SOCIETÀ

Un nuovo manifesto per il capitalismo?

Nel 1971 Klaus Schwab, eminente economista tedesco, dà vita al World Economic Forum, un’organizzazione che si propone, in origine, di avvicinare il mondo industriale europeo al modello capitalistico americano. Sotto il patrocinio dell’Unione Europea, il Forum organizza sin dall’inizio, in gennaio, un incontro cui partecipano (su invito) i principali manager, industriali e leader politici mondiali – nonché una rosa selezionata di giornalisti, scienziati, leader religiosi ed esponenti del mondo della cultura – per discutere delle principali tematiche economiche, ma anche sociali e ambientali, del presente.

Da sempre, il Forum si dichiara apertamente a favore del modello neoliberista americano (il cosiddetto shareholder capitalism, letteralmente “capitalismo degli azionisti”), il quale si pone come scopo principale, e pressoché unico, il perseguimento del profitto. Nel 1973, il Forum approva un documento che rappresenterà, nei decenni successivi, il codice deontologico fondante del capitalismo: si tratta di un testo articolato in sei punti, in cui si affronta il complesso tema del rapporto tra le imprese e la società. Il focus è tutto sul guadagno che investitori, lavoratori e altri portatori d’interesse hanno diritto di ottenere dall’attività economica; l’obiettivo ideale consiste, infatti, nell’armonizzare questo vantaggio dei singoli con il bene comune: perché l’impresa possa adeguatamente servire la società, è perciò importante che le siano assicurati ampi margini di profitto, che sono «lo strumento necessario per permettere all’amministrazione di servire i suoi clienti, gli azionisti, gli impiegati e la società».

Per quanto un simile programma abbia, in via teorica, una certa attrattiva, si è rivelato, all’atto pratico, ben lontano dal generare un benessere condiviso. Negli ultimi cinquant’anni la società mondiale, sotto l’influenza sempre più incisiva dell’economia neoliberista, ha subìto modificazioni profonde: esse – per ammissione dello stesso Schwab – non possono più essere ignorate, ed è necessario che l’economia stessa si adegui ad esse. Le maggiori multinazionali sono cambiate in modo radicale: all’alba della Quarta Rivoluzione Industriale, esse si basano sempre più sulla tecnologia e fanno sempre minor affidamento sull’estrazione di risorse naturali; inoltre, i Paesi in via di sviluppo si stanno ormai affermando come veri e propri protagonisti della scena economica mondiale: se nel 1970 solo lo 0,4% delle società multinazionali provenivano da Paesi emergenti, nel 2008 il dato era salito al 15,8%.

La concentrazione delle risorse nelle mani di pochi, grandi soggetti economici ha avuto, tuttavia, effetti negativi su larga scala: negli ultimi decenni sono vertiginosamente aumentate, tanto nei Paesi industrializzati quanto in quelli in via di sviluppo, le disuguaglianze economiche e sociali; dato confermato anche dal recente rapporto Society at a glance 2019, rilasciato dall’OCSE. Per non parlare dei disastri ambientali che decenni di gestione economica concentrata solo sul breve periodo e sulla costante ricerca di un profitto immediato hanno prodotto; danni con cui già noi, e soprattutto le future generazioni (il che, concretamente, non significa altro che i nostri figli e nipoti), dovremo presto fare i conti.

In questi anni, ad ogni modo, sono esponenzialmente aumentate le pressioni sociali per un cambiamento di tale sistema, che sembra ormai essersi avviluppato in un circolo vizioso senza via d’uscita. Sono sempre più le aziende che prestano attenzione all’aspetto della sostenibilità (economica, ambientale e sociale), e moltissime sono le proposte per un’innovazione nell’economia, sviluppate anche da illustri studiosi – tra cui, non ultimo, il premio Nobel per l’economia del 2018, David Nordhaus.

Anche nell’alta finanza e tra le grandi imprese sta raccogliendo, di recente, crescenti consensi una nuova forma di capitalismo non più basata soltanto sulle necessità degli azionisti, ma che si fa carico delle esigenze di un ben più vasto bacino di portatori d’interesse: si tratta del cosiddetto stakeholder capitalism, il cui successo è comprovato anche dal fatto che, nel 2019, lo US Business Roundtable (la più importante business lobby americana) abbia annunciato la sua adesione ad esso.

È sufficiente convertirsi ad una nuova forma di capitalismo, per quanto più inclusiva e sostenibile, per superare i problemi che il capitalismo stesso ha posto?

Il World Economic Forum, raccogliendo queste molteplici istanze, presenterà durante il prossimo incontro, a gennaio 2020, un nuovo Manifesto: esso costituirà il nuovo codice etico per il mondo economico, a cui si suggerirà proprio l’adesione al modello dello stakeholder capitalism. Il testo non mette più al centro soltanto il profitto, ma propone una visione più vasta, in cui le imprese devono diventare un punto di riferimento per il tessuto sociale in cui operano. Uno degli articoli, significativamente, enuncia: «Un'impresa serve la società nel suo complesso attraverso le proprie attività, supporta le comunità in cui lavora, e paga una quota equa di tasse. Garantisce un uso sicuro, etico ed efficiente dei dati. Agisce come amministratore dei beni ambientali e materiali per le generazioni future. Protegge, con coscienza, la nostra biosfera e sostiene un’economia circolare, condivisa e rigenerativa. Espande continuativamente le frontiere di conoscenza, innovazione e tecnologia per migliorare il benessere delle persone» (art. A.IV); e ancora: «Una compagnia è più di un’unità economica generatrice di ricchezza. Soddisfa le aspirazioni umane e sociali come parte di un più vasto sistema sociale. Il suo successo va misurato non solo con riguardo al guadagno degli azionisti, ma anche in base a come essa raggiunge i suoi obiettivi sociali, ambientali e di buona gestione» (art. C). Chiaramente, l’intento è quello di promuovere un approccio più integrato alle diverse sfide che caratterizzano la nostra epoca, dalla crisi climatica all’ingiustizia sociale, alle nuove frontiere della conoscenza e della tecnologia.

Riconosciuti, tuttavia, quelli che sulla carta sono innegabilmente nobili intenti, sorge spontanea una domanda: è sufficiente convertirsi ad una nuova forma di capitalismo, per quanto più inclusiva e “sostenibile”, per superare i problemi che il capitalismo stesso ha posto? Non è forse necessario un cambiamento più radicale?

Quella del WEF è una mossa sicuramente intelligente, e per alcuni versi lungimirante; rischia, però, di produrre un effetto più formale che sostanziale. Il prossimo meeting di Davos sarà, in ogni caso, un appuntamento cruciale: darà la possibilità, una volta di più, ai “potenti della Terra” di inaugurare un nuovo approccio – un New Deal – alle più pressanti questioni della nostra epoca.

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