Era il 1974 quando Mario Molina e Frank Sherwood Rowland pubblicarono su Nature un articolo che puntava il dito contro alcune sostanze di sintesi, chiamate CFC (clorofluorocarburi), capaci di volare verso la stratosfera e lì rilasciare atomi di cloro in quantità sufficiente da attaccare il prezioso strato di ozono che protegge la superficie della Terra dai raggi ultravioletti.
Era l’inizio di un frenetico processo che porterà nel 1987, in appena 12 anni, al “Protocollo di Montreal” – di fatto una legge delle Nazioni Unite – che auspica il phase out totale e inizia a mettere al bando, per la prima volta nella storia, un’intera classe di composti chimici di sintesi, i CFC appunto.
Mario Molina e il suo collega, Rowland, avevano individuato la causa del meccanismo di distruzione dell’ozono stratosferico. Ed era una causa tutta umana. I CFC, infatti, sono sostanze che non esistono in natura, sono state sintetizzate in laboratorio e messe in commercio a partire dagli anni ’30 del secolo scorso per trovare impiego in molti settori, a partire da quello dei frigoriferi.
Quello del 1974 fu un articolo seminale che concentrò l’attenzione sul problema dell’ozono. Analizzando intere annate di dati raccolti dal satellite, Molina e altri si accorsero della rapida diminuzione della concentrazione del gas nella stratosfera antartica, crollata del 40% tra il 1975 e il 1984. Si iniziò a parlare del “buco”, anche se in realtà si trattava (e si tratta) dell’assottigliamento dello strato che l’ozono forma ad alcuni chilometri di altezza, svolgendo un ruolo di equilibrio impagabile per la biosfera. L’ozono stratosferico assorbe, infatti, il 90% della radiazione ultravioletta proveniente dal Sole. Una radiazione che è particolarmente aggressiva per gli organismi viventi.
Molina e Rowland insieme a Paul Crutzen capirono prima e meglio di altri che la diminuzione dell’ozono stratosferico, particolarmente accentuata al Polo Sud e al Polo Nord, era catalizzata attraverso una serie di complesse reazioni chimiche soprattutto dai clorofluorocarburi. Crutzen è considerato oggi uno dei padri del concetto di Antropocene, una nuova era geologica in cui il maggiore fattore dinamico sono gli umani. I tre riceveranno il premio Nobel per la Chimica nel 1995.
Ma meriterebbero un premio ulteriore – un premio che ancora non c’è – per aver attivamente messo sull’avviso le istituzioni e l’umanità intera del pericolo, un pericolo che poteva essere contrastato. Bastava poco, in fondo: mettere d’accordo tutti i paesi della Terra e privilegiare l’ambiente rispetto all’economia.
Un’impresa titanica. Al limite dell’impossibilità. Mai prima d’allora qualcuno era riuscito a fare tanto. Ma evidentemente Molina credeva nell’impossibile. In pochissimi anni lui e i suoi colleghi chimici resero consapevoli i politici del pericolo e della necessità /possibilità di contrastarlo.
Così, nel giro di pochi anni, si arrivò al Protocollo di Montreal (firmato il primo settembre 1987) per limitare l’uso dei CFC e di altre sostanze similari. L’accordo internazionale prevedeva che fossero dapprima i paesi ricchi a mettere al bando i CFC. Poi all’inizio degli anni ’90 la decisione comprese tutti i paesi si arrivò così al phase out, la quasi totale eliminazione delle sostanze, con una decisione politica internazionale senza precedenti. Il guaio è che i CFC sono stabili e dunque restano in atmosfera per decenni. Insomma, gli scienziati previdero che malgrado la radicale soluzione, gli effetti sostanziali si sarebbero avvertiti solo intorno al 2020. Fu, dunque, una decisione per il lungo periodo.
Mario Molina poteva essere contento. Lui, con Rowland e Crutzen, aveva dimostrato che il sistema climatico del pianeta è molto delicato e può cambiare rapidamente; che l’azione di quell’attore ecologico globale che è l’uomo ha un’incidenza misurabile, nel male, ma anche nel bene, e che molte delle perturbazioni indotte dagli umani sono reversibili.
Qualcuno avanzò l’idea che la vicenda dell’ozono potesse essere un modello anche per affrontare il problema dei cambiamenti climatici indotti dall’uomo, di cui proprio negli anni ’70 iniziava a esserci consapevolezza. Ma quello del clima era (ed è) un problema molto più grande, che coinvolge l’economia a livelli ben più profondi. D’altra parte, a saperla leggere, la stessa vicenda dell’ozono ha dimostrato che le nazioni risolsero il problema giungendo al phase out totale solo quando sul mercato apparvero i sostituti dei CFC: gli HCFC, sostanze poco costose e facilmente sintetizzabili.
La vicenda dei cambiamenti climatici nei suoi aspetti politici oltre che fisici è ancora in atto. Non siamo ancora giunti al phase out dai combustibili fossili e alla loro sostituzione con fonti energetiche rinnovabili e carbon free. Ma il “modello Molina” resta in piedi: la comunità scientifica che individua il problema e si batte attivamente per risolverlo, collaborando con la politica.
A questo modello non c’è alternativa, per risolvere i problemi ambientali indotti dall’uomo. D’altra parte lo stesso Mario Molina ha continuato a farlo anche dopo Montreal. Non ha caso, come rileva la rivista Nature, è stato il consigliere più ascoltato da Barack Obama, il presidente che a Parigi nel 2015 per la prima volta portò gli Stati Uniti alla testa del vagone planetario impegnato contro i cambiamenti climatici.
Vicepresidente degli Stati Uniti era allora Joe Biden, che si accinge a rientrare alla Casa Bianca dopo aver battuto Donald Trump e la sua politica attivamente scettica sui problemi ambientali, globali e locali.
Mario Molina avrebbe avuto certamente un ruolo nel ribaltare la politica di Trump. Ma, purtroppo, è morto all’inizio dello scorso mese di ottobre. Non ha fatto in tempo a vedere l’esito delle elezioni americane. Resta, incancellabile, il suo insegnamento.