SOCIETÀ

E se l'isola di Manhattan si ingrandisse? La land reclamation e i problemi per l'ambiente

Lo scorso 14 gennaio, in un pezzo d’opinione pubblicato sul New York Times, Jason M. Barr ha proposto la sua soluzione per risolvere due dei più urgenti problemi della città: la scarsa disponibilità di abitazioni a un prezzo accessibile e la risposta alle conseguenze del cambiamento climatico, a cominciare dalle inondazioni. La sua idea è di prolungare la parte meridionale dell’isola di Manhattan, ricavando circa 7 chilometri quadrati di terreni. In questo modo, secondo quanto ha scritto, si creerebbe un nuovo quartiere poco più grande dell’Upper West Side e ci sarebbe sia lo spazio per un nuovo progetto di edilizia abitativa in linea con le esigenze della popolazione di New York. Allo stesso tempo, la nuova espansione darebbe la possibilità di mettere in campo misure per mitigare l’effetto dell’innalzamento del livello del mare, proteggendo meglio Manhattan.

Secondo Barr, che è un economista e ha scritto molto del rapporto tra sviluppo economico e urbanistica, la sua proposta risolverebbe le maggiori sfide del nuovo sindaco, Eric Adams, che ha preso servizio il primo di gennaio del 2022. Proprio durante la campagna elettorale, si è molto parlato della necessità di almeno 200 mila nuove case per Manhattan. L’espansione, che Barr ha chiamato New Mannahatta dal nome che la popolazione Lenape aveva dato all’isola su cui sorge il cuore di New York City, potrebbe ospitare 250 mila nuove abitazioni. Contemporaneamente “spingerebbe Wall Street e Broad Street più all’interno”, meno lontane dal mare, grazie alla nuova “la penisola [che] può essere progettata con protezioni specifiche lungo la costa per proteggere se stessa e il resto della città dalle inondazioni”.

Non del tutto una novità

In realtà, non si tratta della prima volta che New York City sottrae spazio al mare per ricavarne terreni per i più disparati usi. Proprio nella parte meridionale dell’isola di Manhattan, tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, venne creato Battery Park City (circa 37 ettari). Nello stesso punto c’era stata un’espansione un secolo e mezzo prima per collegare Manhattan a Castle Clinton, un vecchio forte militare costruito nel XVII secolo su di un isolotto anch’esso artificiale. 

Ma la land reclamation più spettacolare è stata quella che all’inizio del Novecento ha creato l’attuale parco di Flushing Meadows, nel Queens. Il progetto originale era di  Michael Degnon, che aveva già costruito il Williamsburg Bridge per collegare il Lower East Side con Brooklyn. L’idea di Degnon era di creare un grande porto commerciale sfruttando la baia creata dal fiume Flushing. Ma per farlo bisognava consolidare una zona paludosa, che venne riempita delle ceneri delle fabbriche di Brooklyn. Per questo motivo, ne Il grande Gatsby, Francis Scott Fitzgerald chiama Flushing Meadows “una valle di ceneri”.

Nel resto del mondo

La pratica di creare terra rubando spazio al mare, quella che in gergo tecnico si chiama “land reclamation”, non è quindi una novità. Per certi versi, molte parti dei sestieri veneziani sono terra creata rubando, in questo caso, alla laguna. Ma anche il rione Orsini di Napoli fu costruito su terra sottratta al mare durante il Risanamento di fine Ottocento.

Fuori da Europa e Stati Uniti, però, ci sono paesi che per esigenze diverse hanno aumentato la propria superficie totale spostando la linea di costa un po’ più in là, come il quartiere di Fontvielle nel Principato di Monaco, costruito negli anni Settanta.  Non è, però, sempre facile calcolare esattamente quanti ettari o chilometri quadrati ogni paese ha sottratto al mare, ma le stime concordano sugli ordini di grandezza che si possono vedere nel grafico. E a dominare la classifica è sempre la Cina. Secondo uno studio recente pubblicato sulla rivista scientifica Global Ecology and Conservation e basato sui dati satellitari, solamente nel periodo 2000-2020 lungo la costa cinese sono stati creati oltre 5 mila chilometri quadrati di nuovi terreni. Secondo un altro studio, pubblicato su PLOS ONE, tra il 2002 e il 2018 il mare di Bohai, l’ampio golfo che separa l’area di Pechino dal Mar Giallo, si sarebbe ristretto del 3% circa.

