CULTURA

L’università delle donne. Le studentesse, tra realtà e stereotipi

“Non vi è dubbio che in maggioranza percorreranno fino in fondo la carriera, diventeranno avvocato, architetto, medico, economista, insegnante, ingegnere, persino veterinario, a dispetto dei pregiudizi che i loro compagni di studio ancora dimostrano sulla funzione della donna-lavoratrice nella società moderna. Molte donne laureate hanno già dimostrato validamente che la superiorità maschile è soltanto presunzione; la brava professionista vale l’uomo”. Nel 1964 su La Stampa, Francesco Rosso concludeva in questo modo un lungo articolo frutto di un’inchiesta sulle condizioni all’università Bocconi di Milano.

A emergere era il tono di sufficienza e ironia con cui studenti e professori parlavano delle studentesse che, secondo quanto veniva riferito, avrebbero avuto scarso interesse per lo studio e sarebbero state invece motivo di distrazione. Il giornalista sottolineava, tuttavia, che un esame più attento della situazione consentiva di confutare molti luoghi comuni, dimostrando che le donne mettevano in realtà nello studio un impegno pari o addirittura superiore agli uomini, e che spesso dovevano affrontare sacrifici per conseguire la laurea, dato che in larga parte erano ragazze che lavoravano, come maestre o ragioniere.

È, questo, solo uno degli episodi raccontati nel volume L’università delle donne da Alessandra Gissi, professoressa di storia contemporanea all’università di Napoli “L’Orientale”, che, attraverso una disamina di saggi, opere letterarie, articoli di giornale, dimostra come le studentesse fin dal loro ingresso formale nelle università – con i decreti Bonghi-Coppino del 1875 e 1876 – vengano rappresentate spesso come figure perturbanti, fuori posto, precarie. Contribuendo alla nascita di stereotipi che, solo a partire dagli anni Sessanta, sarebbero stati decostruiti.

Guarda l'intervento completo della storica Alessandra Gissi. Servizio di Monica Panetto, montaggio di Barbara Paknazar

Nonostante infatti all’inizio del Novecento le poche studentesse universitarie – meno di 2.000 nel 1914, a fronte di 29.624 immatricolazioni – si siano ritagliate anche uno spazio politico (come del resto molte donne nel corso del XIX e XX secolo), vengono rappresentate come protagoniste costanti di avventure nella cronaca cittadina e nei romanzi d’appendice. Sono dipinte come ragazze quasi sempre avvenenti, o almeno graziose, costantemente in viaggio, esposte ai pericoli, con la valigia in mano, pronte a spostarsi dai paesi di origine alle città universitarie.

Durante gli anni del fascismo il numero delle studentesse nelle università cresce. Nel 1945 sono immatricolati negli atenei d’Italia 142.033 studenti e 47.632 studentesse. Di queste solo 6.220 giungono alla laurea. Le facoltà più frequentate sono ancora quelle che offrono l’insegnamento come sbocco professionale: nell’anno accademico 1934-35, riferisce Gissi, 602 donne si laureano in Lettere e filosofia, 174 in Scienze matematiche, fisiche e naturali e 341 in Magistero. Solo 83 in Medicina e chirurgia. Nel dopoguerra, intanto, si insiste con la narrazione di universitarie irrequiete e sventate, facile preda di sconosciuti, costantemente salvate da poliziotti, operai, ferrovieri. A questa immagine negli anni Cinquanta si aggiunge quella di studentesse suicide, cui rimanda frequentemente la stampa dell’epoca, di ragazze fuori posto, soprattutto quando fuori sede.

È nella seconda metà del Novecento, via via, che la situazione comincia lentamente a cambiare. Con la trasformazione degli atenei in università di massa tra gli anni Sessanta e Ottanta, inizia quella decostruzione di ruoli e stereotipi, che ancora oggi è in corso non senza difficoltà. “Nel 1968 le ragazze sono un terzo degli iscritti totali all’università […]. La svolta nell’iconografia delle studentesse è radicale – scrive Gissi –. Fino a quel momento sono state soprattutto corpi in pericolo, anime tristi e perdute […]. Sul finire del decennio le studentesse sono corpi vivi, in movimento nello spazio urbano, nella dinamica politico-sociale”.

Alcune narrazioni e luoghi comuni, tuttavia, faticano a scomparire del tutto, evidenzia la docente: il cantautore Simone Cristicchi nella sua Studentessa universitaria dipinge ancora una ragazza “triste e solitaria”, nella sua “stanzetta umida”, mentre ripassa la lezione di filosofia e, in una metropoli alienante, ripensa con nostalgia al suo paese. A consolarla è la “bella novità” che intuisce accarezzandosi la pancia, perché “la vita non è dentro un libro di filosofia”, conclude Cristicchi che pubblica il singolo nel 2005.

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