SOCIETÀ

Dall'antichità al boom industriale: storia (e rischi) del chewing gum

C’è chi la considera un modo per passare il tempo, chi la usa per rinfrescare l’alito, e chi invece la vive come un’abitudine fastidiosa. Oggi milioni di persone consumano gomma da masticare: ce ne sono di tutti i tipi e per tutti i gusti, e alcune contengono anche principi attivi. Dopo i cioccolatini e le caramelle, i chewing gum sono al terzo posto nel mercato dolciario globale. Nel 2014 il valore delle vendite del mercato mondiale è stato stimato intorno ai 25 miliardi di dollari: secondo alcuni studi, nel 2025 il fatturato toccherà i 48,68 miliardi. La regione europea detiene quasi il 30% della quota totale di mercato.   

Accanto a una diffusione così ampia, nel tempo tuttavia sono emerse criticità legate ai componenti utilizzati nella produzione. Oltre all’impatto ambientale legato alla gestione dei rifiuti, alcuni ricercatori sollevano l’ipotesi che le gomme da masticare possano costituire anche una fonte di esposizione a microplastiche per l’essere umano. In proposito abbiamo chiesto un parere a Sara Bogialli, professoressa di chimica analitica all’università di Padova. 

Dalle prime gomme naturali ai chewing gum medicati

Partiamo da lontano, quando il chewing era di origine naturale. Secondo le fonti, le origini della gomma da masticare andrebbero fatte risalire ai Maya, che usavano questa resina naturale per pulire i denti e controllare la fame. Si praticavano delle incisioni sul tronco di un particolare tipo di pianta, la Manilkara chicle, si raccoglieva la sostanza che ne colava e la si bolliva in appositi contenitori fino a raggiungere la giusta consistenza. Il primo a mettere in commercio il prodotto – ottenuto in questo caso dalla linfa dell’abete rosso, tradizionalmente usata dagli indiani d’America – fu John B. Curtis, che nel 1848 produsse la State of Maine Pure Spruce Gum, con una ricetta rimasta a lungo segreta. Curtis però non brevettò mai la sua invenzione e a pensarci fu William Finley Semple, un dentista dell’Ohio, il 28 dicembre 1869: la gomma veniva mescolata ad altre sostanze, come gesso e carbone, e doveva avere principalmente la funzione di mantenere l’igiene orale. Il sapore, però, non era sufficientemente gradevole e ciò ne impedì la vendita. Qualche anno più tardi, Thomas Adams aggiunse ingredienti come lo zucchero e la liquirizia, e arrivò a commercializzare la prima gomma americana piacevole al palato e in forma di stick. Era il 1884 e il prodotto si chiamava Black Jack. 

Oggi sono in commercio chewing gum di vario tipo, classificabili principalmente in quattro gruppi: con zucchero, senza zucchero, rivestiti e medicati. I primi contengono quasi l’80% in peso di zuccheri, come il saccarosio e lo sciroppo di glucosio, miscelati con gomma base, cioè la componente masticabile, e altri ingredienti. La principale differenza tra chewing gum con zucchero e senza zucchero sta nella sostituzione dello zucchero e dello sciroppo di glucosio con polioli (come sorbitolo e xilitolo, cioè dolcificanti naturali a basso contenuto calorico) o dolcificanti ad alta intensità (come aspartame, sucralosio, acesulfame K, molto dolci anche in piccole dosi). 

Le gomme da masticare medicate sono invece “sostanze nutritive o composti farmaceutici incorporati nel prodotto per promuovere funzioni specifiche del nostro organismo e prevenire alcuni disturbi”. I chewing gum medicati sono prodotti, per esempio, per la prevenzione e la terapia della nausea, del mal d’auto, per la disassuefazione dal fumo. Le gomme contenenti nicotina sono considerate tra le terapie farmacologiche di prima linea per aiutare a smettere di fumare. Senza contare che la Fdi World Dental Federation, l’American Dental Association e l’European Food Safety Authority riconoscono il chewing gum senza zucchero come uno strumento utile nella prevenzione della carie. Che non prescinde, ovviamente, dal quotidiano spazzolamento dei denti. 

