Teodoro Wolf Ferrari, Le betulle (1913)
Più di due metri di cielo, verticalità blu solo incorniciata, in basso, dalla presenza umana: un villaggio lontano, un uomo steso all’ombra di betulle. Un grande quadro del tedesco Oskar Zwintscher che polarizza l’attenzione in una delle sale dedicate al paesaggio nella mostra L’ossessione nordica, in questi giorni a Rovigo. E poi betulle nella luce rosa fra le nuvole, e acque scure che specchiano un cielo giallo: Teodoro Wolf Ferrari, artista veneziano, qui trova posto accanto al proprio modello, un Gustav Klimt che da Stagno al mattino fa emergere la stessa impalpabile malinconia. I paesaggi dell’anima abitano la pittura italiana quanto gli esempi nordeuropei, assimilati nel limitare fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del secolo successivo. Si muovono con la stessa morbidezza le danzatrici del Corteo di primavera di von Stuck e quelle della Visione antica di Cesare Laurenti; le nevi gelide ma domestiche del finlandese Akseli Gallen- Kallela tornano sul “Monte Civetta” di Sartorelli. Seguendo la lezione di Klimt, il paesaggio vive indipendentemente dall’uomo, del quale interiorizza sensibilità e stati d’animo, assumendo spessore. Gli italiani, soprattutto veneti e lombardi, assimilano le luci, i temi, i colori, il senso stesso della pittura degli artisti del Nord, unico enorme calderone geografico dove le componenti scandinava, austriaca, tedesca, convivono con quelle scozzese, svizzera, fiamminga e olandese, in un insieme di affinità espressive di matrice comune, probabilmente rintracciabile in una stessa formazione francese, a Parigi e Pont Aven, priva però di ogni ingessatura accademica.
Alfons Siber, Risveglio di primavera (1905)
La spontaneità, l’antiaccademismo e la non convenzionalità dei soggetti e della loro interpretazione fanno degli esponenti dell’arte “nordica” i portatori di una nuova modernità artistica in Italia a cavallo fra Otto e Novecento. È prima di tutto la Venezia delle primissime Biennali d’arte a diventare il ponte attraverso cui questa carica rivoluzionaria valica le Alpi. Ed è Vittorio Pica, critico letterario, il suo “sommesso demiurgo”: lo definisce così il curatore della mostra, Giandomenico Romanelli, che da un articolo del critico ricava il titolo stesso della mostra. Nel 1901 Pica, infatti, sulle pagine di Emporium si lamentava dell’uso di alcuni artisti italiani di dipingere “camuffati da Scozzesi, da Scandinavi o da Tedeschi. […] Parecchi di essi, sotto l’ossessione nordica, hanno a torto rinunciato a certe essenziali doti latine”. Un’ossessione che diventava palese nelle Biennali dei primi anni del Novecento, per la costante presenza di opere di Böcklin, il grande maestro, e dei suoi seguaci come Diefenbach, ma anche di Klimt, Munch, Hammershøi. Di pittori come Zorn, artista svedese affermato a livello internazionale ma sempre legato alla propria terra, che del suo popolo dipinge un ritratto disarmante ne La fiera di Mora: istantanea di un momento che s’incanta nello sguardo scorato di una ragazza seduta a terra, le guance rosse, e di un corpo esanime riverso ai suoi piedi, mentre carri e persone si muovono convulsi sullo sfondo. O del cantore della domesticità scandinava, Carl Larsson, che acquerello dopo acquerello appunta ogni minimo particolare della propria casa e dei suoi abitanti, della moglie Karin, della cameriera Martina, del vicino sorridente fra la neve, all’esterno del suo mondo perfettamente svedese. Una domesticità gioiosa che s’infrange nell’enigmatica e cupa atmosfera degli interni di Vilhelm Hammershøi: nei marroni e nei grigi sfumati, una donna di spalle, al cui fianco porte aperte in successione sfondano stanze, spazi essenziali, denudati, carichi di pathos. Questi e altri artisti sono presenti oggi a Rovigo, come lo sono stati un secolo fa a Venezia: un gruppo di opere fondamentali nel tracciato della scelta “nordica” delle prime Biennali. Accanto agli esponenti stranieri, un folto contingente italiano, dunque, che sul sentiero solcato nel Nord si muovono secondo interpretazioni originali, da Laurenti a De Chirico, da Casorati a Garbari.
Si sovrappongono gli emblemi del Simbolismo, l’apoteosi e la caduta del mito, il trionfo della natura e del corpo umano, nudo, che ne fa parte integrante, lontano dall’immobilità cui lo avrebbe costretto la posa in studio. La gente del nord è protagonista nei ritratti della lattivendola di von Bartels, con la cuffia bianca tenuta dagli spilloni dorati, e del pescatore di Ancher, stretto al timone, in mezzo al mare. In mezzo a loro, la dolcezza delle bambine di Casorati, la ragazza nell’autunno di Laurenti, le bagnanti di Tito. Il Nord, in Italia, diventa quotidiano.
Felice Casorati, Le due bambine (1912)