SCIENZA E RICERCA

Nuovi fossili in Israele e Cina raccontano il farsi di una diversa umanità

Il bello dello studio dell’evoluzione umana è che ogni volta che viene fatta una nuova scoperta bisogna capire se quello che già sapevamo è compatibile con le nuove evidenze. “Il bello è proprio questo e lo scopo del gioco è far tornare i conti” commenta Giorgio Manzi, paleoantropologo della Sapienza di Roma, tra i firmatari di un recente lavoro uscito su Science che descrive una delle due nuove scoperte, quella israeliana, che hanno scombinato i pezzi del puzzle paleoantropologico. “Io sono scettico quando c’è la novità clamorosa, perché vuol dire che i conti non stanno tornando”. L’altro recente ritrovamento è un cranio fossile rinvenuto in Cina, che secondo gli autori del lavoro, pubblicato su The Innovation, apparterrebbe a una nuova specie del genere Homo.Se invece la novità è sì importante ma rientra in un quadro possibile già previsto da alcuni modelli allora… stiamo più tranquilli”.

Intervista a Giorgio Manzi, paleoantropologo della Sapienza di Roma

Nesher Ramla, Israele, 130.000 anni fa

Il Medio Oriente è sempre stato nella storia dell’evoluzione umana un corridoio da cui sono passate diverse ondate migratorie in uscita dall’Africa e dirette verso l’Eurasia. Non solo Homo sapiens, che negli ultimi 200.000 anni almeno è uscito a più riprese dal continente in cui la nostra specie ha avuto origine, ma anche forme più arcaiche, tra cui Homo heidelbergensis, sono partite dall’Africa negli ultimi 2 milioni di anni e si sono avventurate alla conquista di nuove nicchie ecologiche.

In Medio Oriente hanno anche convissuto nello stesso periodo diverse specie umane, alcune delle quali sappiamo essersi persino accoppiate tra loro. Ha avuto luogo qui, intorno a 60.000 anni fa (o anche prima), la più prolungata fase di ibridazione tra Homo sapiens e Homo neanderthalensis (quest’ultima è una specie nata più di 400.000 anni fa in Europa da Homo heidelbergensis) che oggi conosciamo e che ha lasciato tracce di DNA neanderthaliano, almeno il 2%, nel patrimonio genetico di tutti gli esseri umani che oggi abitano la Terra, a parte gli Africani sub-sahariani.

Un nuovo studio pubblicato su Science lo scorso 25 giugno presenta il ritrovamento in Israele, più precisamente nel sito di Nesher Ramla, di resti fossili (una parte di una mandibola e l’osso parietale di un cranio) che testimoniano la presenza di una popolazione umana arcaica in Medio Oriente attorno a 130.000 anni fa, alla fine del Pleistocene Medio. Gli autori del lavoro registrano in questi reperti la presenza di tratti morfologici tipici del tardo Neanderthal (tratti derivati), ma anche caratteri associati a forme ben più arcaiche.

La struttura dei molari, secondo l’antropologa Rachel Sarig, tra gli autori dello studio, assomiglia a quella di un individuo del genere Homo ritrovato nella grotta di Qesem, in Israele, la cui datazione è stata fatta risalire a 400.000 anni fa.

Il gruppo di studiosi, guidati da Israel Hershkovitz dell’università di Tel Aviv, suggerisce addirittura che si possa trattare di una delle prime popolazioni arcaiche da cui sarebbero poi nati i Neanderthal, interpretazione che però è stata messa in discussione, tra gli altri, da Jean-Jacques Hublin, che non ha partecipato allo studio: il paleoantropologo francese sostiene che la popolazione di Nesher Ramla è troppo recente per poter essere considerata il gruppo alla base dell’evoluzione dei Neanderthal.

Allo studio ha partecipato anche il gruppo di paleoantropologia della Sapienza di Roma guidato da Giorgio Manzi: “In questo periodo nel Medio Oriente si delinea un grande scenario, sia per cronologia sia per geografia, ed è qui che i nostri reperti israeliani, questa mandibola incompleta e queste porzioni di cranio, si collocano. Possono raccontare una storia molto interessante, ma quale storia esattamente raccontino è oggetto di interpretazione”.

La paleoantropologia è una disciplina che deve accontentarsi dei pochi dati che il tempo risparmia dall’oblio e a partire da quelli deve provare a ricostruire il dispiegarsi dell’evoluzione. Se si è davvero abili, ma soprattutto fortunati, si riesce anche a estrarre il DNA dal reperto fossile e le informazioni genetiche possono dare un contributo davvero prezioso nel raccontare la nostra storia profonda. “Per ora abbiamo a disposizione solo i dati della morfologia” spiega Manzi “che ci dicono che in questi reperti sono chiaramente visibili tracce di morfologia neanderthaliana combinate con tracce di morfologia altra, più arcaica. Questo mosaico di caratteristiche può essere interpretato in vario modo. Noi, come gruppo che ha firmato il paper, un gruppo molto nutrito, numeroso, internazionale, guidato dai colleghi israeliani, abbiamo optato per l’ipotesi secondo cui questi reperti indichino un contributo possibile del vicino Oriente all’Europa: ovvero, anche le popolazioni del vicino Oriente possono aver contribuito “al farsi” dell’umanità che chiamiamo Homo neanderthalensis”.