Gomma base, la componente masticabile e insolubile

Zuccheri, dolcificanti, aromi, coloranti costituiscono la parte idrosolubile del chewing gum, che si dissolve nella saliva durante la masticazione (water-soluble phase) ed è quasi completamente biodegradabile. Al contrario la componente masticabile, cioè la gomma base, è insolubile in acqua (water-insoluble phase). La sua formula esatta e gli ingredienti precisi sono protetti da segreto industriale. Come osservano alcuni ricercatori: “Nonostante l’enorme mercato delle gomme da masticare e la presenza di un elenco dei principali ingredienti della gomma base nel Codice dei Regolamenti Federali e in alcune organizzazioni internazionali, in letteratura manca una sufficiente informazione sulla sua composizione”.

Ci sono tuttavia alcuni elementi tipici che la compongono: tra questi gli elastomeri, macromolecole con proprietà elastiche, che possono essere di origine vegetale o sintetiche; solventi per elastomeri  che ammorbidiscono il composto gommoso; plastificanti di origine vegetale o sintetica che ne migliorano la masticabilità; cariche o filler che riducono l’appiccicosità, migliorando la sensazione in bocca; cere che mantengono la base morbida ed elastica; antiossidanti che rallentano il deterioramento del prodotto.

Le gomme di origine vegetale (ottenute per esempio da piante come il guayule o il massaranduba) sono la materia prima più comunemente usata per produrre elastomeri naturali: sono “biodegradabili, chimicamente inerti, non tossiche, poco costose, ampiamente disponibili, compostabili, meno appiccicose”. Gli elastomeri sintetici invece (come poliisobutene o stirene-butadiene) sono ottenuti dalla lavorazione del petrolio. 

“La maggior parte delle gomme da masticare commerciali disponibili sul mercato – scrivono gli autori di uno dei paper che abbiamo consultato – non sono degradabili a causa dei composti presenti nella gomma base e, per quanto riguarda le preoccupazioni ambientali, sono attualmente in corso sforzi per sostituirli con composti naturali e biodegradabili”. Secondo gli studiosi esempi di polimeri biodegradabili che si potrebbero utilizzare come basi per gomme da masticare includono poliesteri, poliesterammidi, polipeptidi. 

Plastiche e microplastiche

Secondo le stime, il consumo annuo di gomme da masticare nel mercato globale si colloca intorno alle 560 mila tonnellate, e questo genera circa 250 mila tonnellate di rifiuti di gomma base ogni anno: se la gomma da masticare biodegradabile si degrada nell’ambiente in circa tre anni, le gomme sintetiche rimangono praticamente inalterate per tempi molto lunghi. “La gomma da masticare – sottolineano senza mezzi i ricercatori – è una fonte di inquinamento da plastica in tutto il mondo”. 

E, secondo uno studio presentato nel corso di una recente conferenza organizzata dall’American Chemical Society, le gomme da masticare potrebbero anche essere una fonte di esposizione a microplastiche per l’essere umano. Va precisato che la ricerca in questione non è ancora stata sottoposta a peer review né pubblicata in alcuna rivista scientifica. Inoltre, non sono state riscontrate differenze rilevanti nel rilascio di microplastiche tra gomme di origine naturale e sintetica. 

“I ricercatori – argomenta Sara Bogialli – hanno impiegato una tecnica strumentale che rappresenta, dal punto di vista metodologico, lo stato dell’arte per l’osservazione delle microplastiche in un determinato intervallo dimensionale, ossia quello delle particelle microscopiche, escludendo le più piccole”. Ricordiamo che le microplastiche hanno una grandezza che varia da 1 μm a 5 mm, le nanoplastiche sono inferiori a 1 μm.

“Ciò che generalmente rappresenta l’aspetto più critico — e che quindi non è possibile valutare senza avere accesso all’intero articolo — è il processo di preparazione dei campioni. Le microplastiche sono presenti nella nostra vita quotidiana, incluso l’ambiente di laboratorio. Per questo lavorare in condizioni di estrema pulizia, prive di qualsiasi fonte di contaminazione da microplastiche, è fondamentale per garantire l’affidabilità delle analisi. A tale scopo esistono laboratori appositamente attrezzati, camere bianche, proprio per evitare la contaminazione dei materiali da esaminare, che è la fase più critica delle analisi sulle microplastiche. Quindi questo è un aspetto da verificare in un articolo sottoposto a revisione, per capire l'affidabilità delle misure”.

