ripristinare una foresta nei pressi di un corso d’acqua, ad esempio, riduce la possibilità di alluvioni, aumenta la cattura di anidride carbonica e favorisce il settore ittico”.

Gli autori stimano che queste soluzioni naturali potrebbero far risparmiare 10 miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente (10 Gt di CO2eq) delle circa 34 che emettiamo in atmosfera ogni anno.

Dei 10 miliardi di tonnellate di CO2 non emessi in atmosfera, 4 Gt deriverebbero dalla salvaguardia di foreste e prati già esistenti, il che si tradurrebbe nel sottrarre 270 milioni di ettari alla deforestazione. Altri 4 Gt si risparmierebbero dalla migliore gestione di 2,5 miliardi di ettari (l’85% della quantità di suolo considerato dallo studio) tra terre già destinate a pascoli, colture e legname. 2 Gt verrebbero invece dal ripristino di nuove foreste, acquitrini (tra i più dinamici ecosistemi al mondo) e altre zone verdi per una superficie totale di 678 milioni di ettari (due volte l’India).

Metà dei 10 Gt sarebbero emissioni evitate, l’altra metà emissioni assorbite. Gli autori ricordano anche che piantare nuovi alberi (e spesso poche specie di alberi) non porta gli stessi benefici in termini di cattura di CO2 che reca il mantenimento e la cura di un ecosistema forestale già maturo.

Lo scenario delineato (e sviluppato in particolare da un modello di Bronson W. Griscom, direttore delle natural climate solutions del Conservation International di Arlington, in Virginia – USA) è ambizioso ma realistico, perché considera solo quelle soluzioni naturali che assicurano un’adeguata produzione di cibo e di prodotti derivati dal legname, che garantiscono una sufficiente conservazione della biodiversità e che rispettano i diritti sui terreni assegnati. Un’altra assunzione è che il costo delle soluzioni naturali sia inferiore ai 100 dollari per ogni tonnellata di CO2 catturata. L’impatto di eventi climatici come incendi forestali invece non viene calcolato nel modello.

Gli autori del lavoro però fanno un passo ulteriore e calcolano non solo l’effetto delle soluzioni naturali sulla riduzione delle emissioni, ma anche e soprattutto il loro effetto sul riscaldamento globale al 2100, quando è atteso il picco dell’aumento delle temperature globali. Gli scenari studiati dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) considerano infatti solo una parte delle possibili soluzioni naturali che si potrebbero implementare, mentre il lavoro presentato su Nature da Girardin e colleghi prova a misurare l’impatto delle NBS sulla lotta al riscaldamento globale in quello che chiamano The long game, la partita sul lungo termine.

Al momento siamo sulla traiettoria (linea viola) che ci porterebbe al 2100 ad un aumento di 3°C rispetto all’era preindustriale. Nella traiettoria prevista dal rispetto degli accordi di Parigi (linea blu continua), in cui i Paesi dell’Onu si impegnano a ridurre le emissioni, la temperatura crescerebbe di 2°C: in questo scenario le NBS proposte dagli autori ridurrebbero di 0,3°C questo aumento (linea blu tratteggiata).

Nello scenario più ottimistico in cui gli accordi di Parigi venissero pienamente rispettati (contenere il riscaldamento al di sotto di +1,5°C al 2100 – linea azzurra continua), le NBS consentirebbero di ridurre di 0,4°C il riscaldamento globale (linea azzurra tratteggiata).

È interessante dare uno sguardo anche alle tappe intermedie dell’evoluzione di questi possibili scenari. Il vantaggio maggiore prodotto dalle soluzioni naturali si registrerebbe al 2085: con un atteso riscaldamento di 2°C le NBS ridurrebbero di 0,3°C l’aumento di temperatura. Nel caso il pianeta si scaldasse di 3°C al 2100 invece non si registrerebbe un impatto significativo delle soluzioni naturali rispetto allo scenario dei 2°C, riportano gli autori, anche perché il clima più caldo limiterebbe la capacità degli ecosistemi di assorbire più CO2. Al 2055, quando è già atteso un aumento di 1,5°C, le soluzioni naturali proposte ridurrebbero di soli 0,1°C tale aumento. In altri termini le NBS non avrebbero il tempo necessario per incidere in modo significativo.

Ogni iniziativa basata sulle NBS dovrà però rispettare 4 principi, scrivono gli autori: le soluzioni naturali non sono alternative bensì complementari alle altre misure volte a decarbonizzare le economie; deve venire coinvolto un ampio spettro di ecosistemi; tutte le azioni devono essere intraprese nel rispetto delle popolazioni locali, incluse quelle indigene; infine devono contribuire alla salvaguardia della biodiversità, evitando ad esempio monocolture.

Alcune NBS infatti possono avere effetti tutt’altro che positivi: in Cile ad esempio dal 1986 sono stati aggiunti 1,3 milioni di ettari di pino ed eucalipto che hanno catturato, si stima, 5,6 milioni di tonnellate di CO2. Questa espansione tuttavia è avvenuta a scapito di foreste native che godevano di un maggior tasso di biodiversità. Complessivamente, stima uno studio su Nature Sustaiinability, l’operazione avrebbe diminuito la capacità di assorbimento di 0,05 Mt di CO2eq.

La protezione dalla deforestazione di foreste di mangrovia nell’India orientale invece dal 1985 ha tutelato le aree costiere dall’impatto dei cicloni molto meglio di quanto non abbiano fatto misure artificiali e ha consentito al contempo di catturare efficacemente anidride carbonica, secondo uno studio pubblicato da Cambridge University Press.

La natura ha bisogno di tempi lunghi e per osservare l’effettivo raffreddamento del pianeta ad opera delle soluzioni naturali occorrerà aspettare la seconda metà del XXI secolo. Più alta è l’asticella delle ambizioni, minore è il tempo a disposizione e prima si inizia prima si godrà dei benefici.

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