Nei Paesi Bassi, che hanno circa un terzo del proprio territorio nazionale sotto il livello del mare protetto da dighe, si trova però uno dei più grandi progetti al mondo di land reclamation. Si tratta del Noordoostpolder di Flevoland, un’isola artificiale poco a nord di Amsterdam. Qui, il terreno è stato creato nel 1942 con lo scopo di avere più terreni agricoli a disposizione. Oggi, i suoi poco meno di 600 chilometri quadrati sono abitati da quasi 50 mila olandesi e costellati di fattorie.

Un video dell'Agenzia Spaziale Europea che mostra il Noordoostpolder attraverso i dati satellitari Copernicus

Nelle regioni arabe, il più spettacolare esempio di land reclamation è probabilmente quello rappresentato dalle due Palm Island di Dubai, negli Emirati Arabi Uniti. Le due strutture sono state create per lo sfruttamente turistico. Secondo i calcoli, infatti, la loro costruzione ha permesso di aumentare di circa 520 chilometri la lunghezza della costa della città, favorendo la costruzione di resort e hotel.

Rischi per l’ambiente e il problema della sabbia

Per creare nuovo terreno, la pratica è in principio molto semplice. Si gettano in mare rocce e colate di cemento fino a ottenere la base che può essere poi riempita di sabbia e terra per ottenere lo strato superiore compatto su cui poter costruire o coltivare. Tutto ciò comporta principalmente due problemi per l’ambiente. Il primo è lo sconvolgimento degli ecosistemi locali. Per esempio, un report di Greenpeace East Asia del 2017 sottolinea che i progetti di riempimento delle zone umide costiere nella provincia di Jiangsu, nel nordovest del paese, stava mettendo a serio rischio di scomparsa una specie di uccello, il gambetto becco a spatola (Calidris pygmeus). Già in una condizione definita “critica” dalla lista rossa dell'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN). L’alterazione degli ecosistemi avviene sia sopra, sia sotto il mare, con la potenziale alterazione anche delle correnti marine. 

Inoltre, per le specie marine, un altro problema è la diminuzione della trasparenza delle acque che i lavori provocano. Un reportage sui progetti di land reclamation di Hong Kong pubblicato dallo Young Post, un magazine del quotidiano South China Morning Post, riporta che secondo le stime il cosiddetto Central project di Hong Kong ha messo in sospensione nelle acque 580 mila metri cubi di “limo tossico”. Mescolati alla sabbia, infatti, si trovano anche altri elementi che spesso hanno effetti nefasti sulla vita marina.

Un secondo ordine di problemi è la grande necessità di sabbia per questi progetti, sia che sia usata come ingrediente per il cemento, sia come riempitivo e compattatore del terreno reclamato. Già nel 2015, l’Economist scriveva della fame insaziabile di sabbia del continente asiatico dovuta proprio ai progetti di espansione territoriale. Quando un paese come Singapore finisce le proprie risorse interne di sabbia, si rivolge al mercato. 

Secondo un rapporto del Programma per l’Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP) del 2019, la domanda di sabbia nel continente asiatico nel primo ventennio del XXI secolo è cresciuta al ritmo di 50 miliardi di tonnellate l’anno, più di qualsiasi altra risorsa primaria. Le conseguenze, si legge nel documento, sono “inquinamento, inondazioni, abbassamento delle falde acquifere e siccità”. In poche parole, pochi chilometri quadrati di terreno in più mettono a rischio habitat di specie a rischio, alterano gli ecosistemi costieri e le correnti marine, oltre a generare un mercato della sabbia che può avere anche componenti criminali, come riporta un approfondimento sulla Cambogia pubblicato da NPR. I grandi fiumi, infatti, sono luoghi ideali per l’estrazione, nonostante questo provochi più spesso che non la distruzione di interi villaggi.

 

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