Fonti di esposizione a microplastiche, ambientali e alimentari

Sara Bogialli sottolinea che esistono evidenze secondo cui le fonti di esposizione a microplastiche possono essere sia ambientali che alimentari e riferisce che il tasso medio globale di microplastiche ingerite (Global Average Rate of Microplastics Ingested) è stato stimato in 0,7 grammi a settimana. Le stime preliminari indicano che gli esseri umani potrebbero ingerire tra 0,1 e 5 grammi di microplastiche a settimana. 

“Negli ultimi anni si è andato consolidando un corpus crescente di conoscenze sulle possibili fonti di esposizione a microplastiche”. E questo grazie anche al progresso nelle tecniche di analisi: “Uno dei principali ostacoli era rappresentato proprio dalla disponibilità di strumentazioni adeguate e dalla capacità di ottenere misure affidabili. Con l’introduzione di standard condivisi – e, in alcuni casi, come per le acque potabili, di veri e propri metodi ufficiali – la possibilità di effettuare analisi è diventata più accessibile a molti laboratori a livello internazionale”. Questo sta permettendo di costruire un quadro sempre più articolato delle diverse vie di esposizione, con nuovi studi che aggiungono progressivamente altre matrici ambientali o alimentari da analizzare.

“Nella composizione della gomma da masticare vengono impiegati polimeri, anche come riempitivi, e la maggior parte di questi, quando non sono di origine naturale e biodegradabile, deriva proprio dalla lavorazione del petrolio. Quel tipo di polimeri, insieme ad altri, può andare incontro a processi di degradazione – meccanica, o di altro tipo – che portano alla formazione di microplastiche. Questo può avvenire direttamente nel prodotto oppure in seguito a degradazione ambientale: pensiamo agli agenti atmosferici o all’interazione con il mondo biologico. Dunque, l’ipotesi che le gomme da masticare possano contribuire all’esposizione a microplastiche non è irragionevole, soprattutto alla luce della loro composizione. Dove c’è plastica, ci può essere microplastica”. 

Conseguenze legate alle dimensioni

 “I derivati del petrolio, come i polimeri, vengono impiegati in diverse applicazioni, inclusi prodotti destinati all’uso umano, in cui però non è mai stata evidenziata una tossicità diretta. Dal punto di vista chimico proprio la loro natura non biodegradabile implica una scarsa capacità di interagire con il sistema biologico”. In pratica, si tratta di materiali molto resistenti che non partecipano alle reazioni biochimiche. “Oggi, con l’attenzione crescente alle microplastiche, ci si interroga non tanto sulla tossicità di tipo chimico quanto sulle possibili conseguenze legate alle loro dimensioni: particelle dell’ordine del micro o del nanometro possono infatti interagire, dal punto di vista fisiologico, con enzimi, proteine o altri meccanismi metabolici dell’organismo. È proprio la frammentazione in pezzi così piccoli a renderli capaci di entrare in contatto con il sistema biologico”. Dunque non è tanto una questione di composizione ma di dimensione e scala d’interazione.

Bogialli osserva che la questione è più immediata da osservare dal punto di vista ambientale: un materiale molto resistente, che non si degrada facilmente nelle condizioni naturali, tende a persistere nell’ambiente per lunghi periodi. Proprio perché non interagisce in modo efficace con un sistema biologico capace di degradarlo, finisce per accumularsi e diventare un rifiuto che deve essere smaltito, poiché non viene eliminato naturalmente. In questo senso, è evidente come la non biodegradabilità rappresenti un problema ambientale.
“Ora si sta indagando se le microplastiche siano in grado di interagire con i nostri sistemi biologici, proprio a causa delle loro dimensioni ridotte. E comincia a emergere una serie di evidenze a sostegno di questa ipotesi, anche se serve ancora tempo per costruire una base scientifica solida che consenta di dire con certezza quali siano gli effetti sul corpo umano. Al momento, le interazioni tra microplastiche e organismi viventi sono state osservate soprattutto in modelli di laboratorio e in studi su animali. Mancano ancora ricerche sull’essere umano”. 

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