Neanderthal, sì o no?

Un’altra possibile interpretazione che si potrebbe dare a quei dati è quella secondo cui i resti di Nesher Ramla apparterrebbero a una popolazione di Homo neanderthalensis partita molto prima dall’Europa, dove la specie ha avuto origine a partire da forme umane più arcaiche di Homo heidelbergensis, e che ha raggiunto il Medio Oriente portando quei tratti arcaici tipici delle prime forme Neanderthal. “Secondo me questa è una spiegazione plausibile” commenta Manzi. “Naturalmente è stata una delle possibili interpretazioni di cui abbiamo discusso come gruppo di ricerca. Poi proprio in quanto gruppo la discussione è dovuta arrivare a una sintesi, e la sintesi ha prevalso in una direzione piuttosto che in un’altra”.

“Personalmente ritengo che questa chiave di lettura sia più che legittima” continua Manzi riferendosi all’ipotesi della discesa dei primi Neanderthal europei in Medio Oriente. “Tra l’altro coinciderebbe con altri dati che abbiamo, cioè il fatto che l’evoluzione dei Neanderthal sia un fatto eminentemente europeo, che va avanti da alcune centinaia di millenni, a partire ad esempio dai resti di Sima de los Huesos ad Atapuerca, in Spagna, fossili Neanderthal che hanno datazione intorno ai 400.000 anni. Anche qui in Italia abbiamo esempi molto interessanti di un Neanderthal che si sta facendo, diciamo così, proprio a Roma, a Saccopastore. Lo stesso dicasi per l’uomo di Altamura, in Puglia, altro importante reperto italiano di Neanderthal, risalente a circa 150.000 anni fa. Anche qui troviamo un mosaico di caratteristiche derivate e arcaiche, mentre altrove in Europa i tratti neanderthaliani erano già più abbondanti”.

“Insomma, le caratteristiche di un Neanderthal che si sta facendo le osserviamo in Europa, ma ne osserviamo oggi una piccola traccia anche in Medio Oriente. E in fondo la notizia sta qui” sottolinea Manzi. In Medio Oriente erano già noti resti di Neanderthal, come quelli di Kebara o di Sanidar (60.000 – 40.000 anni fa). Oggi i resti di Nesher Ramla in Israele ci dicono che le caratteristiche di Neanderthal in fieri c’erano in Vicino Oriente già 140.000 anni fa.

Interazioni culturali tra forme umane in Medio Oriente

Un altro elemento interessante che emerge dai reperti di Nesher Ramla riguarda la dimensione comportamentale o, come la chiamano gli evoluzionisti, culturale (che si distingue da quella strettamente biologica e morfologica). Nello stesso livello stratigrafico in cui sono stati rinvenuti i resti ossei studiati da Giorgio Manzi e colleghi, sono state ritrovate anche tecnologie litiche lavorate con una tecnica già conosciuta agli archeologi, nota come “Modo 3” o Levallois (località francese dove è stata ritrovata per la prima volta), solitamente associata sia a Homo sapiens sia a tardi Neanderthal. Una seconda pubblicazione su Science, guidata da Yassi Zaidner dell’università di Gerusalemme, suggerisce infatti che tra la popolazione arcaica di Nesher Ramla e gli Homo sapiens che hanno abitato il Medio Oriente nello stesso periodo ci possano essere stati interscambi culturali.

“Che i Neanderthal e i loro contemporanei avessero sviluppato delle tecniche di scheggiatura della pietra molto più avanzate rispetto a quell’universo cronologico che chiamiamo Paleolitico Inferiore (e che va dai 2,5 milioni di anni a circa 300.000 anni fa, ndr) e a cui associamo il Modo 1 (Olduvaiano, ndr) e Modo 2 (Acheuleano, ndr), non è una novità” spiega Manzi. “Noi sapevamo che a partire da circa 300.000 anni fa iniziano a comparire delle tecniche di scheggiatura della pietra che mostrano una capacità di predeterminazione, questa è la parola chiave, del risultato finale. E proprio questa capacità di prevedere quale sarà il risultato finale ci fa pensare che queste creature, già molto encefalizzate, con un grande cervello, fossero in grado di avere delle capacità nuove rispetto a forme umane precedenti.”

“Questo è vero in Europa come in Africa, con nomi diversi magari dal punto di vista della nomenclatura archeologica. È anche oltremodo interessante, ma anche questo lo sapevamo da prima, che i manufatti litici prodotti dai Neanderthal e quelli prodotti dai primi sapiens arrivati da quelle parti sono quasi indistinguibili. Sarà poi con il Modo 4, quello che chiamiamo Paleolitico Superiore, che Homo sapiens si diffonderà a macchia d’olio. E questo ce lo dicono anche i dati genetici”.

