MONDO SALUTE
Microbiota e salute mentale. Alla ricerca di una dieta contro lo stress
Che l’intestino sia il nostro “secondo cervello” non è solo un modo di dire. Diversi studi hanno infatti mostrato che la composizione e la stabilità del microbiota intestinale (la popolazione di quei batteri buoni che ci permettono di digerire il cibo) siano in grado di influenzare i processi cerebrali, con effetti che possono interessare la salute mentale e le funzioni cognitive, confermando l’esistenza di un sistema di comunicazione bidirezionale che nella letteratura scientifica viene chiamato asse intestino-cervello (gut-brain axis).
Un microbiota sano ed efficiente (che regola il metabolismo e garantisce una corretta assimilazione delle sostanze nutritive) è un microbiota ricco, biodiverso (che comprende un’alta varietà di batteri differenti) e stabile (in cui la quantità e la varietà dei batteri tende a non oscillare troppo nel corso del tempo). A influenzare la composizione e l’equilibrio del nostro microbiota concorre un mix di fattori di predisposizione genetica, condizioni ambientali, abitudini alimentari, stili di vita e livelli di stress.
Diversi studi che hanno approfondito le caratteristiche dell’asse intestino-cervello hanno mostrato che le persone con stress, ansia o malattie mentali corrono un rischio maggiore di soffrire di problemi gastrointestinali, e viceversa; anche l’equilibrio del microbiota, infatti, può influenzare la salute mentale.
L’esistenza e l’efficacia di specifiche diete psicobiotiche (che sfruttano l’asse intestino-cervello per produrre degli effetti positivi sul benessere mentale) sono state spesso oggetto di studio nell’ultimo decennio. Molti di questi lavori di ricerca si sono occupati di testare tali effetti su singoli prodotti alimentari. Eppure, tutti noi assumiamo quotidianamente un insieme di cibi differenti che compongono la nostra dieta. Per questo motivo, è verosimile immaginare che determinate combinazioni di alimenti possano avere un impatto diverso a livello mentale.
Per questo motivo, un gruppo internazionale di ricercatori ha svolto uno studio per testare gli effetti di un’intera dieta psicobiotica, basata principalmente sul consumo di cibi fermentati o ricchi di fibre, su un gruppo di 24 adulti sani per un periodo di tempo di quattro settimane. Confrontando i livelli di stress delle persone che avevano seguito la dieta con quelli di un gruppo di controllo (composto da 21 persone che invece non l’avevano seguita), gli autori hanno constatato che il programma alimentare da loro delineato era effettivamente in grado di ridurre lo stress. Lo studio è particolarmente importante anche perché ha indagato gli effetti della dieta sulla composizione del microbiota, oltre che sulle funzionalità cognitive e psicologiche.
👉🍏Using a psychobiotic dietary intervention, @BerdingHarold et al. identified metabolic changes in the gut #microbiota and reduced perceived #stress ⚡️during, but not after, the intervention in healthy participants.@TedDinan @jfcryan @ucc @molpsychiatryhttps://t.co/eXK9zKkGHd
— Nature Mental Health (@NatMentHealth) November 4, 2022
Gli autori hanno reclutato solo soggetti sani (privi di malattie fisiche o mentali), con cattive abitudini alimentari (caratteristica rilevata attraverso una visita dietologica) che non facessero uso di farmaci. Al momento del reclutamento sono stati misurati i livelli di ansia di base dei partecipanti, i quali sono anche stati sottoposti all’analisi di alcuni campioni biologici (sangue intero, plasma, urine e feci).
La dieta psicobiotica che è stata prescritta al gruppo di intervento prevedeva un consumo elevato di fibre (da assumere attraverso alimenti come cereali integrali, frutta e verdura prebiotica e legumi) e cibi fermentati (come crauti, kefir o kombucha) e non comprendeva dolci, zuccheri e, in generale, nessun “cibo spazzatura”. Il gruppo di controllo ha seguito invece una dieta diversa, che era comunque composta da cibi sani ma non mirata a massimizzare il consumo di cibi fermentati o ricchi di fibre.
Tutti i partecipanti hanno dovuto seguire la dieta loro indicata per quattro settimane dopo essere stati istruiti sulle modalità e le quantità da rispettare. Inoltre, per tutta la durata dell’esperimento i volontari non potevano assumere integratori alimentari di nessun genere e dovevano svolgere dell’attività fisica. Durante l’esperimento, i partecipanti sono stati seguiti dagli esperti che periodicamente hanno somministrato loro dei questionari per valutare come stesse procedendo la dieta e li hanno aiutati a compilare un diario alimentare.
Al contrario dei partecipanti inclusi nel gruppo di controllo, i soggetti che facevano parte del gruppo di intervento hanno riportato una diminuzione del 32% dei livelli di stress percepiti rispetto a quelli rilevati durante il reclutamento (cioè prima di iniziare a seguire la dieta). Costoro hanno anche sperimentato un miglioramento più consistente, rispetto al gruppo di controllo, della qualità del sonno.
Anche la composizione e il funzionamento del microbiota erano mediamente migliori nelle persone che avevano seguito la dieta psicobiotica rispetto al gruppo di controllo, nonostante tale differenza non fosse consistente quanto si aspettassero gli autori. In ogni caso, i risultati dello studio suggeriscono comunque l’esistenza di una correlazione tra un migliore livello di benessere mentale e un microbiota stabile. Questa tesi è convalidata anche dal fatto che le persone che hanno seguito la dieta più attentamente erano anche quelle che avevano sperimentato una diminuzione più elevata dei livelli di stress.
Come sottolineano gli autori, continuare a indagare il potenziale psicobiotico di questa e altri tipi di diete potrebbe portare, in futuro, a risultati abbastanza solidi da poter essere utilizzati in contesti clinici per sviluppare nuovi approcci terapeutici mirati non solo alla cura dei disturbi gastrointestinali, ma anche di quelli mentali.
Insomma, è ancora presto per correre al supermercato a fare scorta di yogurt e biscotti integrali per la colazione. Più che un traguardo, quello raggiunto dagli autori va considerato un primo passo verso una conoscenza più approfondita del ruolo che giocano le abitudini alimentari nell’asse intestino-cervello, i cui meccanismi restano ancora, in parte, sconosciuti.