Un altro fossile umano: Dragon Man in Cina

Oltre ai reperti israeliani di Nesher Ramla, un altro fossile ha scatenato un’accesa discussione all’interno della comunità dei paleoantropologi. Il suo ritrovamento è descritto in tre lavori pubblicati su una nuova rivista, The Innovation, del gruppo editoriale Cell.

Si tratta di un cranio che è stato nascosto in fondo a un pozzo per più di 90 anni, dal 1933, da un operaio cinese che lo trovò scavando le sponde del fiume Songhua, a Harbin, nella provincia di HeiLongJiang. L’uomo stava lavorando alla costruzione di un ponte per conto dell’esercito giapponese, che allora occupava il nord della Cina. Sul letto di morte rivelò la presenza del tesoro nascosto a un nipote, che lo recuperò e lo donò nel 2018 all’università di Hebei, in Shijiazhuang.

Il cranio fossile ha più di 146.000 anni, gli è stato dato il nome di Dragon Man e secondo i firmatari dei lavori si tratterebbe di una nuova specie del genere Homo, ribattezzata Homo longi (‘long’ in cinese significa drago). Non solo, ruberebbe proprio ai Neanderthal il titolo di sister group di Homo sapiens, ovvero la specie umana più strettamente imparentata con noi. Le affermazioni dei ricercatori cinesi si basano solo su analisi di evidenze morfologiche, poiché dal cranio di Harbin non è stato per ora estratto DNA antico, che potrebbe chiarire i rapporti di parentela con H. sapiens.

In un intervento su Science, la paleoantropologa dell’università di Cambridge Marta Mirazon Lahr è però più cauta rispetto ai colleghi cinesi, così come Jean Jacques Hublin, entrambi non coinvolti nei lavori pubblicati su The Innvoation. Non si tratterebbe di una nuova specie, bensì del cranio di un Denisova (il nome è di una grotta sui monti Altaj, in Russia), una popolazione umana già nota che ha abitato l’Asia nello stesso periodo in cui i Neanderthal abitavano l’Europa e il Medio Oriente. Dello stesso parere è il paeloantropologo del Natural History Museum di Londra Chris Stringer, che invece ha firmato uno dei lavori su Homo longi.

“Il reperto è di un’importanza davvero notevole” commenta Manzi, “e si aggiunge ad altri reperti importanti che abbiamo in Cina e in India, e che io personalmente tendo a riferire a una linea evolutiva che è uno dei tre grandi rami evolutivi che derivano da una specie arcaica, ancestrale, che chiamiamo Homo heidelbergensis”.

Il nome, spiega Manzi, è dovuto al fatto che il primo reperto, non il più antico, fu rinvenuto intorno ai primi del Novecento vicino a Heidelberg, in Germania. “Homo heidelbergensis è una specie ancestrale di tre rami terminali dell’evoluzione del genere Homo. Uno di questi siamo noi, che nasciamo in Africa. Un altro ramo è rappresentato dai Neanderthal, che compaiono in Europa e poi si diffondono in Vicino Oriente. Ma c’è un terzo incomodo in questa storia, un terzo ramo che è quello asiatico. Sapevamo già che esisteva un ramo di Homo heidelbergensis asiatico, che poi è diventato importantissimo quando abbiamo scoperto i Denisoviani: li abbiamo conosciuti soprattutto da dati genetici, da estrazioni di DNA anche da frammenti minuti”.

“Disgraziatamente non sappiamo agganciare il dato genetico con l’informazione morfologica” spiega Manzi “che pure c’è in Asia, proveniente non dalla grotta di Denisova, ma dal Tibet ad esempio, o dalla Cina e un caso dall’India. A questi reperti si aggiunge il nuovo cranio di Harbin, straordinariamente conservato e molto informativo, secondo me, di quest’umanità che è il ramo asiatico di Homo heidelbergensis, destinato a diventare ciò che chiamiamo i Denisoviani, un gruppo che non ha un nome di specie ma che forse lo meriterebbe, nel momento in cui riuscissimo a identificare una linea di demarcazione tra gli Homo heidelbergensis asiatici e i Denisoviani, così come siamo riusciti a identificare una linea di demarcazione tra Homo heidelbergensis africani e Homo sapiens o tra H. heidelbergensis europeo e i Neanderthal”.

“Detto questo, per quanto riguarda Harbin, io vedo una morfologia molto arcaica che si combina molto bene con altri reperti che già avevamo. Da questo punto di vista la denominazione di una nuova specie mi sembra eccessiva. C’è un reperto che viene da un sito che si chiama Dali (provincia dello Shaanxi, in Cina, ndr), che ha già un nome e secondo la mia personale tassonomia è Homo heidelbergensis daliensis, cioè la linea asiatica di Homo heidelbergensis. La datazione di Harbin è solo una data minima, è più antico di 146.000 anni, ma potrebbe essere anche 300.000 anni, non lo sappiamo esattamente e dunque non possiamo collocarlo lungo la linea evolutiva che corre tra H. heidelbergensis e Denisova. Harbin, insieme agli altri reperti asiatici sta vicino, chi più chi meno, a quell’infiorescenza terminale che chiamiamo Denisoviani”.

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